Sezioni Unite n. 25767/2015 e danni da “wrongful birth”: quali punti fermi?
Marco Bona
11 Gennaio 2016
In questo contributo si analizza la portata della pronuncia n. 25767/2015 delle Sezioni Unite in materia di responsabilità e danni per la nascita di bambino disabile a seguito della privazione del diritto all'aborto subita dalla gestante per effetto di incorrette e/o tardive informazioni da parte dei sanitari. Si illustrano, nello specifico, i danni, patrimoniali e non patrimoniali, risarcibili in queste ipotesi, altresì approfondendosi il novero dei soggetti legittimati attivi e le prospettive risarcitorie nel caso in cui l'omissione di informazioni sulle malformazioni del nascituro non abbia inciso in termini di impedimento all'interruzione della gravidanza.
Premessa: le fattispecie di eventi dannosi connessi alla procreazione
Per chiarire la portata della pronuncia delle Sezioni Unite del 2015, intervenuta in materia di danni da «wrongful birth» (in particolare, nascita di un bambino affetto dalla sindrome di Down a seguito di omessa informazione alla paziente dell'handicap presentato dal nascituro), occorre innanzitutto riassumere le fattispecie che, più in generale, possono venire in rilievo allorquando si affrontano casi di danni connessi alla procreazione, cioè, in senso lato, quegli eventi dannosi che - riconducibili a responsabilità medico-sanitarie od a responsabilità di altri soggetti - possono intervenire, con pregiudizi ai nascituri e/o alla gestante e/o ai famigliari di questi, nelle fasi che vanno dal concepimento alla nascita.
Vengono in rilievo almeno sei distinte fattispecie:
nascita di un bambino non sano a causa di lesioni subite dal feto prima della nascita (eventualmente anche, per esempio, per effetto della somministrazione alla gestante di farmaci teratogeni) o durante il parto (danni da lesioni pre-natali o danni da lesive interferenze nella vita fetale), oppure a causa di eventi, sempre produttivi di malformazioni in capo al nascituro, concomitanti con il concepimento (ad esempio, per trasmissione di determinate patologie da parte dei genitori), oppure anche antecedenti al concepimento, a quest'ultimo riguardo potendosi ipotizzare illeciti ed inadempimenti in sede di riproduzione assistita, di manipolazione genetica o di somministrazioni alla partoriente di farmaci dannosi per il soggetto poi concepito e venuto alla luce (danni da eventi lesivi pre-concepimento); in questi casi è ormai pacifico che le azioni risarcitorie possano riguardare sia i danni direttamente subiti dal nascituro, che, una volta nato, si riflettono sulla sua esistenza in termini di handicap, sia i danni, patrimoniali e non patrimoniali, dei congiunti (non soltanto i genitori) del nato; nel lessico angloamericano questa fattispecie è indicata con il lemma “wrongful life”, pur dovendosi ricordare come talvolta le azioni esercitate dai genitori siano ivi pure etichettate con l'espressione “wrongful birth”;
nascita di un bambino non sano, che in ogni caso sarebbe venuto alla luce con delle malformazioni, ma la cui nascita poteva essere scongiurata dalla gestante ricorrendo all'interruzione volontaria di gravidanza, se questa fosse stata adeguatamente informata delle prospettive di tali malformazioni (danni da privazione della possibilità di fare ricorso all'interruzione volontaria di gravidanza); in questa ipotesi, ricorrendo determinate condizioni (nello specifico, assume rilievo dirimente la l. 22 maggio 1978, n. 194, recante «Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria di gravidanza»), possono risultare legittimati all'azione risarcitoria i congiunti (in primis, i genitori); viceversa, è stato escluso, fatta eccezione per alcune sporadiche pronunce (in Italia cfr. Cass. civ., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754), il diritto del bambino a conseguire un risarcimento per il suo stato di handicap, diniego confermato dalle SS.UU. nella pronuncia n. 25767/2015; tale fattispecie, nel diritto angloamericano, è descritta con l'espressione “wrongful birth”; si distingue da questa fattispecie - come si trae pure da Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2013, n. 7269 - il caso in cui, impedita alla madre la scelta se abortire o meno, il nato venga alla luce con delle malformazioni, tra quelle non tempestivamente comunicate, emendabili oppure con delle malformazioni ulteriori o aggravate rispetto a quelle già in essere al momento dell'omessa informazione, malformazioni, dunque, da imputarsi alla mancata predisposizione di adeguati e tempestivi interventi atti a migliorare, o quanto meno a non aggravare, il gravissimo handicap del nascituro (in questa eventualità si ricade nella fattispecie di cui al punto 1);
