Prevenzione, risk management, garanti della salute e trasparenza: una legge inconsistente

13 Giugno 2017

L'Autore analizza gli artt. 1-4 della legge Gelli-Bianco rilevando gravi carenze sia sul piano della prevenzione che su quello del risk management.
Premessa: gli articoli da 1 a 4

La l. 8 marzo 2017, n. 24, entrata in vigore il primo aprile 2017, reca il seguente promettente titolo: «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie».

Due, quindi, sono le macro aree di intervento della novella legislativa:

1) la sicurezza delle cure e della persona assistita;

2) la responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.

Gli artt. da 1 a 3 della legge affrontano il primo tema:

- l'art. 1Sicurezza delle cure in sanità») enuncia alcuni principi generali, includendo fra questi la stretta connessione corrente fra la sicurezza delle cure e le attività di risk management;

- l'art. 2Attribuzione della funzione di garante per il diritto alla salute al Difensore civico regionale o provinciale e istituzione dei Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente») e l'art. 3Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità») prevedono nuove figure istituzionali finalizzate a garantire l'effettivo rispetto dei principi generali enunciati all'art. 1.

A queste prime disposizioni segue l'art. 4 Trasparenza dei dati») il cui oggetto, pur disgiunto dai temi affrontati dai primi tre articoli, completa il cerchio dei diritti della persona assistita.

Peraltro, la trasparenza dei dati, a determinate condizioni, può contribuire significativamente alla realizzazione dei principi generali di cui all'art. 1.

Art. 1: i principi generali in materia di sicurezza delle cure (ovvietà)

L'art. 1 reca una serie di declamazioni in punto “sicurezza delle cure in sanità” che, invero, sono già ampiamente note agli esperti di legislazione sanitaria. Nessuna autentica novità si staglia all'orizzonte.

In particolare:

- al comma 1 si sancisce l'ovvio principio per cui la sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute, enunciazione sin troppo scontata del resto risultando difficile immaginare che questo diritto possa trovare attuazione anche attraverso cure nocive;

- al comma 2 si afferma un'altra ovvietà, ossia che la sicurezza delle prestazioni sanitarie si realizza anche mediante l'insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio; viene pure fatto riferimento all'utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche ed organizzative; a quest'ultimo riguardo stupisce, in realtà, che la novella non indichi fra le risorse in questione anche quelle umane, ancorchè le più importanti ed al contempo le più bistrattate; soprattutto, come si approfondirà oltre, sorprende che sia impedita la possibilità di fare completa luce nei processi circa l'effettiva attuazione delle attività preordinate alla prevenzione ed alla gestione dei rischi sanitari, eppure elevate sugli altari quali strumento nevralgico per la sicurezza delle cure;

- al comma 3 il legislatore completa la precedente dichiarazione di intenti invocando la partecipazione di tutto il personale, compresi i liberi professionisti operanti in regime di convenzione con il SSN, alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie; anche questa statuizione non costituisce una novità; peraltro, rimane intatto il problema dell'effettiva partecipazione dei medici convenzionati alle attività in questione e, soprattutto, dell'assenza di risposte efficaci alle questioni da questi sollevate.

Ciò illustrato, merita osservare come all'art. 1 il legislatore nulla riferisca in merito al livello di sicurezza delle cure sostanziante il diritto ivi sancito.

In tutta evidenza tale livello dipende innanzitutto dalla qualità che è richiesta agli esercenti le professioni sanitarie nell'esecuzione delle prestazioni.

Orbene, a quest'ultimo riguardo la legge solleva un quesito che, almeno sulla carta, è davvero importante: i pazienti hanno diritto alle “migliori cure” oppure a livelli qualitativi inferiori?

Tale quesito si pone dal momento che il successivo art. 5 richiama fugacemente, senza definirlo in nessun modo, il parametro delle «buone pratiche clinico-assistenziali» (fra l'altro – il dato è allarmante – non necessariamente alla base delle linee guida previste dallo stesso articolo). In particolare, la nozione di “buona pratica” non coincide semanticamente con quella, non richiamata dalla l. 8 marzo 2017, n. 24, di “migliore pratica” (“best practice”).

La differenza fra questi due standard riveste un qualche significato concreto?

Sul punto non è dato fornire risposte di sorta attesa l'assenza di indicazioni risolutive sul piano della ratio legis. Sta di fatto come il legislatore sia riuscito nell'incredibile ed indesiderata impresa di aprire la porta a dubbi di questo tipo.

Unica certezza, come si illustrerà oltre, è che la legge non contempla maggiori investimenti sulla sicurezza delle cure.

