Natura e limiti della consulenza tecnica d’ufficio medico-legale sul nesso causale nei casi di malpractice sanitaria

Antonino Barletta
08 Gennaio 2015

Nella individuazione del nesso di causalità per casi di malpractice sanitaria quali sono le funzioni e i limiti della attività del consulente tecnico nella disciplina del processo civile, in particolare del medico legale in riferimento all' “accertamento della causa del decesso”?

Tizio conveniva in giudizio l'ASL di Canicattì per sentirla condannare al risarcimento dei danni dallo stesso riportati per la morte del padre dovuta a malpractice sanitaria (infezione nosocomiale). Il giudice, nominato il CTU, poneva allo stesso i seguenti quesiti: “accerti il CTU quale è la causa del decesso di Tizio e se la stessa sia etimologicamente addebitabile ai profili di inadempimento esposto in atto di citazione ed in tal caso determini il CTU se gli stessi costituiscano violazione delle leges artis riconosciute dalla scienza medica ovvero di regole di diligenza e prudenza relative al trattamento di pazienti in ambito ospedaliero; in caso di accertata esistenza di nesso eziologico e di violazione delle predette regole accerti il CTU se ne è derivata malattia a carico di Tizio determinandone la durata in giorni ed in termini percentuali”. Affermava il Consulente dell'Ufficio che “In sintesi possiamo affermare che, sotto il profilo della mera possibilità, il contagio di Tizio si può essere verificato sia nel corso del ricovero protrattosi dal 13 giugno al 26 giugno 2004 che in epoca successiva alle dimissioni del 26 giugno 2004. Se invece dal campo delle mere possibilità si scende in quello delle probabilità, può affermarsi che l'ipotesi che trova maggior suffragio è quella di un contagio realizzatosi in epoca successiva alle dimissioni del 26 giugno 2004. In ambito civile, può pertanto affermarsi che una infezione nosocomiale, anche se possibile, non può ritenersi più probabile che non”. Tizio contestava tale affermazione argomentando che il Consulente dell'Ufficio aveva invaso un campo di stretta competenza del giudice al quale, di fatto, si era surrogato con un'indebita intrusione nel campo del diritto. Affermava lo scrivente che questioni come quella di possibilità, probabilità, più probabile che non, nesso causale materiale, nesso causale giuridico … dovevano e potevano essere esaminate solo dal Giudicante il quale, peraltro, non aveva formulato alcun quesito nei termini che furono oggetto delle indebite risposte del CTU. Continuava Tizio deducendo che il consulente doveva esprimersi sul nesso causale, che era cosa ben diversa dall'esprimersi in termini di “più probabile che non”, sostituendosi in tutto e per tutto al giudice. Invocava a sostegno del proprio assunto quanto segue: “Si è verificato quello che da autorevole dottrina (Marco Rossetti, Il CTU: l'Occhiale del Giudice, Giuffrè 2012) viene definito come un caso di rumore: ‘si ha rumore quando il medico legale deborda dai quesiti postigli affrontando questione non richieste o semplicemente non necessarie. Nell'ambito del rumore deve farsi rientrare altresì la formulazione di pareri o, peggio, affermazioni recise di contenuto giuridico in merito ai fatti di causa. Come già detto, in questi casi il medico legale, oltre ad invadere un compito istituzionalmente riservato al giudice, corre il rischio di indurre in errore alcune delle parti sulle istanze istruttorie o sul tipo di conclusioni da rassegnare' ”.Risposta del CTU: il consulente ha espresso solo un parere tecnico che, in quanto tale, è anche di sua spettanza.

Quali sono i confini dell'attività del consulente tecnico in questo caso?

Per orientamento consolidato in giurisprudenza la consulenza tecnica d'ufficio può essere senz'altro disposta dal giudice, allorché occorra utilizzare particolari nozioni tecnico-scientifiche in ordine all'accertamento dei fatti di causa; il che non di rado avviene nei casi di malpractice sanitaria, ove sia necessario ricorrere a conoscenze medico-legali. In queste ipotesi l'attività del consulente può essere definita “percipiente”, per distinguere la funzione svolta da tale consulente da quella “deducente” ordinariamente esplicata in sede di c.t.u. In particolare, la consulenza tecnica “deducente” ricorre quando la funzione dell'esperto nominato dal giudice è limitata a fornire elementi per consentire a quest'ultimo una valutazione delle prove acquisite e/o da acquisire al processo, mentre quella “percipiente” è appunto diretta a stabilire la sussistenza o meno di fatti rilevanti per la decisione nel merito, utilizzando all'uopo particolari competenze tecniche. I limiti della c.t.u. “percipiente” finiscono per coincidere con quelli applicabili al giudice nella decisione sul fatto ai sensi degli artt. 112 e 115 c.p.c., dovendo quest'ultimo limitarsi a svolgere la propria attività percettiva nei limiti del thema decidendum e nell'ambito dei fatti ritualmente acquisiti al processo. In proposito, di recente, la S.C. ha osservato che “si distingue in giurisprudenza (Cass. S.U., 4 novembre 1996, n. 9522), la figura del consulente deducente e del consulente percipiente nel senso che, nella prima ipotesi, la consulenza presuppone l'avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto fatti già completamente provati dalle parti, mentre nella seconda, essa stessa potrà sì costituire fonte oggettiva di prova, ma anche qui è sempre necessario che la parte abbia dedotto quanto meno il fatto che pone a fondamento della propria domanda di cui il giudice affida l'accertamento ad un ausiliario in possesso di cognizioni tecniche che egli non possiede. In altri termini è in ogni caso ineludibile l'individuazione del fatto costitutivo della domanda devoluto alla cognizione del giudice e che si riflette, per derivazione, sui limiti intrinseci del mandato conferito al c.t. (oltrepassando i quali si incorrerà nel vizio di extrapetizione per interpolazione della causa petendi) e, parallelamente, sull'estensione dell'indagine dal c.t. che non può da essi decampare” (così Cass., sez. III, 5 febbraio2013, n. 2663). Inoltre, deve essere esclusa ogni attività di tipo esplorativo da parte del consulente tecnico (Cass., sez. III, 23 febbraio 2006, n. 3990, in Giust. civ. Mass., 2006; Cass., sez. II, 15 aprile 2002, n. 5422, in Giust. civ. Mass., 2002).

