La Cedu condanna l’Italia per l’inadeguata sanzione dei responsabili delle torture commesse alla scuola Diaz
08 Aprile 2015
Corte Edu, sez. IV, 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia (ric. n. 6884/11)
Il caso. Il ricorrente alla Corte di Strasburgo, nato nel 1939, era una delle vittime - il più anziano - del violento pestaggio posto in essere dalla polizia durante l'irruzione nella scuola Diaz, una delle sedi del Genova Social Forum, occorsa il 21 luglio 2001 in occasione del G8 genovese. In tale occasione gli agenti gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole.
I tre gradi di giudizio penale in Italia. Nel 2004 il Sig. C., insieme a numerose altre vittime, si era costituito parte civile nel processo penale instauratosi a Genova, conclusosi infine con la pronuncia Cass. pen., sez. V, 5 luglio 2012, n. 38085. Le sentenze di entrambi i giudici del merito avevano messo in evidenza come fosse da ritenersi dimostrato che le violenze perpetrate dalla polizia erano state di una gravità inusitata: «s'era trattato di violenza non giustificata […], punitiva, vendicativa e diretta all'umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime. […]. Puro esercizio di violenza quindi» (così, in sintesi, la Cassazione). Già in primo grado il Sig. C. aveva conseguito una provvisionale di 35.000 Euro (in concreto ottenuta nel 2009). Sennonché, tra indulti, prescrizioni dei reati ed attenuazioni delle pene (complice la L. 29 luglio 2006, n. 241), aveva dovuto assistere alla sostanziale assenza di un'adeguata repressione penale dei crimini perpetrati dagli agenti e dai rappresentanti delle istituzioni. La stessa Suprema corte aveva dato atto della mancanza nell'ordinamento interno di una norma incriminatrice tale da sanzionare espressamente in modo autonomo comportamenti del genere, prospettando come questi potessero essere ricondotti al novero delle torture secondo la definizione della Convenzione dell'O.N.U. contro la tortura del 10 dicembre 1984, ratificata nel 1988, e l'art. 3 Cedu («Proibizione della tortura»), in base al quale «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti», così come costantemente interpretato dalla Corte di Strasburgo. Peraltro, diversi autori dei reati non erano stati identificati e per quelli individuati non erano scattate neppure sanzioni disciplinari.
Il ricorso alla Corte di Strasburgo. Il ricorrente, richiamandosi agli artt. 3, 6 e 13 Cedu, aveva sostenuto che i responsabili degli atti di tortura subiti non fossero stati adeguatamente puniti dallo Stato italiano, ciò a causa della mancata adozione di una normativa adeguata alla repressione di tali condotte e, ad ogni modo, della contestuale previsione di norme tali da ridimensionare in modo significativo, innanzitutto sul versante prescrizionale, l'effettività e la congruità delle sanzioni penali a carico degli autori di torture, a ciò aggiungendosi l'assenza di sanzioni disciplinari nei confronti di questi. In pratica il ricorrente lamentava la totale inadeguatezza della reazione dell'ordinamento penale italiano rispetto ai gravi reati subiti, con conseguente violazione dei predetti articoli della Convenzione e, quindi, con suo diritto, ai sensi dell'art. 41 Cedu, al risarcimento del danno («Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell'Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione alla parte lesa»).
La pronuncia della Corte: la violazione del divieto di tortura. La Corte di Strasburgo si è espressa all'unanimità in ordine alla responsabilità dello Stato italiano. Innanzitutto, la Corte ha inquadrato le violenze subite dal ricorrente alla stregua di vere e proprie torture rilevanti ai sensi dell'art. 3 Cedu. Ciò che più rileva, però, è che la Corte ha ravvisato la violazione di questa norma anche in relazione ad un altro profilo, definito come “procedurale”: l'insufficienza della legislazione italiana e, più in generale, del sistema penale nostrano quanto all'effettiva punizione dei responsabili delle torture perpetrate alla scuola Diaz («la Corte ritiene che la reazione delle autorità sia stata inadeguata a fronte della gravità dei fatti»). Al riguardo la Cedu, richiamandosi a diversi suoi precedenti, ha in primis ricordato «l'obbligo dello Stato di individuare e, se necessario, punire adeguatamente gli autori di atti commessi in violazione dell'articolo 3 della Convenzione». Muovendo da questo presupposto, la Corte ha ravvisato nel caso di specie la concreta violazione di tale obbligo a fronte dei seguenti fattori: 1) la riconducibilità della mancata identificazione degli autori dei maltrattamenti in questione non solo a difficoltà oggettive, ma anche al (non adeguatamente sanzionato) «difetto di cooperazione della polizia durante le indagini» («La Corte si rammarica che la polizia italiana abbia potuto impunemente rifiutarsi di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria per l'identificazione di agenti che potrebbero essere stati coinvolti in atti di tortura»); 2) l'intervento di prescrizioni con riferimento a diversi reati (eppure gravi in quanto intervenuti in violazione dell'art. 3 Cedu) e, comunque, l'estrema esiguità delle (poche) pene comminate, ciò anche per effetto dell'indulto previsto dalla L. 29 luglio 2006, n. 241. In particolare, a quest'ultimo riguardo la Corte di Strasburgo non ha condiviso le ragioni che indussero la Corte d'Appello di Genova a fissare le pene nel minimo previsto dalla legge per ciascuno dei reati che erano in questione (cioè il fatto che l'intera operazione trovasse la sua origine nella direttiva del capo della polizia arresti e che gli autori avessero agito sotto pressione psicologica). Soprattutto, la Corte, anche con riferimento agli effetti della L. 29 luglio 2006, n. 241, ha ritenuto che «la legge penale italiana applicata in questo caso […] ha