Artt. 2 e 3: i garanti del diritto della salute e le nuove figure per la prevenzione

Nella prospettiva dell'attuazione dei principi generali, di cui all'art. 1, gli artt. 2 e 3 prevedono ben tre nuove figure istituzionali, tutte dedicate, in estrema sintesi, al “controllo esterno” dei servizi e dei sinistri sanitari:

- il difensore civico con la funzione di garante per il diritto alla salute;

- il Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente;

- l'Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità.

Tali figure sono in realtà soltanto abbozzate dalla legge, rinviandosi per la loro realizzazione a successivi interventi legislativi sia a livello ministeriale che regionale.

Dato il vizio ormai patologico di prorogare le disposizioni attuative, del tutto verosimilmente potrebbe rendersi necessaria un'attesa di diversi anni per poter apprezzare questa parte della novella legislativa.

Segue. Il garante per il diritto alla salute: un futuro incerto

La prima figura - contemplata ai commi 1, 2 e 3 dell'art. 2 - è, a ben osservare, ad “istituzione eventuale”: infatti, la sua previsione è affidata all'assoluta discrezionalità delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, che per l'appunto «possono» decidere di affidare (non già devono) all'ufficio del Difensore civico la funzione di garante per il diritto alla salute.

È da notarsi come, invece, nelle versioni, che hanno preceduto il testo finale, tale affidamento non fosse facoltativo: gli enti territoriali in questione erano chiamati ad assegnare ai propri difensori civici la nuova funzione.

Dunque, non è del tutto chiaro quale sia lo scenario nel caso in cui non segua l'attribuzione di tale ruolo al difensore civico.

Ciò posto, il difensore civico, nella sua novella funzione, sarà legittimato a ricevere le segnalazioni, da parte dei pazienti o di “delegati” di questi, circa le disfunzioni del sistema dell'assistenza sanitaria e sociosanitaria, nonché ad acquisire gli atti relativi alla segnalazione pervenuta; inoltre, verificata la fondatezza della segnalazione, il difensore interverrà a tutela del diritto leso con i poteri e le modalità stabiliti dalla legislazione regionale.

Trattasi molto chiaramente di una “delega in bianco”. Pertanto, per comprendere i risvolti concreti occorrerà attendere i singoli interventi dei legislatori territoriali. Interessante, al lato pratico, potrebbe risultare la figura del “delegato” del paziente, ben potendo tale figura essere anche un avvocato.

Deve, comunque, osservarsi come in realtà la riforma non dischiuda scenari del tutto inediti: gli ombudsman locali, contemplati già da anni con alterne fortune, di solito si occupano anche di sanità. In questa prospettiva, allora, forse sarebbe stato più opportuno un intervento del legislatore nazionale meno evanescente dell'attuale delega in bianco ai legislatori regionali.

Segue. Il Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente: ente utile?

Questa seconda figura è prevista dal comma 4 dell'art. 2.

Tale “centro” sarà da istituirsi da parte di ciascuna regione, anche in questo caso senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Singolarmente il legislatore non ha imposto medesimo obbligo alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

Il compito di tale centro è sostanzialmente quello, invero modesto, di fare da tramite fra, da un lato, le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e, dall'altro lato, l'Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, di cui all'art. 3. Infatti, la funzione del Centro è quella di curare la raccolta dei dati regionali sui rischi, sugli eventi avversi e sul contenzioso, e, pertanto, di trasmetterli annualmente, mediante procedura telematica unificata a livello nazionale, all'Osservatorio.

Lecito è interrogarsi sull'utilità di tali centri regionali, posto che le regioni provvedano ad istituirli ed a dotarli di risorse umane ed economiche per assolvere a tali, pur marginali, compiti.

Segue. L' Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità: necessario?

Sempre senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica è, infine, prevista dall'art. 3 la istituzione, con decreto del Ministro della salute, presso l'Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), di questo osservatorio.

I compiti di questo soggetto sono essenzialmente due:

- acquisisce dai Centri, di cui all'art. 2, i dati regionali relativi ai rischi ed eventi avversi nonché alle cause, all'entità, alla frequenza e all'onere finanziario del contenzioso;

- predispone ed individua, anche con l'ausilio delle società scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie di cui al futuro decreto ministeriale previsto dall'art. 5, linee di indirizzo ed idonee misure per la prevenzione e la gestione del rischio sanitario e il monitoraggio delle buone pratiche per la sicurezza delle cure nonché per la formazione e l'aggiornamento del personale esercente le professioni sanitarie.

Non sarà, tuttavia, l'Osservatorio a relazionare annualmente le Camere sulla sua attività, bensì il Ministro della salute trasmettendo la relazione di tale ente.

