Il cattivo esempio di Ivan Ilic (qualche nota ancora sul danno terminale)

Maurizio Hazan
15 Giugno 2017

Nulla di ciò che prova Ivan Ilic, e dice Tolstoj, ha a che vedere col danaro; se leggessimo il danno terminale con gli occhi di Ilic e il cuore di Tolstoj, il solo pensare alla sua risarcibilità sarebbe un'offesa.
Il cattivo esempio di Ivan Ilic

Il capolavoro di Tolstoj è uno dei testi più facili a leggersi (per bellezza di scrittura e scorrevolezza) e difficile a reggersi (sotto il profilo dell'enorme impatto emotivo che provoca al lettore). L'esperienza di Ilic e il suo incontro con la morte imminente è il racconto dell'angoscia esistenziale dell'uomo, di ciascun uomo, di fronte alla consapevolezza della propria finitezza e del senso stesso della vita. È il racconto dell'umanità. Tra disperazione e speranza, tra chi se ne va e chi rimane. È il racconto di tutto ciò che noi – io almeno – sentiamo latente nel nostro animo eppur respingiamo, giorno dopo giorno, momento dopo momento, nel nostro quotidiano dibatterci tra l'utile ed il futile, nella smania di fare o, meglio, di distrarci.

Ma a leggere la storia di Ivan vien da chiedersi se egli, nella sua dilaniante angoscia (finalmente esplosa ma da sempre latente), avrebbe avuto consolazione o ristoro nel sapere, mentre era ancora in vita – dolente ma lucido – di aver diritto a qualche migliaio o milione di rubli, a compensazione del suo drammatico malessere.

Tutto ciò che egli voleva era che «qualcuno lo accarezzasse, lo baciasse, piangesse su di lui, come si accarezzano e si consolano i bambini», non denari, non misurazioni (equitative o meno) del suo dolore.

Mi vien da dire, caro Marozzi, che se potesse sapere oggi, che il suo Ilic – paladino d'amore e di sofferenza – viene preso ad esempio quale leading case del danno terminale, il buon Lev Tolstoj si rivolterebbe nella tomba (magari dando, luogo, per taluni, ad una nuova figura di danno, il post terminale, forse prescritto e difficilmente strutturabile quanto a legittimazione attiva).

Ed ancora: Ivan Ilic costituisce davvero il manifesto della non risarcibilità del danno terminale, specie se si considera che dello stesso fruiranno i suoi congiunti. Quei congiunti di cui Ilic, nel suo dolore, percepisce la distanza e non la prossimità. Per non parlare della moglie, la cui immagine suscita in lui addirittura odio, così come il ricordo del suo alito cattivo.

Per finire, la storia di Ilic è sì, una storia, di angoscia, ma anche di speranze, di lotta col dolore e illusioni di guarigione; lo stesso riscatto finale, con la percezione della morte come momento naturale e liberatorio, è impressionante racconto del cangiar dell'animo anche nelle situazioni di agonia.

Nulla di ciò che prova Ivan Ilic, e dice Tolstoj, ha a che vedere col danaro: non si tratta di sentimenti compensabili con beni della vita, di quella vita che, in quei momenti finali, fatica a trovare il proprio senso, demolendo di senso ogni utilità materiale ed ogni vana soddisfazione professionale, che pur nel vivere quotidiano avevano significato qualcosa.

Se leggessimo il danno terminale con gli occhi di Ilic e il cuore di Tolstoj, il solo pensare alla sua risarcibilità sarebbe un'offesa.

Il punto di contatto con l'idea del danno da morte in generale è sottilissimo.

Ed è ragion per la quale il pretesto del primo (danno terminale) non può esser strumento per liquidare il secondo (danno da morte in senso proprio).

Una questione di metodo

Uscendo dal falso movente letterario, affronteremo l'equivoco in cui, mi pare, risieda buona parte della critica mossa dal Prof. Marozzi.

L'osservatorio, come detto, guarda a ciò che accade, se ne fa interprete onde mediarne – se possibile – le risultanze nell'ambito di un quadro propositivo che possa fungere da orientamento per chi voglia aver qualche punto di riferimento, in luogo di muoversi senza alcun parametro a cui ragguagliare – se non altro per discostarsene motivamente – le proprie scelte equitative del caso di specie.

Ora, il campo del danno terminale costituisce, come perfettamente chiarito dal Presidente Damiano Spera nella sua prima risposta al Prof. Marozzi, uno dei campi di elezione della più assurda anarchia liquidativa, registrando, nelle corti, uno zigzagare di tendenze davvero singolare. Così, a fronte di danni consimili, vi è chi si limita ad applicare le tabelle del danno temporaneo e chi invece eroga una lump sum, in molti casi autenticamente “estratta” dal cilindro.

Per quanto una tal disomogeneità della risposta giudiziale esprima, di per sé, la non agevole –qualificabilità della posta in termini di vero e proprio danno, si è ritenuto che una così incongrua sperequazione di risultati meritasse di esser analizzata, onde fornire – a chi volesse prenderla in considerazione - una chiave di lettura se possibile mediana e razionale.

Nulla di più.

Di qui l'analisi dei precedenti, al filtro delle indicazioni date dalla Cassazione a proposito di alcune coordinate di base del danno terminale, definito catastrofale proprio perché correlato non al fine vita in sé ma allo shock della sua percezione al ricorrere di determinate situazioni di particolare gravità. L'angoscia richiede – volendola risarcire – che si connoti di qualcosa di più e diverso della pur dolorosa, ma fisiologica, sopportazione di uno stato patologico, ancorché di fine vita.