nascita di un bambino non sano, che in ogni caso sarebbe venuto alla luce con delle malformazioni, ma (3.1) il cui concepimento poteva essere scongiurato dai genitori ricorrendo a prevenzioni contracettive se gli stessi, attivatisi a tale fine per dei consulti, fossero stati adeguatamente informati delle prospettive di tali malformazioni (danni da privazione della possibilità di prevenire il concepimento), o (3.2) il cui concepimento si è verificato a seguito di inadempimenti connessi ad operazioni di sterilizzazione volontaria, maschile o femminile, oppure (3.3), altra distinta ipotesi, la cui nascita ha avuto luogo a causa di un intervento di interruzione di gravidanza non riuscito per ragioni imputabili ai medici e/o alla struttura sanitaria; queste varie fattispecie divergono da quelle sub n. 2 innanzitutto in quanto non vengono in rilievo le condizioni poste dalla l. 22 maggio 1978 n. 194 per l'interruzione volontaria di gravidanza (più nello specifico, non è oggetto di imputazione la privazione della scelta di ricorrere all'aborto); nondimeno, anche in queste ipotesi assume rilevanza la conclusione assunta dalle Sezioni Unite nella pronuncia n. 25767/2015 per quanto concerne l'esclusione della legittimazione attiva del bambino nato malformato; secondo le etichette impiegate dal diritto angloamericano i casi 3.1 e 3.2 possono essere etichettati con i lemmi “wrongful pregnancy” o “wrongful conception”; il caso 3.3 configura, invece, una particolare ipotesi di “wrongful birth”, tuttavia connotata, diversamente dal caso 2, dalla certezza di una procreazione indesiderata (attesa la determinazione della donna a procedere con l'aborto);
nascita di un bambino sano, ma non programmato dai genitori in quanto concepito a seguito ed a causa di inadempimenti connessi ad operazioni di sterilizzazione volontaria, maschile o femminile (danni da bambino nato sano, ma non voluto; rectiusdanni da concepimento indesiderato); questa fattispecie, nel diritto angloamericano è etichettata alternativamente con i lemmi “wrongful pregnancy” o “wrongful conception”; in queste ipotesi vengono evidentemente in rilievo unicamente i danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti dai congiunti del nato, non essendo ravvisabili dei pregiudizi in capo a quest'ultimo;
perdita del feto per fatto di terzi, che o ne hanno causato direttamente la morte (ad es. l'automobilista che investe una donna incinta oppure i sanitari che colpevolmente assistono la partoriente; danno da uccisione del feto) o hanno provocato i presupposti per il ricorso da parte dei genitori all'interruzione della gravidanza (danno da procurato aborto);
menomazioni dirette dell'integrità psicofisica della partoriente: questa fattispecierappresenta un caso classico di danno alla persona.
La portata della pronuncia delle Sezioni Unite tra risposte dirimenti e problemi lasciati aperti
Come già è stato illustrato su Ri.Da.Re. (cfr. D. Spera, La gestante non è informata sulle gravi malformazioni del feto: le Sezioni Unite negano il risarcimento del danno al figlio nato affetto da sindrome di Down; F. Martini,Le Sezioni Unite definiscono la disciplina del danno da “nascita indesiderata), le Sezioni Unite sono addivenute alle seguenti conclusioni:
l'impossibilità della scelta della madre nella prosecuzione della gravidanza, determinata da colpevoli omissioni informative da parte dei sanitari in ordine a possibili malformazioni del nascituro, può dare luogo alla responsabilità civile di medici e strutture sanitarie, ciò, tuttavia, soltanto alle seguenti condizioni da accertarsi secondo un giudizio ex ante:
ravvisabilità, al momento in cui era possibile per i sanitari fornire alla gestante una corretta informativa, delle specifiche condizioni previste dalla l. 22 maggio 1978, n. 194 per l'interruzione della gravidanza alternativamente, a seconda dei casi, entro i primi 90 giorni dal concepimento (art. 4, l. 22 maggio 1978, n. 194) o dopo i primi novanta giorni (artt. 6 e 7 l. 22 maggio 1978, n. 194);
dimostrazione che la madre - ove correttamente informata - avrebbe interrotto la gravidanza;
nel caso di cui all'art. 6 concretizzazione del «danno potenziale» (il grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna) facoltizzante l'aborto in «danno effettivo» (da accertarsi medicolegalmente);
l'onere di provare tali condizioni facoltizzanti, ex lege, l'interruzione di gravidanza e la volontà di interrompere, in loro evenienza, la gestazione è posto a carico della madre exart. 2697 c.c. (secondo il principio della vicinanza della prova), nondimeno onere suscettibile di essere assolto anche in via presuntiva, tramite la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare (secondo il parametro del più probabile che non), circostanze quali, per esempio, il ricorso al consulto proprio per conoscere le condizioni del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, le pregresse manifestazioni di pensiero, la propensione all'opzione abortiva manifestata ante gravidanza, ecc.;
laddove si dimostri che la gestante è stata in effetti privata, a causa delle condotte dei sanitari e secondo il criterio del “più probabile che non”, della possibilità di ricorrere all'interruzione di gravidanza, non è, comunque, configurabile nel nostro ordinamento il diritto del soggetto nato malformato a richiedere il risarcimento del danno per il suo stato di salute, poiché non sussiste un nesso eziologico tra la condotta omissiva dei sanitari e le condizioni di handicap con cui questi è venuto alla luce.
Quest'ultimo profilo costituiva, invero, la questione più controversa e delicata, in ordine alla quale il contrasto tra indirizzi giurisprudenziali della stessa Corte, soprattutto a seguito del precedente Cass. n. 16754/2012, era più marcato.
Su tale punto le Sezioni Unite, archiviando l'orientamento espresso dalla predetta pronuncia del 2012, hanno risolto, verosimilmente in via definitiva, la questione, ciò in primis in relazione alle fattispecie innanzi prospettate al § Premessa: le fattispecie di eventi dannosi connessi alla procreazione,sub 2.