dimostrato di essere inadeguata rispetto all'esigenza della sanzione della tortura», difettando, peraltro, anche sul piano della funzione deterrente («manca il necessario effetto deterrente per prevenire simili violazioni dell'art. 3 in futuro»). Il Governo italiano si era difeso osservando tra l'altro come ad ogni modo i giudici italiani avessero riconosciuto la responsabilità del Ministero degli Interni ed accordato al ricorrente una provvisionale, potendo pertanto quest'ultimo agire in sede civile per il risarcimento integrale dei danni. Secondo il nostro Esecutivo ciò sarebbe stato tale da costituire un adeguato rimedio, con conseguente non ravvisabilità delle violazioni imputate dal ricorrente all'Italia. Peraltro, il Governo sosteneva che proprio la possibilità per il ricorrente di avviare un giudizio civile fosse tale da rendere improcedibile il ricorso non essendosi esauriti i rimedi apprestati dall'ordinamento interno. Orbene, la Corte di Strasburgo ha rigettato tali difese, rilevando innanzitutto quanto segue: il risarcimento del danno non è sufficiente a costituire un rimedio esaustivo ed adeguato dinanzi a gravi condotte lesive di diritti dell'uomo come il caso delle torture. Per la Corte «la reazione delle autorità non può essere limitata al risarcimento della vittima»: «La Corte ha ripetutamente affermato che la concessione di un risarcimento alla vittima non è sufficiente a porre rimedio alla violazione dell'articolo 3». In altre parole, per la Corte dinanzi a simili condotte all'obbligo di concedere un risarcimento si affianca quello di «condurre indagini approfondite ed efficaci volte all'individuazione ed alla concreta punizione dei responsabili»: la concessione di un rimedio risarcitorio non fa venir meno il diritto della vittima a conseguire la sanzione penale dei responsabili. Del resto, come osservato dalla stessa Corte, se uno Stato potesse «semplicemente reagire nel caso di maltrattamenti dolosi inflitti da funzionari statali, fornendo un mero risarcimento, senza impegnarsi a perseguire e punire i responsabili, i funzionari statali potrebbero in certi casi violare i diritti delle persone sotto il loro controllo praticamente godendo di totale impunità», sicché «il divieto legale della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti sarebbe privato di effetto utile, nonostante la sua importanza fondamentale». In breve, la concessione della provvisionale a carico del Ministero degli Interni è stata ritenuta lungi dall'ovviare alla violazione dell'art. 3 Cedu. Peraltro, la Corte di Strasburgo ha affermato che la pretesa del Governo, per cui il ricorrente avrebbe dovuto avviare un successivo procedimento civile ai fini del rispetto della regola dell'esaurimento dei ricorsi interni, era tale da imporre «un onere eccessivo per la vittima di una violazione dell'articolo 3», essendosi del resto il danneggiato costituito nel processo penale proprio per conseguire il risarcimento dei danni. Volendo tracciare una sintesi della pronuncia in commento, essa ci consegna un quadro decisamente negativo per il nostro Paese: dinanzi a gravi violazioni di diritti fondamentali (poste, peraltro, in essere da agenti di polizia e da rappresentanti delle istituzioni) lo Stato italiano appresta reazioni estremamente contenute, connotate da ampi margini di impunità per gli autori dei reati, con la conseguenza pure di un netto e periglioso ridimensionamento della funzione preventiva e di deterrence del sistema penale. Ancora una volta indulti, prescrizioni dei reati e sconti nella determinazione delle pene sproporzionati rispetto alla gravità degli illeciti gravano in negativo sull'immagine del nostro Paese. Il messaggio della Corte Europea è chiaro: un sistema penale, che, dinanzi alla violazione di precetti fondamentali della Convenzione, si risolve in assoluzioni per intervenute prescrizioni o condanna a pene esigue o, per indagini inefficaci, neppure individua gli autori materiali di condotte ascrivibili allo Stato, è lungi dal sottrarsi a sentenze Cedu di questo tipo, non essendo sufficiente accordare alle vittime dei risarcimenti, peraltro obbligando queste ultime ad adire i giudici civili per una riparazione integrale. Non sarà l'introduzione del reato di tortura, ancora nella penna del legislatore, a risolvere ogni questione.
Il risarcimento accordato dalla Corte. Le note manchevolezze del nostro sistema penale rischiano di costare sempre di più allo Stato italiano, ora anche sul piano risarcitorio. Tenuto conto della provvisionale conseguita dal ricorrente in sede penale (35.000 Euro) e della possibilità per questo di agire in sede civile per il risarcimento dei danni non patrimoniali connessi alle lesioni personali subite («préjudice corporel causé par l'agression physique»), la Corte di Strasburgo ha ritenuto di liquidare in via equitativa per le riscontrate violazioni dell'art. 3 Cedu la somma di 45.000 Euro a titolo di danno morale («préjudice moral»). Trattasi di un'indicazione di sicuro rilievo non solo per quanto concerne il caso di specie (od altri casi assimilabili, come, per esempio, sempre con riferimento al G8 di Genova, le vittime di Bolzaneto), ma anche per tutti quegli altri casi in cui vittime di gravi violazioni di diritti dell'uomo si trovino dinanzi a giudizi penali tali da concludersi con mere provvisionali e, per causa di difetti nelle indagini o di norme protese all'impunità sostanziale dei rei, senza la soddisfazione morale, per i danneggiati, di un'effettiva punizione dei responsabili materiali delle condotte. Peraltro, occorre considerare come nel panorma giurisprudenziale della Corte Europea tale somma sia senz'altro significativa: liquida tendenzialmente somme molto modeste (essa si trova a confrontarsi con giurisdizioni meno generose rispetto agli Stati membri dell'Unione Europea). |