Oltre ai limiti direttamente riferibili all'ambito della cognizione del giudice, il consulente deve attenersi ai termini del quesito a lui rivolto e comunque alla funzione che può essere riconosciuta per legge allo stesso consulente; giacché – come abbiamo visto – la c.t.u. può essere al più riferita all'accertamento di fatti e non alla componente squisitamente giuridica del giudizio (Cass., sez. lav., 4 febbraio 1999, n. 996, in Giust. civ. Mass., 1999; C. Mandrioli - A. Carratta, Diritto processuale civile, Torino, 2014, II, 207, nota 6).

Il quesito descritto riguarda chiaramente un'ipotesi di c.t.u. percettiva concernente, inter alia, il nesso di causalità. In ispecie, il riferimento all'accertamento della “causa del decesso” va inteso nel senso che il consulente tecnico è richiesto di svolgere il c.d. giudizio controfattuale, al fine di verificare l'eventuale sussistenza di circostanze condizionanti, alternative a quanto è riferibile alla sfera di controllo del convenuto; più in generale, non può ritenersi estraneo al medesimo quesito il compimento di tutti gli accertamenti necessari e utili in relazione all'applicazione dei criteri della c.d. causalità giuridica.

A proposito di un danno tanatologico riferito all'origine a un trauma del rachide cervicale, la S.C. ha recentemente osservato che in presenza di una possibile serie causale alternativa (attività lavorativa del danneggiato) è compito del giudice spiegare “se … fu causa o concausa del danno con quanto ne consegue sul piano della quantificazione…; se… la genesi tecnopatica del danno sia da ritenere una certezza, una probabilità od una possibilità, con quanto ne consegue sul piano dell'accertamento del nesso causale” (così Cass., sez. III, 4 novembre 2014, n. 23425, in Giust. civ. Mass., 2014), ponendo alla base di tali accertamenti una c.t.u. medico-legale.

Dal medesimo arresto, peraltro, si trova una specifica conferma del fatto che in sede di c.t.u. è possibile effettuare ogni valutazione riferibile alla decisione sul nesso di causalità, anche quando ciò implichi l'applicazione di criteri di tipo giuridico, non costituendo ciò in sé un'ipotesi di “rumore” nell'accezione accolta dalla dottrina (cfr. M. Rossetti, Il C.T.U. L'Occhiale del giudice, Giuffrè, Milano, 2012, 225 ss.). Semmai è da censurare, ad es., “il consulente [che] ha violato le regole euristiche di accertamento dei fatti, perché dopo avere ammesso che la persona visitata aveva sofferto multipli infortuni, tutti interessanti il tratto cervicale della colonna vertebrale, e dopo avere ammesso essere inconoscibile ‘l'entità del danno derivata da ciascun sinistro ', ha ritenuto ugualmente di concludere nel senso che i postumi permanenti accertati al momento della visita medico-legale … fossero in parte derivanti dall'infortunio … e [di] determinarne la misura in via equitativa” (così Cass., sez. III, 4 novembre 2014, n. 23425, cit.).

Del resto, l'accertamento del nesso di causalità nei casi di malpractice sanitaria implica necessariamente anche l'applicazione di nozioni giuridiche, che vanno a saldarsi e (in larga misura a sovrapporsi) con accertamenti fattuali e/o con l'applicazione di regole e nozioni tecniche (nel caso di specie) di natura medico-legale. Si tratta, in altre parole, di vagliare questioni in larga misura di natura mista di fatto-diritto; il che però non risulta affatto estraneo alla funzione riservata al consulente tecnico nella disciplina del processo civile.

Occorre però tenere presente un'avvertenza, che discende dalla peculiarità della c.t.u. avente a oggetto il nesso causale.

È il vero, infatti, che nei casi di c.t.u. “percipiente” il giudice può in genere limitarsi ad aderire all'accertamento effettuato dal consulente senza motivare in modo esplicito tale adesione; a meno che le parti non oppongano critiche specifiche e circostanziate, nel qual caso deve prendere in esame tali critiche nella propria motivazione, non potendosi limitare a una generica adesione alla relazione del consulente d'ufficio (Cass., sez. lav., 19 gennaio 2011, n. 1149, in Giust. civ. Mass., 2011; Cass., sez. III, 24 aprile 2008, n. 10688, in Giust. civ. Mass., 2008; Cass., sez. III, 1 marzo 2007, n. 4797, in Diritto e Giustizia online, 2007; Cass., sez. I, 22 febbraio 2000, n. 1975, in Giust. civ. Mass., 2000; Cass., sez. II, 24 novembre 1997, n. 11711, in Riv. it. medicina legale, 1999, 982). Nondimeno, allorché la c.t.u. abbia ad oggetto l'accertamento della relazione causale relativa al verificarsi di un danno la Cassazione osserva che è necessario sottoporre ad un attento vaglio l'operato del consulente, non limitandosi a recepire acriticamente le conclusioni di quest'ultimo, in ispecie “spiegando alla luce dei criteri di causalità giuridica, se vi sia o no la prova d'un valido nesso eziologico” (così ancora Cass., sez. III, 4. novembre2014, n. 23425, cit.).

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