Peraltro, il diniego della risarcibilità di danni, patrimoniali e non patrimoniali, in capo al nato con patologie non imputabili ad inadempimenti od illeciti di terzi - il quale, pertanto, sarebbe comunque venuto alla luce malformato - si riflette logicamente anche sulle fattispecie di cui al § Premessa: le fattispecie di eventi dannosi connessi alla procreazione, sub 3.1, 3.2 e 3.3.
Deve pure evidenziarsi come le Sezioni Unite abbiano confermato in toto i principi già da oltre un ventennio ormai assodati in relazione alle fattispecie di cui al § Premessa: le fattispecie di eventi dannosi connessi alla procreazione, sub 1: «una volta accertata l'esistenza di un rapporto di causalità tra un comportamento colposo, anche se anteriore alla nascita, ed il danno che ne sia derivato al soggetto che con la nascita abbia acquistato la personalità giuridica, sorge e dev'essere riconosciuto in capo a quest'ultimo il diritto al risarcimento».
Ciò posto, tuttavia, come si approfondirà infra ai §§ Precisazioni in punto an debeatur, I danni risarcibili in capo ai genitori per l'impedimento alla gestante di esercitare il diritto all'interruzione di gravidanza e La platea dei congiunti legittimati attivi, con riferimento specifico alla fattispecie dei danni da impedita scelta dell'interruzione di gravidanza le Sezioni Unite:
non hanno affrontato tutti i profili relativi all'andebeatur, sicché appare opportuno svolgere alcune precisazioni;
in punto quantum debeatur non hanno preso posizione, neppure a livello di obiter dictum, in ordine ad alcune questioni indubbiamente importanti, quelle relative al novero dei danni-conseguenza risarcibili in capo alla gestante ed alla platea dei soggetti legittimati attivi al risarcimento dei danni.
La condivisibilità dell'approdo delle S.U. alla irrisarcibilità del danno al nato con malformazioni non imputabili ad inadempimenti/illeciti
Innanzitutto, deve osservarsi come le Sezioni Unite, affermando che «alla tutela del nascituro si può pervenire […] senza postularne la soggettività», abbiano condiviso in toto le più articolate premesse teoriche della pronuncia Cass. civ., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754, la quale, al riguardo, aveva già rilevato la sicura sufficienza dell'inquadramento del nascituro in termini di «oggetto di tutela “progressiva” da parte dell'ordinamento, in tutte le sue espressioni normative e interpretative», sottolineando come tale riconoscimento fosse «ben più pregnante e pragmatico» dell'attribuzione di una soggettività giuridica (tale da generare degli autentici «pantani» nel discorso giuridico) e così concludendo: «la questione della protezione del concepito non si discosta da quella della protezione dell'essere umano, nel senso che sarà compito di un essere umano già vivente assicurare tutela a chi (come magistralmente insegnato dalla Corte costituzionale) essere umano deve ancora diventare».
La divergenza tra le due pronunce, dunque, risiede per intero non già sul versante della concezione della tutela giuridica del concepito, bensì sul piano della sussistenza dei requisiti per la condanna dei sanitari e/o delle strutture sanitarie, che abbiano impedito alla gestante di interrompere la gravidanza, al risarcimento dei danni al soggetto venuto alla luce disabile.
Al riguardo, merita ricordare come, con estrema finezza e con uno sforzo argomentativo che non trova pari nella giurisprudenza straniera addivenuta a sostenere la risarcibilità del danno in questione (cfr., per esempio, la pronuncia francese intervenuta nell'affairePerruche, Cour de Cassation, 17-11-2000, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2001, 209), la Cass.n. 16754/2012 avesse così ravvisato la sussistenza dei presupposti per la soluzione positiva:
«interesse tutelato»: «la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino malformato trova il suo fondamento negli artt. 2,3,29,30 e 32 Cost.» con riferimento al vulnus consistente non già nella «malformazione in sè considerata» (cioè «l'infermità intesa in senso naturalistico», «o secondo i dettami della scienza medica»), bensì nello «stato funzionale di infermità» e nella «condizione evolutiva della vita handicappata», «intese come proiezione dinamica dell'esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell'handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata», peraltro non potendo «discorrersi […] di non meritevolezza di una vita handicappata», trattandosi, invece, di «una vita che merita di essere vissuta meno disagevolmente, attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi, quand'anche fossero i genitori, ipoteticamente liberi di utilizzare il risarcimento a loro riconosciuto ai più disparati fini»; da notarsi come per questa via la Cassazione avesse escluso che la pretesa risarcitoria del minore fosse fondata sul diritto a «non nascere», per l'appunto essendo viceversa ancorata al diritto di «essere messo in condizione di poter vivere meno disagevolmente, anelando ad una meno incompleta realizzazione dei suoi diritti di individuo singolo e di parte sociale scolpiti nell'art. 2 Cost.»;
«evento di danno»: «la legittimità dell'istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva […] da una omissione colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, nè quello della malformazione di sè sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell'aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso»; «l'evento di danno è costituito, pertanto, nella specie, dalla individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell'esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente»;
«nesso causale»: «sul piano del nesso di condizionamento […] l'errore medico […] non ha evitato (o ha concorso a non evitare) la nascita malformata (evitabile, senza l'errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante da una espressa disposizione di legge)», atteso, peraltro, che «una diversa soluzione, sul piano causale, si risolverebbe nell'inammissibile annullamento della volontà della gestante».
