La Cassazione condanna il ricorrente al pagamento di € 5.000 per la totale insostenibilità degli argomenti posti a fondamento del ricorso
07 Marzo 2016
Il caso. Tizio si vede negato il diritto al risarcimento dai giudici di merito, che escludono la sussistenza stessa del sinistro da cui egli sostiene dipendano le lesioni per le quali agisce in giudizio. Ricorre dunque in Cassazione sostenendo (tra l'altro) l'erroneità del giudizio di merito e per dimostrare come sia stata data importanza solo ad alcune prove piuttosto che ad altre.
Divieto di una doppia valutazione delle prove. La Cassazione nel decidere la questione ricorda innanzi tutto il principio, ormai consolidato, secondo cui non è consentita «una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito» (Cass., n. 7394/2010). Infatti «è proprio l'affermazione del ricorrente di voler prospettare, come fondamento del ricorso, il fatto che il giudice non abbia valutato le prove, a dimostrare la incompatibilità del motivo di ricorso col nuovo art. 360, n. 5., c.p.c., come interpretato da Cass. civ., Sez. Un., 8053/2014». Inoltre, la mancanza di argomentazioni tendenti a contrastare la giurisprudenza consolidata è indizio, secondo i giudici di legittimità, dal quale si risale alla sussistenza di colpa grave, consistita nell'ignorare, senza alcun atteggiamento consapevole o critico, le interpretazioni consolidate delle norme anche processuali.
La colpa grave si paga. Essendo il giudizio iniziato in primo grado il 9 marzo 2009, la Corte può applicare “ratione temporis” il quarto comma dell'art. 385 c.p.c., abrogato dall'art. 46, comma 20, L. 18 giugno 2009, n. 69, a norma del quale «quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all'art. 375, la Corte, anche d'ufficio, condanna la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave». La Cassazione premette che, secondo un consolidato e pluridecennale orientamento, «la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione». Tuttavia il ricorrente non solo non ha prospettato l'erroneità di questo indirizzo, ma ha proposto un motivo di ricorso addirittura non più consentito dal novellato art. 360, n. 5, c.p.c., e per di più trascurando l'interpretazione che della nuova norma hanno dato le Sezioni Unite della Cassazione con la sent. n. 8053/2014. Ad avviso della Cassazione il ricorrente ha tenuto una condotta gravemente colposa, «consistita nel non essersi adoperato con la exacta diligentia esigibile (in virtù del generale principio desumibile dall'art. 1176, comma 2, c.c.) da chi è chiamato ad adempiere una prestazione professionale altamente qualificata quale è quella dell'avvocato in generale, e dell'avvocato cassazionista in particolare». La colpa grave (oggi valutabile in tutti i giudizi ai sensi dell'art. 96 c.p.c.) nella fattispecie concreta è rilevata non già dalla mera infondatezza, ma dalla «totale insostenibilità in punto di diritto degli argomenti spesi nel ricorso, a causa della mancanza di argomentazioni tendenti a contrastare la giurisprudenza consolidata: di talché la insostenibilità degli argomenti del ricorrente finisce per costituire un indizio dal quale risalire, ex art. 2727 c.c., alla sussistenza di colpa grave».
In conclusione il ricorrente viene condannato d'ufficio al pagamento di € 5.000,00, in aggiunta alle spese di lite. |