Invalidità permanente da malattia (ipm) nell'assicurazione privata: aspetti medico legali
08 Giugno 2016
Le motivazioni della sentenza
In premessa ed estrema sintesi, nel caso di specie la Corte di Appello di Milano aveva rigettato la domanda di condanna al pagamento dell'indennizzo dovuto per il rischio di invalidità permanente (di seguito I.P.) in quanto mai avveratosi «perché la malattia contratta dall'assicurato ebbe esito letale». In altre parole il Giudice di merito aveva stabilito che «nessuna invalidità permanente fosse insorta, perché quest'ultima è concepibile solo quando, guarita la malattia, questa abbia lasciato postumi permanenti all'ammalato». Per quanto qui di interesse, fra i motivi di ricorso verso la sentenza di appello, era rimarcata la violazione del criterio di interpretazione secondo buona fede (art. 1366 c.c.), perché escluderebbe l'indennizzabilità di tutte le malattie ad esito infausto, alterando l'equilibrio contrattuale e l'equo contemperamento degli interessi delle parti. La sentenza di Cassazione (Cass. civ., sez.III, 17 marzo 2015, n.5197, v. V. Papagni, Nessun indennizzo per invalidità permanente nel caso di morte dell'assicurato, in Ri.Da.Re.) ha ritenuto insussistente la violazione del criterio di interpretazione secondo buona fede: «…sia perché anche tale criterio è suppletivo, e non viene in rilievo quando la lettera del contratto sia inequivoca; sia perché è proprio l'interpretazione propugnata dal ricorrente a sovvertire l'equilibrio contrattuale, pretendendo il pagamento dell'indennizzo dovuto per l'invalidità permanente in un caso in cui la malattia dell'assicurato aveva causato la morte dell'assicurato, non la sua invalidità: così trasformando una polizza malattia in una polizza vita». E, infatti, l'analisi dei tre motivi di ricorso (inammissibili e/o infondati) ruota sostanzialmente intorno al significato da attribuire all'espressione “invalidità”: qualificato come «lemma tecnico … frutto di una elaborazione quasi secolare in ambito medico-legale». Il Giudice di Cassazione, a proposito di invalidità temporanea e permanente, richiamate le più scolastiche definizioni della trattatistica medico-legale (peraltro omettendo specifiche citazioni di letteratura); ricordato quanto desumibile dal Codice delle Assicurazioni (D. Lgs. n.209/2005) e dalle «infinite norme assicurative e previdenziali»; e riprese precedenti pronunce della Suprema Corte; conclude nei seguenti termini: «L'espressione invalidità permanente designa uno stato menomativo divenuto stabile e irremissibile, consolidatosi all'esito di un periodo di malattia: pertanto, prima della cessazione di questa, non può esistere alcuna invalidità permanente. Ne consegue che, ove in un contratto di assicurazione contro i rischi di malattia, sia previsto il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, alcun indennizzo è dovuto nel caso in cui la malattia patita dall'assicurato, senza mai pervenire a guarigione clinica, abbia esito letale». Affermare, in termini tanto lapidari, che la I.P. costituisce uno stato menomativo divenuto stabile, irremissibile, consolidatosi all'esito di un periodo di malattia, denota un rigore logico assoluto e disarmante sul piano giuridico che, tuttavia, non si giustifica e non ha riscontro nella realtà medico-legale in generale e nelle stesse polizze di cui trattasi, da sempre oggetto di severi commenti critici nel mondo medico-legale proprio per essere affatto chiare, anzi spesso oscure o quanto meno ambivalenti. Al riguardo, si vuole ricordare che le norme assicurative e previdenziali (Inail/Inps) non intendono certo la I.P. come vorrebbe la sentenza in esame, tanto che, dopo una prima valutazione, prevedono giudizi tecnici di revisione, aggiornamento, rivalutazione, anche numerosi nel corso degli anni, a riprova che il concetto di “permanenza” non va certo inteso in senso rigoroso (Secondo il decreto 38/2000, la revisione del danno permanente da infortunio può essere disposta dall'Inail o richiesta dalla persona, entro dieci dalla data di decorrenza della rendita: nei primi 4 anni l'infortunato può essere invitato a sottoporsi a visita per quattro volte; e dopo i primi 4 anni sono possibili altre due revisioni). Quanto al Codice delle Assicurazioni poi, che si colloca in ambito responsabilità civile, è di tangibile evidenza quotidiana come nessun medico-legale (anche nelle vesti di Ctu) intenda mai la I.P. con il rigore assoluto preteso dal Giudice di Cassazione, atteso