Le Sezioni Unite hanno contrapposto a tale specifico quadro i seguenti rilievi:
«si deve partire dal concetto di danno-conseguenza» (sostanzialmente l'«aver di meno» a seguito dell'illecito), danno insussistente in questa ipotesi poiché il “segno meno”, successivo all'illecito, non può ravvisarsi nella «non vita», ossia nella «omessa distruzione della propria vita in fieri»; in altri termini, difetta il danno stesso;
dato che la «non vita» «non può essere un bene della vita» («l'ordinamento non riconosce […] il diritto alla non vita»), difetta altresì l'ingiustizia del danno;
non può, quindi, neppure ravvisarsi un nesso eziologico secondo la «teoria della condicio sine qua non», che, peraltro, sarebbe «generalmente rifiutata […] in materia di illecito civile»: ciò in quanto emerge quoad effectum «la sostanziale diversità dell'apporto causale» tra «l'errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata a causa di gravi malformazioni del feto» e l'«errore del medico che tale malformazione abbia direttamente cagionato», casi questi non equiparabili.
Tali motivazioni non risultano esatte in relazione a due affermazioni, qui contestate:
che il punto di partenza sarebbe quello dei “danni-conseguenza”: difatti, al contrario, come ci insegna costantemente la Suprema corte (cfr., per esempio, Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2013, n. 4043: «si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità […] e la determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto dell'obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita la regola dell'art. 1223 c.c. (richiamato dall'art. 2056 c.c.), per il quale il risarcimento deve comprendere le perdite “che siano conseguenza immediata e diretta” del fatto lesivo […]»), i “danni-conseguenza” vengono in rilievo soltanto una volta che si ravvisino tutti i presupposti per la declaratoria di una responsabilità civile; semmai la questione, che si pone come centrale nella disamina del problema affrontato dalle Sezioni Unite, è quella della concezione e della sussistenza del “danno-evento”;
che la teoria della condicio sine qua non sarebbe generalmente rifiutata in materia di illecito civile: ciò non corrisponde al vero; semmai in diversi casi - come senz'altro è quello dei danni da “wrongful birth” - essa denota di non essere da sola dirimente ai fini dell'imputazione giuridica di una condotta; più precisamente il nesso di causa, nella dimensione del diritto, è sempre una questione giuridica, che nella responsabilità civile assolve alla funzione di permettere od impedire la sanzione, sul piano risarcitorio, di determinati eventi tali da implicare condotte colpose o dolose, oppure, ancora, responsabilità di natura oggettiva; ai fini della determinazione di siffatto nesso di causa, soprattutto laddove la “causalità materiale” o “naturale” (quella fondata sulla mera osservazione della sequenza di fatti storici) e la “causalità scientifica” non sono di per sé idonee a risolvere il problema giuridico dell'imputazione, possono intervenire, in ausilio del magistrato, plurime “chiavi di lettura”, tutte dotate di pari dignità e rilevanti (non vi è alcun ordine gerarchico tra le stesse), nessuna di per sé dirimente; dunque, la teoria della equivalenza di cause o della condicio sine qua non costituisce una delle possibili “chiavi di lettura”, che interagisce con le altre (teoria della regolarità causale, teoria della causalità adeguata - che non necessariamente, come ci insegna la “causalità scientifica”, costituisce un alter ego della teoria della regolarità causale -, teoria della causa prossima o della prevalenza, teoria della signoria sul fatto, teoria della causalità umana, teoria della prevedibilità, ecc.); nelle situazioni di incertezza i “conti” andrebbero sempre effettuati impiegandole tutte, come tante “cartine tornasole”.
Ciò precisato, si condivide, comunque, la conclusione alla quale sono pervenute le Sezioni Unite per la seguente ragione, che prescinde da particolari sofismi concettuali: molto semplicemente il soggetto venuto alla luce non può imputare ai sanitari il suo «stato funzionale di infermità» e la «condizione evolutiva della vita handicappata», ciò a fronte sia della preesistenza delle malformazioni rispetto agli inadempimenti dei medici, sia dell'impossibilità per questi di eliminarle o circoscriverle; detto altrimenti, tali inadempimenti, secondo tutte le teorie della causalità (doctrine della condicio sine qua non compresa!), non si pongono in relazione causale con i presupposti (le malformazioni) dell'«esistenza diversamente abile» e, quindi, delle conseguenze, patrimoniali e non patrimoniali, associate a tale condizione esistenziale.
Tanto basterebbe per ritenere risolta ogni questione.
