La violazione dell’obbligo di buona fede nella fase di conclusione ed esecuzione del contratto
05 Maggio 2014
La violazione dell'obbligo di buona fede nella fase di conclusione ed esecuzione del contratto è suscettibile di generare ex se, a prescindere dall'esperibilità o dal concreto esperimento dei rimedi contrattuali, una responsabilità fonte di obbligazione risarcitoria?
In passato si affermava diffusamente, in giurisprudenza, che le trattative finalizzate alla conclusione di un contratto potessero dare luogo a responsabilità precontrattuale (e dunque ad un'azione risarcitoria) nei soli casi in cui non seguisse la stipula dello stesso, giacché in tal caso esse perdono ogni autonomia e ogni giuridica rilevanza, convergendo nella struttura contrattuale che diviene l'unica fonte di possibile responsabilità risarcitoria (ex multis, Cass. civ., sent. n. 16937/2006). Tale orientamento è stato, nel corso del tempo, variamente criticato da chi ha messo in rilievo come il contenuto dell'art.1337 c.c. concerna tutte le violazioni del dovere di buona fede, sia che il contratto non si sia perfezionato sia che il contratto sia, invece, stato concluso. Ciò alla luce di varie argomentazioni, tra cui quella che mette in rilievo la diversità di ratio della responsabilità contrattuale e della responsabilità precontrattuale, la prima mirando a tutelare l'adempimento delle obbligazioni assunte; la seconda mirando a tutelare l'affidamento della controparte, ove per affidamento tutelato non deve intendersi (solo) quello riposto nella conclusione del contratto, ma (anche) quello che ha ad oggetto il reciproco comportamento secondo buona fede in ogni momento dell'attività negoziale: da quello preparatorio, a quello genetico, a quello dell'esecuzione (anche se qui si entra nell'ambito di applicazione di un'altra norma, l'art. 1375 c.c.). Una recente, dotta sentenza della Suprema Corte – posta a suggello dell'orientamento interpretativo affermato dalle Sezioni Unite con le sentenze Cass. S.U. n. 26725/2007 e Cass. S.U. n. 26724/2007, e poi ribadito da Cass.civ., sent. n. 24795/2008 - ha definitivamente contribuito all'affermazione del principio secondo cui la violazione della regola di buona fede nelle trattative contrattuali, che abbia dato luogo ad un assetto d'interessi più svantaggioso per la parte che abbia subìto le conseguenze della condotta contraria a buona fede, è fonte di responsabilità rilevante sul piano extracontrattuale, pur in presenza di un contratto valido, ovvero - nell'ipotesi di invalidità dello stesso - in assenza di una sua impugnativa basata sugli ordinari rimedi contrattuali (Cass. civ.,sez. III, sent., 17 settembre 2013, n. 21255). In altre parole, è sempre possibile un rimedio risarcitorio ai sensi dell'art. 1337 c.c.: sia quando il contratto sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto; sia quando il contegno delle parti rende in concreto invocabili le norme sui vizi del consenso, sulla incapacità e sulla rescissione. Con la sentenza in commento risulta autorevolmente confermata l'indipendenza del rimedio risarcitorio rispetto a quello demolitorio, nell'ambito di un globale ripensamento del rapporto tra regole di responsabilità e regole di validità, le quali ultime non esauriscono ogni valutazione sui contegni delle parti nella fase formativa del contratto. Come messo in rilievo dai commentatori, la risarcibilità del danno da scorrettezza, in funzione correttiva dell'equilibrio economico risultante dal contratto, è compatibile con il principio di certezza e stabilità dei fatti giuridici, perché validità e responsabilità operano su piani diversi e non possono entrare in collisione. Se, infatti, le regole di validità sanciscono le condizioni di efficacia del titolo per l'ordinamento e per i terzi, quelle di responsabilità giudicano la mala fede del contraente senza incidere sul controllo strutturale dell'atto.
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