In tutti i casi non catastrofali il risarcimento del turbamento, anche di lunghissimo periodo, può continuare ad essere adeguatamente risarcito facendo leva sulla valutazione giornaliera del danno temporaneo, potenzialmente espanso entro i limiti massimi della sua personalizzazione.

Il tetto dei cento giorni, certamente – e dichiaratamente - convenzionale, costituisce, al netto di troppo facili critiche, una misura in qualche modo arrotondata per eccesso, dal momento che la maggior parte delle casistiche esaminate dalla giurisprudenza prendono in considerazione eventi catastrofali protrattisi per qualche ora o qualche giorno, al massimo. Non per molti mesi o per anni, periodi, tali ultimi, in cui – per la valutazione del turbamento di fine vita – il danno temporaneo “ordinario” sopperisce all'esigenza (previa adeguata personalizzazione).

L'esercizio di ricognizione ed individuazione dei valori complessivamente erogabili è stato poi compiuto vuoi mediando (con difficoltà) i disomogenei valori reperiti dall'analisi dei precedenti, vuoi muovendo dall'esigenza di trovare una via intermedia tra la semplice liquidazione del danno temporaneo e l'opportunità di non giungere a valori tali da reintrodurre, sotto mentite spoglie, il risarcimento del danno da morte, radiato dal sistema ad opera di una giurisprudenza di legittimità che, ad oggi, non pare ammettere incertezze di sorta.

È ancora la Cassazione a dirci che, perché di danno terminale di debba trattare, di consapevolezza e di “lucida” agonia debba parlarsi. Non di coscienza, né di echi di coscienza, o di quant'altro possa suggestivamente registrarsi al filtro dell'interessante panoramica proposta dal dott. Marozzi.

Mi stimolano, affascinano, inquietano – a livello personale – gli spunti proposti circa la sofferenza in stato di incoscienza, così come la tematica delle reazioni cerebrale allo stimolo doloroso anche da parte dei pazienti in stato vegetativo. Ed ancor più sconvolgenti mi paiono le suggestioni di cui il professore parla a proposito della “vita dopo la morte” e dell'esperienza vissuta nei momenti di incoscienza.

Si tratta di argomenti straordinari e, mi permetta il Dott. Marozzi, non è il caso di ricordarlo ai giuristi i quali, prima che giuristi, sono anzitutto uomini; in quanto tali certamente toccati da tali temi bioetici, morali, sofferenziali, esistenziali. Anche all'interno del gruppo di lavoro sul danno terminale ciò di cui il Professore parla è stato considerato, talvolta anche facendo riferimento a vissuti personali.

Ma la fenomenologia dell'esistenza e del dolore (o della speranza, a seconda di come la si guarda) presenta una varietà di possibilità che sfuggono, inevitabilmente, dal campo di inferenza del diritto.

Risarcire ogni suggestione, ogni possibilità, ogni mera eventualità equivarrebbe a distorcere insanabilmente la stessa funzione degli ordinamenti civili: che non possono, e non devono, aver la pretesa di coprire l'intera gamma del possibile e dell'immaginabile. Ancor meno nel campo del risarcimento del danno, dove, dopo tutto, l'allocazione dei costi risarcitori deve considerare – specie in una società del rischio (e del rischio spesso incolpevole) – anche la posizione del danneggiante; di un danneggiante sul quale non (mi) pare poi così opportuno far gravare anche il prezzo dell'immaginifico..

Di sicuro, poi, non sta ad un osservatorio spingersi su frontiere neppure “osservabili”.

Rimane fermo e sovrano, naturalmente, il giudizio del caso concreto, secondo il prudente ed equo apprezzamento che ciascun Giudice potrà esprimere, aderendo o distaccandosi dall'impostazione tabellare proposta.

E quanto, infine, al fatto che la tabella sia stata strutturata in base ad una valutazione giornaliera decrescente (oltre a trovar letteraria conferma, proprio, nel caso di Ilic…che alla fine si pacifica e rasserena…), si tratta di una scelta del tutto aderente all'impostazione seguita, che valorizza uno stato di shock consapevole, tendenzialmente breve e poi degradante (sovente in uno con il degenerare dello stato psicosifico generale) nella sfera di un turbamento meno dinamico, sia pur gravissimo. Di qui l'andamento della curva discensionale, volta a raccordare il danno terminale al biologico temporaneo ordinario (nella sua massima personalizzazione) anche dopo i fatidici cento giorni.

Il tutto senza dire della possibilità di far slittare l'applicazione iniziale della tabella non alla data dell'evento ma al momento iniziale dello stato di shock, che può manifestarsi anche in tempi di molto successivi alla prima manifestazione del danno.

Insomma, credo che la tabella, lungi dal peccare di quella faziosità superficiale che il Prof. Marozzi sembra adombrare, nasce da una consapevole ed attenta ponderazione del materiale esistente e nel tentativo di razionalizzare il razionalizzabile, ad uso di un sistema risarcitorio in cerca di coordinate di riferimento via via migliori. Coordinate che non indicano LA VIA, ma propongono un metodo; metodo il cui pregio sta, quantomeno, nell'indurre chi intenda liberamente distaccarsene di argomentare con serietà il proprio pensiero, al contrario di quanto sin qui, in numerosi precedenti, accaduto.

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