Ad ogni modo può osservarsi come i sanitari, in questi casi, abbiano sì senz'altro il dovere di fornire una corretta (dunque, anche tempestiva, oltre che esatta) informazione alla gestante; tuttavia, l'inadempimento di tale dovere non può che rilevare unicamente nei termini di “danno-evento” consistente nella violazione del correlato diritto della gestante di scegliere, nei limiti fissati ex lege, se abortire o meno, e/o di “danno-evento” rappresentato dalla violazione del diritto di quest'ultima di essere correttamente informata a prescindere da ogni questione relativa alla facoltà di interrompere la gravidanza (a quest'ultimo riguardo cfr., oltre, § Danni da omessa informativa circa le malformazioni del figlio in assenza di privazione della facoltà di interrompere la gravidanza); infatti, non è dato rinvenire nell'ordinamento un parallelo dovere dei sanitari verso il nascituro, il quale già presenti delle malformazioni non imputabili agli stessi, di scongiurargli un'esistenza handicappata per effetto delle stesse anomalie, ciò per il semplice fatto che in nessun caso può ravvisarsi un obbligo dei sanitari di sopprimere un concepito in ragione di sue, reali o potenziali, future disabilità.
Precisazioni in punto an debeatur
Le Sezioni Unite hanno considerato soltanto la fattispecie di cui all'art. 6, l. n. 194/1978 (interruzione della gravidanza dopo i 90 giorni).
Pare, dunque, opportuno ricordare come la Cassazione, nel suo primo leading case in materia (Cass. civ., sez. III, 1 dicembre 1998, n. 12195), avesse correttamente rilevato come, diversamente dal caso di cui all'art. 6 (con riferimento al quale opera «un concetto di salute ristretto», dunque l'interruzione di gravidanza essendo «possibile solo in presenza di un processo patologico della gestante che mette in grave pericolo la sua salute», detto processo potendo essere anche «relativo (cioè conseguenziale) alle anomalie o alle malformazioni del nascituro»), nell'ipotesi presa in considerazione dall'art. 4 (interruzione di gravidanza entro i primo novanta giorni) il concetto di salute della gestante sia da intendersi in senso lato come «benesserepsichico», non imponendosi, pertanto, particolari approfondimenti ex ante, proprio in quanto in «nell'ipotesi di cui all'art. 4 la malformazione del nascituro agisce esclusivamente come previsione di pericolo per la salute fisica o psichica della gestante».
Ciò posto, dovrebbe, allora, ricavarsi come nel caso, di cui all'art. 4, la successiva concretizzazione del “danno potenziale” facoltizzante l'aborto in “danno effettivo” (cioè in una vera e propria patologia psichica o fisica) non costituisca una condicio sine qua non per configurare la responsabilità civile in questione.
Si ritiene, tuttavia, come in realtà - nel contesto di un delicatissimo giudizio ex ante - neppure nel caso di cui all'art. 6 il “danno potenziale” (il grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna), facoltizzante l'aborto, debba necessariamente essersi concretizzato in una vera e propria patologia in seguito alla comunicazione tardiva oppure dopo la nascita del bambino: certamente l'accertamento del verificarsi di una patologia è tale da corroborare, al di là di ogni dubbio, la ricorrenza dei presupposti in questione; nondimeno, la sua assenza od uno stato psicofisico “lieve” non paiono tali da escludere de plano la ricorrenza dei presupposti per l'interruzione della gravidanza, ben potendo verificarsi che la nascita del bambino malformato faccia scattare nella donna e nelle persone a lei vicine delle reazioni tali da impedirle di subire delle degenerazioni della sua salute.
In definitiva, a quest'ultimo riguardo, si ritiene tuttora corretta la conclusione cui pervenne la Cassazione nella predetta sentenza del 1998: «ciò che si è effettivamente verificato successivamente può avere solo valore indiziario o corroborativo, ma non decisivo».
Infine, va rammentato come ancora da ultimo la Suprema corte, proprio in relazione ad un caso di “wrongful birth”, abbia ribadito che «il sanitario, cui incombe l'obbligo di informare il paziente circa i possibili accertamenti diagnostici utili o necessari in una determinata situazione e circa i rischi ed i vantaggi a ciascuno connessi, deve dare la prova di avere adempiuto a tale obbligo, restando a suo carico, in caso contrario, la responsabilità per lesione del diritto del paziente all'autodeterminazione» (Cass. n. 24220/2015).
I danni risarcibili in capo ai genitori per l'impedimento alla gestante di esercitare il diritto all'interruzione di gravidanza
Le Sezioni Unite, confermata la sicura possibilità di ravvisare in questi casi una responsabilità civile, non si sono espresse innanzitutto in ordine al novero dei pregiudizi reclamabili dalla gestante privata della scelta di ricorrere all'interruzione volontaria della gravidanza, al riguardo osservando come tale questione esulasse il thema decidendum.
Tuttavia, operata tale premessa (formalmente corretta), le Sezioni Unite hanno fatto cenno al problema se, in base agli artt. 1223 e 2056 c.c. (nello specifico, in ragione del criterio costituito dal «vincolo causale immediato e diretto al fatto colposo dei sanitari»), l'area dei danni risarcibili in capo alla gestante, poi divenuta madre del bambino malformato, sia da limitarsi «allo stesso danno alla salute prefigurato ex ante quale causa permissiva dell'interruzione di gravidanza» (così «restando» il novero dei danni risarcibili «interno alla fattispecie di cui all'art. 6 [della l. n. 194/1978], in considerazione della natura eccezionale della norma») oppure sia da estendersi «a tutti [i] danni-conseguenza riconducibili, in tesi generale, all'ordinaria responsabilità aquiliana».