Come indicato dal comma 4 dell'art. 3, l'Osservatorio, nell'esercizio delle sue funzioni, si avvale anche del Sistema informativo per il monitoraggio degli errori in sanità (SIMES), istituito con decreto del Ministro del lavoro dell'11 dicembre 2009.

Invero, appare delinearsi una sovrapposizione tra diversi osservatori (l'Osservatorio nazionale degli eventi sentinella e l'Osservatorio nazionale per la denuncia dei sinistri e le Polizze Assicurative) ed i vari processi di trasmissione dei dati sui rischi clinici dalle Regioni allo Stato.

Forse si sarebbe imposto al legislatore odierno di inserire i predetti centri ed il nuovo Osservatorio in un riordino generale delle molteplici strutture organizzative coinvolte nel processo di rilevazione e nell'utilizzo del Sistema Informativo SIMES, strutture appartenenti a tutti i livelli del SSN (Ministero della Salute, Regioni e Province autonome, ASL, Aziende Ospedaliere, Policlinici, IRCSS).

Accesso alla documentazione sanitaria e trasparenza dei dati

L'art. 4 concerne la «trasparenza dei dati», non solo quelli relativi ai singoli pazienti, bensì anche quelli relativi ai sinistri occorsi, nonché quelli concernenti ed attestanti le attività di prevenzione e di risk management.

Il titolo di questo articolo, però, non si concilia alla perfezione né con la previsione di termini considerevoli per l'accesso dei pazienti alla cartella sanitaria nella sua versione integrale (comma 2), né con la decisione del legislatore di limitare la trasparenza dei dati in relazione a diversi profili nevralgici della prevenzione (ci si riferisce, in particolare, al comma 3 ove si richiama l'art. 16, modificativo in peius del precedente art. 1, comma 539, lett. a), della l. 28 dicembre 2015 n. 208).

In ogni caso la norma ora in disamina è, invero, tanto scarna quanto inappagante, soprattutto dinanzi ad episodi, purtroppo non del tutto rarissimi, di manipolazioni dei dati (cartelle cliniche in primis).

L'accesso alle cartelle cliniche: quali garanzie e tempistiche?

I commi 1 e 2 dell'art. 4 sono interamente dedicati alla gestione dei dati relativi alle singole prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private.

Entrambi i commi rinviano alle disposizioni di cui al Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196), di cui, per quanto qui d'interesse, va soprattutto richiamato il Titolo V relativo al «Trattamento di dati personali in ambito sanitario» e l'art. 92Cartelle cliniche»).

Quest'ultima norma al comma 2 prevede che anche altri soggetti diversi dal paziente possono richiedere la «presa visione» oppure di «rilascio di copia» della cartella clinica e dell'acclusa scheda di dimissione ospedaliera, tuttavia soltanto se la richiesta risulti giustificata dalla «documentata necessità»:

- o «di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria ai sensi dell'articolo 26, comma 4, lettera c), di rango pari a quello dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile»;

- oppure, «di tutelare, in conformità alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi, una situazione giuridicamente rilevante di rango pari a quella dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile».

L'unica autentica novità rispetto al quadro normativo già esistente è costituita dalla previsione dei seguenti termini decorrenti dalla presentazione della richiesta da parte degli interessati aventi diritto:

- entro sette giorni: la direzione sanitaria della struttura pubblica o privata fornisce la documentazione sanitaria disponibile relativa al paziente, preferibilmente in formato elettronico;

- entro trenta giorni: la direzione fornisce le «eventuali integrazioni».

Posto che il concetto di «eventuali integrazioni» è in tutto e per tutto sfuggente (la norma implica che la documentazione sanitaria possa essere consegnata in più riprese a discrezione della struttura?), senza dubbio il primo termine, almeno sulla carta, costituisce una nota positiva ed apprezzabile della novella legislativa sia rispetto al termine generale di trenta giorni indicato dall'art. 25, comma 4, l. 7 agosto 1990 n. 241, norma per cui «decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta», sia in confronto a quello, sempre di trenta giorni, previsto nei progetti di legge che hanno preceduto la versione finale del provvedimento.

Tuttavia, occorre al contempo dare atto come vi siano strutture sanitarie (in tutta evidenza “virtuose”) che già da tempo prevedono termini anche minori, di solito fatta eccezione per le cartelle cliniche di pazienti dimessi, ma in attesa della chiusura delle stesse non essendo ancora disponibili referti istologici o di altri esami.