che (come ben noto al tecnico) troppo spesso si sarebbe obbligati al rinvio a future rivalutazioni, in ragione di sempre possibili evoluzioni in senso migliorativo di quanto riscontrato nell'attualità (ad esempio, per trofismo muscolare, mobilità articolare, eccetera): e ciò comporterebbe impossibilità a definire i sinistri in tempi ragionevoli, per intollerabile comportamento dilatorio delle società di assicurazioni, oltre che per risposta delle parti danneggiate con citazioni in giudizio e non meno intollerabili rallentamenti processuali provocati dai Ctu, di cui certo non se avverte il bisogno. Si osserva, a questo punto, che se il lemma tecnico I.P. fosse da intendere come vorrebbe la sentenza in esame, ai fini applicativi della polizza di cui trattasi l'assicuratore potrebbe arrivare a rigettare richieste di indennizzo anche nei casi in cui la malattia, pur ad esito non letale, si cronicizzi con conseguente inabilità temporanea ininterrotta anche per anni, adducendo che mai è stata raggiunta la stabilizzazione con I.P.. Al riguardo, si potrebbe obiettare che tutte queste polizze autorizzano comunque la stima della I.P. purché siano rispettati determinati e previsti limiti temporali. Talora è indicato un solo limite, identificato per lo più in almeno un anno dalla denuncia; talaltra è fissato un periodo sia minimo sia massimo, non prima del sesto e non oltre il diciottesimo mese (ed anche fra i centocinquanta e i duecentodieci giorni dalla data di denuncia della malattia). Ciò potrebbe far ritenere che l'assicuratore intenda in senso “elastico” il concetto di I.P., purché siano rispettate le delimitazioni temporali (entro le quali, con tutta evidenza, frequentemente non è esaurita la fase evolutiva della malattia). Ma la “concessione” è solo in apparenza poiché, fermi i limiti temporali, le polizze prevedono comunque il certificato di “guarigione clinica”: e ciò, inevitabilmente, ci porterà a dire di quale rischio “realmente” si occupano le polizze di cui trattasi. Di un certo interesse sembra, al riguardo, la motivazione addotta dal Trib. Milano, sez. XII, sent. n. 7166/1995, in un caso di decesso dell'assicurato sopraggiunto entro un anno dalla denuncia, con indennizzo rifiutato agli eredi (Per quanto in trattazione, vedasi anche Ronchi E., Mastroroberto L., Genovese U., Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità permanente, in responsabilità civile e nell'assicurazione privata contro gli infortuni e le malattie, con contributo medico-legale per la quantificazione della sofferenza morale e del danno da perdita di chances, Giuffrè editore, Milano, II° edizione, 2015, pag. 213 e ss.): «… Conformemente alle deduzioni sul punto di parte attrice, ritiene il collegio che la clausola n. 4, lungi da determinare il rischio coperto dall'assicurazione, venga ad implicare una sostanziale esclusione della responsabilità dell'assicuratore nelle ipotesi di decesso dell'assicurato entro un anno dalla denuncia, con conseguente inefficacia della stessa ai sensi dell'art. 1341 cc., in quanto non specificamente approvata. Tale clausola, inoltre, riveste i caratteri dell'abusività, ai sensi della Direttiva CEE n. 93/10 del 05.04.1993 (poi recepita sia dall'art. 25, l. 6 febbraio 1996, n. 52, sia dal Codice del Consumo del 6 settembre 2005: ndr) e deve considerarsi come non apposta, in quanto realizzante una sorta di franchigia temporale a favore dell'assicuratore, tale da consentire al medesimo di attendere in ogni caso il decorso di un anno dalla denuncia e successivamente di procrastinare senza limiti l'accertamento dell'invalidità, con incoraggiamento di eventuali atteggiamenti dilatori in caso di prognosi infausta, autorizzati dal disposto della clausola n. 11 in tema di trasmissibilità agli eredi del diritto alla indennità». Ma è il momento di tornare alla questione, più propriamente di carattere medico-legale, di cui si è fatto cenno più sopra: quali I.P. da malattia queste polizze assicurino in “apparenza” e quali “in realtà”. Alcune Società di Assicurazione di primaria importanza hanno adottato soluzioni particolarmente restrittive, agendo proprio sul concetto di “stabilizzazione” dei postumi della malattia denunciata. Alcune polizze, ad esempio, stabiliscono che la valutazione della I.P. deve essere praticata entro diciotto mesi dalla denuncia della malattia a fronte della esibizione di un certificato che attesti «… la guarigione clinica o remissione della malattia purché la stessa sia