Ciò illustrato ed essendo ovvio che, diversamente da quanto prospettato dalle Sezioni Unite non viene soltanto in rilievo la «responsabilità aquiliana», non risulta condivisibile che le Sezioni Unite abbiano riportato tale dilemma (senza neppure fornire, a livello di obiter dictum, alcune indicazioni per la sua soluzione): infatti, per questa via le Sezioni Unite hanno inopportunamente spostato indietro le lancette dell'orologio non solo rispetto alla giurisprudenza della Sezione III, che, come si osserverà a breve, ha, invece, sviluppato indirizzi sostanzialmente univoci sul punto, ma, altresì, rispetto alla loro stessa giurisprudenza, ricordandosi come le stesse Sezioni Unite (cfr. Cass., 11 novembre 2008,n. 26972 p. 42) avessero espressamente riconosciuto la lesione del diritto inviolabile della gestante, la quale non sia stata posta in condizione, per errore diagnostico, di decidere se interrompere la gravidanza, con conseguente suo diritto al risarcimento di tutti i danni.
Peraltro, le Sezioni Unite non hanno neppure fornito alcuna indicazione in merito alla posizione del padre, eppure a sua volta ormai chiarita in più precedenti dalla stessa Cassazione.
Quanto ora rilevato in ordine a tali lacune della pronuncia delle Sezion Unite impone di rimarcare i punti di approdo della Sezione III della Suprema corte, la quale, dopo alcuni primi tentennamenti (confinati alle prime pronunce degli anni novanta), è ormai pervenuta a delineare un quadro che, in linea generale e molto chiaramente, non circoscrive:
i danni risarcibili in capo alla gestante al solo danno alla salute prefigurato ex ante quale causa permissiva dell'interruzione di gravidanza;
i pregiudizi reclamabili dal padre unicamente a quelli associati al danno alla salute predetto.
Del resto, sarebbe del tutto infondato limitare il novero dei danni risarcibili in capo ai genitori centrandoli unicamente sul danno alla salute «interno alla fattispecie di cui all'art. 6 [della l. n. 194/1978], in considerazione della natura eccezionale della norma»: infatti, questa norma, funzionale a ben altri scopi, non concerne in nessun modo il tema della tutela risarcitoria e, quindi, non può svolgere effetti restrittivi sul versante del risarcimento dei danni, invero assoggettati alle consuete clausole civilistiche.
Come poi rilevato dalla Suprema corte, «la possibilità, per la madre, di esercitare il suo diritto ad una procreazione cosciente e responsabile interrompendo la gravidanza, assume […] rilievo nella sede del giudizio sul nesso causale»; viceversa, «non l'assume come criterio di selezione dei danni risarcibili», «perché, trattandosi di responsabilità contrattuale, ad essere risarcibili sono i danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento (art. 1223 cod. civ.)» (Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488).
Più precisamente, «il danno risarcibile non può essere limitato solo al danno alla salute in senso stretto della gestante», giacché «lo stato patologico ed il pericolo grave per la salute rilevano, infatti, solo ai fini del perfezionamento della fattispecie per l'esercizio del diritto di interruzione della gravidanza, ma una volta che esso si è perfezionato, non operano come limitazione della responsabilità del sanitario inadempiente. In altri termini detto pericolo di danno grave alla salute, che si inserisce su un processo patologico, delimita il diritto di aborto, non la responsabilità contrattuale della struttura sanitaria» (Cass. civ., sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13).
Ciò posto, come si è anticipato innanzi, un nutrito numero di pronunce della Sezione III, seguita dalla giurisprudenza di merito, conferma innanzitutto la legittimazione attiva anche del padre ad agire per i danni direttamente subiti, al riguardo avendo la Cassazione in più occasioni ribadito che:
la tutela risarcitoria del padre trova così il suo fondamento: «il tessuto dei diritti e dei doveri che secondo l'ordinamento [è] incentrato sul fatto della procreazione - quali si desumono dalla l. 194/1978, sia dalla Costituzione e dal codice civile, quanto ai rapporti tra coniugi ed agli obblighi dei genitori verso i figli (artt. 29 e 30 Cost.; artt. 143 e 147,261 e 279 c.c.) - vale […] a spiegare perché anche il padre rientri tra i soggetti protetti dal contratto ed in confronto del quale la prestazione del medico è dovuta»; «ne deriva che l'inadempimento si presenta tale anche verso il padre ed espone il medico al risarcimento dei danni, immediati e diretti, che pure al padre possono derivare dal suo comportamento», non rilevando che «l'uomo possa essere coinvolto dalla donna nella decisione circa l'interruzione della gravidanza, ma non chiederla», poiché, «sottratta alla donna la possibilità di scegliere, al che è ordinata l'esatta prestazione del medico, gli effetti negativi di questo comportamento si inseriscono in una relazione col medico cui non è estraneo il padre, rispetto alla quale la prestazione inesatta o mancata si qualifica come inadempimento e giustifica il diritto al risarcimento dei danni che ne sono derivati»; infatti, «si tratta di contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che, per effetto dell'attività professionale dell'ostetrico-ginecologo diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale)», sicché «il danno provocato da inadempimento del sanitario, costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei […] confronti [del padre] e, come tale è risarcibile a norma dell'art. 1223 c.c.» (così Cass. civ., Sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488);
dunque, anche il padre del bambino nato malformato ha diritto ad agire per i pregiudizi direttamente rinvenienti a suo carico, non essendo il suo danno circoscritto al solo “danno riflesso” scaturente da quello subito dalla compagna (Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2013, n. 7269, Cass. civ., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754; Cass. civ., Sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488; cfr., altresì, negli stessi predetti termini: Cass. civ., Sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2354; Cass. civ., Sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13; Cass. civ., Sez. III, 10 maggio 2002 n. 6735; Cass. civ., Sez. III, 11 maggio 2009 n. 10741).