Soprattutto, la previsione della cartella clinica elettronica e, comunque, i processi di informatizzazione in ambito sanitario non sembrano poter giustificare più neppure il termine, pur contenuto, di sette giorni fissato dalla norma. Invero, vi sarebbero state tutte le ragioni per affermare il diritto del paziente o dei suoi famigliari di disporre il più velocemente possibile della documentazione clinica, ciò anche con riduzione delle tempistiche ad un massimo di 24 ore dalla richiesta, salvo la possibilità di proroghe oggettivamente motivate.

Del resto, la direttiva 2011/24/UE, concernente l'applicazione dei diritti dei pazienti relativi all'assistenza sanitaria transfrontaliera, nel sancire all'art. 4, paragrafo 2, lett. f), l'obbligo per ciascuno Stato membro di far sì, «al fine di garantire la continuità della cura», che i pazienti, destinatari di un trattamento, non solo abbiano diritto ad una cartella clinica (scritta o elettronica), in cui venga registrato il trattamento in questione, ma anche all'accesso ad almeno una copia di tale cartella in conformità, fra l'altro, con la direttiva 95/46/CE, art. 12, lett. a), impone agli Stati membri l'obbligo di garantire il diritto di accesso ai documenti recanti dati sensibili «liberamente» e «senza ritardi o spese eccessivi».

Ciò posto, non è possibile sviluppare oltre il commento della norma in disamina atteso che essa, come la maggior parte delle disposizioni della nuova legge, rinvia la messa in opera delle predette tempistiche all'adeguamento, da parte delle singole strutture sanitarie pubbliche e private, dei regolamenti interni adottati dalle stesse in attuazione della l. 7 agosto 1990 n. 241, adeguamento da effettuarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della riforma.

È, però, da sottolinearsi come senz'altro sarebbe stata auspicabile una norma tale da scongiurare trattamenti differenziati a seconda delle strutture.

Essa, in particolare, sarebbe dovuta risultare dettagliata in ordine a tutta una serie di rilevanti profili, a partire dalla esatta qualificazione dei giorni da assumersi a riferimento (la norma, ad ogni modo, non li circoscrive a quelli “lavorativi”).

Soprattutto, ci si sarebbe attesi, nel contesto di un riassetto generale, una qualche indicazione specifica in merito alle seguenti questioni:

- tempi di conservazione delle cartelle cliniche e della documentazione sanitaria del paziente;

- accessibilità da parte di famigliari e/o eredi.

In merito al primo punto, infatti, il problema della durata, limitata od illimitata, dell'obbligo di conservazione della cartella clinica ruota essenzialmente intorno all'interpretazione di una circolare ministeriale e di altri successivi interventi (cfr. in primis la Circ. Min. Salute del 19 dicembre 1986, n. 61, ed il D.M. 14 febbraio 1997), che dovrebbe permettere di asserire un obbligo di conservazione illimitata della cartella clinica (del resto, atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza dei dati clinici in qualsiasi momento della storia del paziente), ciò in contrapposizione al limite di venti anni fissato da tale circolare per la documentazione diagnostica ed a altri svariati limiti (per le immagini radiologiche sia analogiche che digitali il mantenimento nel tempo deve avvenire per un periodo non inferiore a dieci anni, così come imposto dal D.M. 14 febbraio 1997).

Logicamente la conservazione illimitata di qualsiasi documento sanitario (anche della documentazione diagnostica) non dovrebbe più costituire un problema nella prospettiva futura, ciò nell'era della digitalizzazione ed in considerazione dell'esplicita previsione, di cui al d.l. 9 febbraio 2012, n. 5 convertito dalla l. n. 35 del 4 aprile 2012, che all'art. 47-bisSemplificazione in materia di sanità digitale»), comma 1-bis, prevede che «a decorrere dal 1° gennaio 2013 la conservazione delle cartelle cliniche può essere effettuata, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche solo in forma digitale».

Per quanto concerne l'accessibilità da parte dei famigliari/eredi sarebbe stato opportuno che il legislatore si decidesse a chiudere definitivamente il cerchio recependo nel testo di legge le indicazioni giurisprudenziali e del Garante della Privacy.

In particolare, può ricordarsi come la giurisprudenza abbia rilevato, quanto all'accesso a cartelle cliniche di persone decedute, come sia irrilevante che gli istanti siano o meno titolari di un diritto di rango pari a quello dell'interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile, né che siano o meno eredi effettivi del soggetto cui si riferiscono i dati: «ciò che il giudice deve accertare è se gli istanti abbiano maturato “iure proprio” il diritto all'accesso ai dati contenuti nella cartella clinica, in conformità a quanto sancito dall'art. 9, comma 3, del […] Codice [della Privacy], ovvero se siano titolari di una “situazione giuridicamente rilevante” che li legittima a pretendere l'esibizione di atti potenzialmente capaci di giovare alla salvaguardia dei propri interessi (nella fattispecie della propria aspirazione ad una porzione di patrimonio del defunto, dalla successione del quale erano stati a loro avviso ingiustamente estromessi)» (così, per esempio, TAR Lombardia Brescia, sez. II, 16 dicembre 2011, n. 1761).

