La Corte di Cassazione e il danno non patrimoniale

09 Marzo 2016

Sulle controverse questioni trattate nel Focus del Direttore scientifico dr. Damiano Spera "Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?", Ridare ha deciso di aprire un "Forum" con la partecipazione di autorevoli giuristi cultori della materia.Il primo intervento che pubblichiamo è a firma del dr. Marco Rossetti.
Il Forum sul danno non patrimoniale
Sulle controverse questioni trattate nel Focus del Direttore scientifico dr. Damiano Spera, Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?, Ri.Da.Re. ha deciso di aprire un "Forum" con la partecipazione di autorevoli giuristi cultori della materia.Il primo intervento che pubblichiamo è a firma del dr. Marco Rossetti.
Un contrasto puramente nominale

Nella giurisprudenza di legittimità non c'è alcun serio e reale contrasto sulla nozione di «danno non patrimoniale». Ovvero, se c'è, è puramente nominale: e dunque è innocuo. A condizione, beninteso, che la giurisprudenza di legittimità venga studiata e valutata come va: ovvero senza fermarsi alle massime, ma esaminando le motivazioni e le fattispecie concrete che le hanno determinate.

Sarà, allora, agevole avvedersi che apparentemente si fronteggiano due orientamenti che non potrebbero essere più distanti: ma la distanza non sta nelle opinioni, sta nei nomi dai quali quelle opinioni sono rivestite.

Il primo orientamento: categoria unitaria

Vi è, infatti, un primo orientamento apparentemente “rigoroso”, secondo il quale il danno non patrimoniale non può essere definito che in negativo: è danno non patrimoniale tutto quel che patrimoniale non è.

Da questa premessa generale si trae la conclusione che non possono esistere tanti danni non patrimoniali diversi, quanti sono gli interessi (non patrimoniali) d'un individuo. Il danno non patrimoniale come categoria giuridica non può che essere uno; come epifania del modo reale, invece, esso potrà assumere gli aspetti più diversi. Potrà consistere nella lesione della salute, nell'abuso del nome, nella privazione della libertà, nella tristezza, nell'invidia, nella perdita dell'autostima.

Ma - affermano i sostenitori dell'orientamento in esame - le forme di manifestazione del danno nulla hanno a che vedere con le categorie giuridiche di danno. Anche una vendita può avere ad oggetto immobili, gioielli o pollame, e nondimeno sempre vendita resta. Anche il danno patrimoniale può vulnerare un'automobile, un orologio od una tela del Carracci, ma sempre alle medesime regole resteranno soggetti il suo accertamento e la sua liquidazione.

Il compito del giudice chiamato ad accertare e liquidare il danno non patrimoniale non è dunque quello di concepire categorie astratte e credere che esse esprimano la realtà, ma piuttosto quello di accertare la realtà ed inquadrarla nelle categorie giuridiche esistenti.

Secondo questo orientamento, dunque, non si dovrà dire che la vittima d'un infortunio sul lavoro ha patito un danno biologico e la vittima di diffamazione ha patito un danno morale. Si dovrà, invece, dire che l'uno e l'altro hanno patito un danno non patrimoniale, da accertare e liquidare tenendo conto di tutte le specificità del caso concreto.

«Tenere conto delle specificità del caso concreto» vuol dire anche un'altra cosa. Vuol dire che siccome in giudizio i danni non si possono immaginare in astratto, ma si devono accertare in concreto, non sarà mai consentito al giudice inquadrare il medesimo pregiudizio concreto in due diverse categorie giuridiche di danno, per liquidarlo due volte. Colui il quale ha patito uno sfregio permanente del viso, e prova vergogna della deturpazione, non ha affatto patito due danni: uno biologico e l'altro “estetico”. Ha patito un solo danno, non patrimoniale, nella stima del quale si dovrà tenere conto sia dell'invalidità, sia della vergogna.

L'orientamento che condivide questi princìpi, quando è chiamato a valutare se il giudice di merito abbia liquidato correttamente il danno non patrimoniale, non si preoccuperà affatto di sindacare come quel giudice abbia chiamato il danno: biologico, morale, esistenziale, piuttosto che “fuoco”, “farfalla” o “tigre”.

Si preoccuperà, piuttosto, di controllare se il giudice di merito, al di là dei nomi adottato, abbia effettivamente accordato un serio ristoro a tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, per come allegati e dimostrati in giudizio.

Così, per fare un esempio: se il ricorrente si dolesse del fatto che la sentenza di merito gli ha accordato il risarcimento del danno biologico, ma non di quello “morale”, l'orientamento in esame rigetterà il ricorso, ove non risulti che il ricorrente abbia mai allegato e dimostrato la sussistenza di pregiudizi ulteriori, rispetto a quelli che costituiscono le normali conseguenze d'una lesione della salute.

Il secondo orientamento: tanti danni non patrimoniali quanti sono gli infiniti dolori

Veniamo ora al secondo orientamento, quello che potremmo definire “liberale”.

Esso, all'apparenza, si direbbe fondato su presupposti dogmatici antitetici rispetto al primo. Afferma che il danno non patrimoniale non sarebbe affatto una categoria omnicomprensiva; che esistono tanti danni non patrimoniali quanti sono gli infiniti dolori «che in terra e in mar semina morte»; che il danno biologico e quello morale sarebbero “ontologicamente” diversi; che ogni forma di sofferenza costituisce un tipo di danno.

In tesi, dunque, nulla di più distante dall'orientamento che si è convenuto di definire “rigoroso”.

Epperò chiediamoci: le sentenze di legittimità che formalmente aderiscono a questo orientamento “liberale”, con che metro hanno valutato le decisioni di merito sottoposto al loro esame?

Ebbene, dinanzi a ricorsi coi quali si lamentava la sottostima del danno non patrimoniale da parte del giudice di merito, e si assumeva che tale sottostima era consistita nella mancata liquidazione di questo o quel pregiudizio “ontologicamente autonomo”, l'orientamento in esame non si è affatto limitato, come le premesse potrebbero far credere, ad accertare se la sentenza impugnata avesse effettivamente liquidato due voci di danno invece di una. Ha, invece, affermato un principio ben diverso: ovvero che pur essendo il danno biologico ed il danno “morale” ontologicamente diversi, ciò non basta ancora per pretendere sempre e comunque una doppia liquidazione (beninteso, al cospetto d'una lesione della salute). Sarà, invece, pur sempre necessario che la vittima dimostri di avere correttamente dedotto e provato nelle fasi di merito l'effettiva sussistenza d'un pregiudizio che sia “ontologicamente” diversodal danno biologico non solo nominalmente, ma anche per le sue caratteristiche concrete; che sia oggettivamene esistente, e che non si risolva in una mera etichetta con la quale chiamare con nomi diversi pregiudizi identici a quelli biologici.

In conclusione

I due orientamenti che si è cercato di riassumere non sono, dunque, per nulla in contrasto. Tanto l'uno quanto l'altro esigono che il giudice di merito accerti dei fatti, e non crei delle etichette; liquidi dei pregiudizi concreti, e non presuma dei pregiudizi in re ipsa; badi alla sostanza di tali pregiudizi, e non al nome con cui le parti li definiscono.

Che poi il primo orientamento distingua tra “danno biologico” e “fattori di personalizzazione”, ed il secondo tra “danno biologico” e “danno morale”, è una concessione al narcisismo intellettuale, ma non muta la sostanza delle cose.

«Nominare male le cose, è partecipare all'infelicità del mondo»

Albert Camus

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