In pratica, una volta stabilita la responsabilità qui in questione, i criteri risarcitori non divergono a seconda che si tratti di liquidare il danno della madre o del padre (quest'ultimo avente, per l'appunto, un «analogo diritto», Cass. civ., Sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13): per entrambi, infatti, viene in rilievo «lo stravolgimento della vita dei coniugi attori, l'impossibilità per gli stessi di condurre una vita normale, lo stato di stress e di affaticamento, nonchè il danno materiale costituito dalle spese ed i disagi solo in parte coperti dall'assistenza pubblica» (così, per esempio, già Cass. civ., Sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488).
Più nello specifico, quanto ai danni risarcibili in capo ai genitori, la Suprema corte, esclusa, come si è rammostrato innanzi, una loro tutela risarcitoria centrata unicamente sul danno alla salute della madre, ha individuato le seguenti voci di danno:
il danno biologico subito dalla madre (cfr. già Cass. civ., sez. III, 1 dicembre 1998, n. 12195);
in favore di entrambi i genitori - attesa innanzitutto la violazione dell'art. 2 Cost. - il danno non patrimoniale (in primis morale ed esistenziale), consistente nella «radicale trasformazione delle prospettive di vita dei genitori, i quali si trovavano esposti a dover misurare […] la propria vita quotidiana, l'esistenza concreta, con le prevalenti esigenze [del figlio handicappato], con tutti gli ovvi sacrifici che ne conseguono» (così Cass. civ., sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13, che ha ritenuto corretta la liquidazione in via equitativa, da parte della corte territoriale, della somma di Euro 200.000,00 in favore di ciascuno dei coniugi);
il danno patrimoniale consistente nei maggiori oneri economici a carico dei genitori per il mantenimento del figlio handicappato rispetto a quelli comportati dal mantenimento di un figlio “sano”, fino al raggiungimento della sua (eventuale) piena indipendenza economica (cfr., per esempio, Cass. civ., sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13, che ha ritenuto corretta la liquidazione, in via equitativa, di tale posta di danno da parte della corte territoriale, che aveva tenuto conto «non solo del “differenziale” tra la spesa necessaria per il mantenimento di un figlio “sano” e la spesa per il mantenimento di un figlio affetto dal deficit [accusato dal nato]», ma aveva altresì «individuato il momento del raggiungimento della indipendenza economica alla età di trenta anni», trattandosi di una bambina affetta da talassemia maior).
Ciò succintamente illustrato, non si ravvisano ragioni di sorta per rimettere in discussione, dopo l'intervento ultimo delle Sezioni Unite, il predetto quadro delineato dalla Sezione III della Cassazione, che, ormai da almeno un decennio, non risulta denotare contrasti e, peraltro, si pone in linea con le note pronunce del “San Martino 2008”, come pure evidenziato da Cass. civ., sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13.
La platea dei congiunti legittimati attivi
Come si è posto in luce al paragrafo precedente, alla tutela risarcitoria in questione sono senz'altro legittimati entrambi i genitori. La Cassazione, in seno alla pronuncia Cass. n. 16754/2012, ha poi aggiunto a questi, «alla stregua dello stesso principio di diritto posto a presidio del riconoscimento di un diritto risarcitorio autonomo in capo al padre», anche i fratelli e le sorelle del neonato, giacché «rientrano a pieno titolo tra i soggetti protetti dal rapporto intercorrente tra il medico e la gestante, nei cui confronti la prestazione è dovuta».
Più nello specifico la Suprema corte ha osservato quanto segue: «l'indagine sulla platea dei soggetti aventi diritto al risarcimento, difatti, già da tempo operata dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento al padre […], non può non essere estesa, per le stesse motivazioni predicative della legittimazione dell'altro genitore, anche ai fratelli e alle sorelle del neonato, dei quali non può non presumersi l'attitudine a subire un serio danno non patrimoniale, anche a prescindere dagli eventuali risvolti e delle inevitabili esigenze assistenziali destinate ad insorgere, secondo l'id quod plerumque accidit, alla morte dei genitori. Danno intanto consistente, tra l'altro […] nella inevitabile, minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonchè nella diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione; le quali appaiono invece non sempre compatibili con lo stato d'animo che ne informerà il quotidiano per la condizione del figlio meno fortunato».
Tale ampliamento della platea dei legittimati attivi risulta indubbiamente fondato sia sul piano giuridico (stanti i principi generali che, ormai consolidati in seno alla giurisprudenza di legittimità, governano la tutela dei congiunti: cfr. amplius sul punto M. Bona, Manuale per il risarcimento dei danni ai congiunti, Santarcangelo di Romagna, 2013) sia a livello naturalistico, risultando impossibile sollevare obiezioni rispetto alla ravvisabilità dei predetti pregiudizi illustrati dalla Cassazione del 2012.