stabile, quantificabile ed a esito non infausto»; ovvero «… quando per effetto della remissione della malattia, le minorazioni risultano stabili, quantificabili ed a esito non infausto a giudizio medico». Ma se, come accennato più sopra, le fattispecie di I.P. di fatto valutate nella realtà quotidiana medico-legale, ancorché non definitivamente stabilizzate, sono tutt'altro che infrequenti in ambito infortuni e responsabilità civile, in sede di polizza contro la I.P. da malattia la stessa casistica è addirittura preponderante. I casi contrassegnati veramente da «fine malattia» o «guarigione clinica», come vorrebbe la interpretazione della sentenza in esame e come vorrebbe la clausola in ordine ai criteri di valutazione di certe polizze come poco sopra richiamato, sono certamente la minoranza ed a ciò si aggiunga che le patologie atte potenzialmente a stabilizzarsi con macro-permanenti, superiori al 24% (valore di franchigia indicato nella maggioranza dei contratti) sono oggettivamente le più gravi, nelle quali la guarigione in senso anzidetto spesso non si raggiunge mai. Ma si tratta proprio delle patologie verso cui l'assicuratore privato si propone e per le quali l'assicurando accetta l'onerosità del contratto temendo il rischio specifico. In molti casi sarebbe oggettivamente impossibile parlare di “stabilizzazione”; ed un medico richiesto di certificare l'esito non infausto della malattia si troverebbe puntualmente ad un bivio: rifiutare il certificato stesso ovvero attestare il falso. Nella interpretazione rigorosa, che qui si critica, finirebbero con il rimanere escluse dalla copertura assicurativa patologie quali le cardiopatie ischemiche, con o senza infarto miocardico, che sfocino in cardiopatie dilatative; molte pneumopatie; le malattie neurologiche degenerative (sclerosi multipla, Parkinson e via elencando); le malattie croniche di fegato ancorché non cirrogene; per non parlare del vastissimo capitolo delle neoplasie maligne che non possono mai considerarsi “stabilizzate” nel senso anzidetto né consentono di affermare mai che non sono ad esito infausto. E si è solo proposto un elenco ampiamente incompleto, limitato alle forme morbose che ricorrono più frequentemente nella casistica quotidiana: anzi, facilmente e senza tema di smentite si potrebbe dire: chi più ne ha più ne metta! Dalla sentenza in esame si evince che secondo parte ricorrente il contratto assicurativo violava il principio di buona fede ex art. 1366 c.c. proprio «perché escluderebbe l'indennizzabilità di tutte le malattie ad esito infausto, alterando l'equilibrio contrattuale e l'equo contemperamento degli interessi delle parti». Ma, come detto, secondo la Suprema Corte non vi fu alcuna violazione del criterio di interpretazione secondo buona fede, anzitutto perché, quale criterio suppletivo, «non viene in rilievo quando la lettera del contratto sia inequivoca». Sulla non-equivocità della lettera del contratto si può certamente convenire: ma qui non può non essere sottolineato come, di fatto, nell'interpretazione sposata dal giudice di legittimità il contraente finirebbe con il versare premi annui a tutela di un rischio solo in apparenza e surrettiziamente presentato come ampio e che in realtà sarebbe così alquanto limitato. Ma, a questo punto, va pure rimarcato il rilievo preliminare della sentenza in esame (vedasi al punto 1.2): «Né ovviamente è consentito a questa Corte supplire a carenze motivazionali dei ricorsi, andando a ricercare d'ufficio quali fossero le norme che il ricorrente intendeva assumere come violate». Lo scrivente non può entrare nel campo giuridico delle clausole vessatorie secondo l. 6 febbraio 1997, n. 52 confluita nel Codice del Consumo del 2005, ma non può non rimarcare come, sic stantibus rebus, l'assicuratore, a fronte di denunce di malattie gravi e che certamente comportano invalidità ampiamente superiori alla consueta franchigia del 24%, abbia un preciso interesse a comportamenti dilatori in attesa del decesso della persona e, in ogni caso, al rifiuto di indennizzi per mancato esaurimento della invalidità temporanea con esito in invalidità permanente. Va comunque rilevato conclusivamente come, all'atto pratico, le spinose questioni di cui sopra “quasi sempre” siano state positivamente risolte (con buona soddisfazione di assicurati e assicuratori) dagli specialisti medico legali sul campo, dotati di onestà intellettuale, propensi a ricorrere al “buon senso”, cioè alla più corretta ragionevolezza. |