Danni da omessa informativa circa le malformazioni del figlio in assenza di privazione della facoltà di interrompere la gravidanza
Quid juris, infine,nel caso in cui i sanitari abbiano omesso di informare correttamente/tempestivamente i genitori della presenza di malformazioni nel nascituro, senza tuttavia avere così privato la gestante del diritto di interrompere la gravidanza non ricorrendo i presupposti recati dalla l. n. 194/1978?
Come correttamente precisato dalla stessa Suprema corte (Cass. civ., sez. III, 22 marzo 2013, n. 7269), «non v'ha dubbio che il primo bersaglio dell'inadempimento del medico è il diritto dei genitori di essere informati, al fine, indipendentemente dall'eventuale maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l'interruzione della gravidanza, di prepararsi psicologicamente e, se del caso, anche materialmente, all'arrivo di un figlio menomato».
Il risarcimento a favore dei genitori del «trauma della rivelazione che [il figlio è nato] con le malformazioni […], ovvero per esser stati privati della possibilità di un graduale adattamento a tale evento» è stato prospettato anche da Cass. civ., sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2354, che, tuttavia, non ha poi coltivato tale scenario, poiché i genitori non avevano svolto domande a questo fine (per inciso, a quest'ultimo riguardo, nella predetta pronuncia del 2013 la Cassazione ha puntualizzato che «la richiesta dei corrispondenti pregiudizi deve ritenersi […] insita nella domanda di risarcimento dei danni derivati dalla nascita, quali il danno biologico in tutte le sue forme e il danno economico, che di quell'inadempimento sia conseguenza immediata e diretta in termini di causalità adeguata»).
Che questa prospettiva risarcitoria sia in effetti sostenibile discende innanzitutto dalla constatazione che, laddove non la si ammettesse, si finirebbe per porre nel nulla la violazione dell'obbligo dei sanitari informare pienamente la gestante, obbligo che «ha rilevanza giuridica perché integra il contenuto del contratto e qualifica la diligenza del professionista nell'esecuzione della prestazione», nonché in quanto «la violazione di esso può determinare la violazione di diritti fondamentali ed inviolabili (quali il diritto ad esprimere la propria personalità, la libertà personale, la salute - artt. 2,13 e 32 Cost. - il diritto alla vita, al rispetto della vita privata e familiare, alla formazione della famiglia: artt. 2, 8 e 12 Convenzione Europea dei diritti dell'uomo)» (così, ex plurimis, Cass. civ., Sez. III, 2 febbraio 2010, n. 2354).
Peraltro, recentemente la Cassazione (Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015, n. 12205) ha dimostrato come sia senz'altro risarcibile il danno non patrimoniale da violazione dei doveri di informazione consistente in «manifestazioni di turbamento» che il paziente, che non sia stato convenientemente informato, accusi, a prescindere da eventuali risvolti negativi delle prestazioni sulla sua integrità psicofisica, a causa di situazioni verificatesi «a sorpresa» in conseguenza dell'omessa informativa.
Del resto, non può omettersi di considerare il senso di frustrazione e, più in generale, l'offesa morale dei genitori nell'apprendere superficialità ed omissioni diagnostiche (perlomeno, l'assenza di doverose informazioni) da parte dei medici occorse pur nella prospettiva imminente di un evento così importante e delicato quale la nascita di un bambino.
Pare, dunque, corretta la soluzione, cui addivenne, già tempo addietro, il Tribunale di Roma (Trib. Roma, 13 dicembre 1994, in Dir. Fam. Pers., 1995, 662) in relazione alla vicenda di una coppia, che si era rivolta ad un centro di diagnostica prenatale e medicina materno fetale al fine di essere seguita durante la gravidanza. Tale centro aveva effettuato varie indagini ecografiche nel corso della gestazione ed aveva sempre attestato il normale sviluppo del feto, così come la regolare crescita degli arti. Sennonché la nascita della bambina riservò un'amara sorpresa per i genitori: la neonata, infatti, presentava gravi malformazioni osseo-articolari, che, come fu in seguito confermato in corso di causa dai periti, erano rilevabili sin dalle prime ecografie. Sulla scorta di tali evidenti errori diagnostici e, tuttavia, esclusa la possibilità per la madre di ricorrere legittimamente all'aborto (non ricorrendone i presupposti di legge), il Tribunale romano, a fronte del «carattere del tutto inaspettato dell'evento» e della convinzione che i genitori nutrivano della nascita di una figlia assolutamente normale, ritenne per l'appunto risarcibile il danno non patrimoniale sofferto dai genitori per «il trauma sopportato […] al momento in cui, alla nascita della piccola […], [ebbero] contezza della menomazione», trauma «di maggiore entità di quello che avrebbero dovuto […] subire apprendendo la notizia, nel corso della gravidanza, all'esito delle indagini ecografiche».
Vuoi leggere tutti i contenuti?
Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter continuare a
leggere questo e tanti altri articoli.
Sommario
La condivisibilità dell'approdo delle S.U. alla irrisarcibilità del danno al nato con malformazioni non imputabili ad inadempimenti/illeciti
I danni risarcibili in capo ai genitori per l'impedimento alla gestante di esercitare il diritto all'interruzione di gravidanza
Danni da omessa informativa circa le malformazioni del figlio in assenza di privazione della facoltà di interrompere la gravidanza