Ciò posto, è indubbio come la l. n. 24/2017 sia lungi dal risolvere il problema dell'effettiva (innanzitutto tempestiva) tutela del soggetto richiedente al quale sia negato l'accesso alla documentazione sanitaria.

In breve, l'impressione è che pazienti e famigliari di questi rimangano, comunque, privi di garanzie concrete di vedere prontamente soddisfatto il diritto di accesso a cartelle cliniche ed altri documenti medici: tale diritto rimane affidato al grado di correttezza e/o di efficienza dell'apparato amministrativo di ciascuna struttura.

Segue. L'obbligo per le strutture di pubblicazione dei dati sui sinistri e sui risarcimenti pregressi

Il comma 3 dell'art. 4 impone alle strutture sanitarie, tanto quelle pubbliche che quelle private, il dovere di rendere disponibili, mediante pubblicazione sui propri siti internet, i dati relativi a tutti i risarcimenti erogati nell'ultimo quinquennio, verificati nell'ambito dell'esercizio della funzione di monitoraggio, prevenzione e gestione del rischio sanitario di cui all'art. 1, comma 539, della l. 28 dicembre 2015, n. 208, come modificato dagli artt. 2 e 16 della legge.

Tra l'altro questa previsione è da leggersi insieme al comma 5 dell'art. 2, ove si dispone che all'art. 1, comma 539, l. 28 dicembre 2015, n. 208, si aggiunge la lettera d-bis), per cui ciascuna struttura, pubblica o privata, predispone di una relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all'interno della struttura, sulle cause che hanno prodotto l'evento avverso e sulle conseguenti iniziative messe in atto, relazione da pubblicarsi a sua volta sul sito internet della struttura sanitaria.

Invero, queste due previsioni sembrano, perlomeno in parte, sovrapporsi fra loro.

Entrambe parrebbero perseguire il medesimo scopo: quello, se diligentemente attuate, di fornire dei report e, quindi, delle informazioni relative ad eventuali pregressi delle strutture.

Si tratta, pertanto, di un'iniziativa del legislatore che, almeno sulla carta, potrebbe risultare utile per la comprensione di eventuali problematiche tali da trascendere il singolo caso (si pensi, per esempio, al ripetersi di infezioni nosocomiali in un determinato reparto).

Tuttavia, entrambe le disposizioni non risultano essere state felicemente formulate, soprattutto quella recata dal comma 3 dell'art. 4. Infatti, non è chiaro quali siano i «dati relativi ai risarcimenti erogati» che le strutture dovranno pubblicare sui loro siti; l'espressione è troppo generica, mentre sarebbe stato opportuno indicare con maggiore precisione i dati soggetti al dovere di pubblicazione (per esempio, cause della morte, reparto, data del decesso, ecc.). Non si comprende, poi, nella prospettiva futura il perché del limite del quinquennio.

Inoltre, in entrambi i casi non è contemplata alcuna sanzione per la struttura inadempiente a tali doveri, sicché ben potrebbe verificarsi che tali disposizioni finiscano per rimanere inattuate dalla stragrande maggioranza degli enti, o queste si risolvano a consegnare relazioni del tutto generiche o sostanzialmente inutili.

Le previsioni in questione, infine, non risultano porre dei limiti ai dati pubblicabili sui siti; nondimeno, il comma 1 dell'art. 4 evoca, quale principio generale per le prestazioni sanitarie, il rispetto del Codice in materia di protezione dei dati personali, sicché dovrebbe risultare scongiurata la prospettiva, per effetto di esecuzioni di tali disposizioni, di violazioni della privacy dei pazienti e/o dei loro famigliari.

Segue. La partecipazione dei famigliari al riscontro diagnostico

Fra i pochi dati positivi da segnalarsi al lettore si annovera la novità di cui al comma 4 dell'art. 4, che per l'appunto ha apportato un'aggiunta più che opportuna all'art. 37 del regolamento di polizia mortuaria, di cui al d.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, inserendo il comma 2-bis, per cui i familiari e gli altri aventi titolo del deceduto possono «concordare» (sic!) con il direttore sanitario o sociosanitario l'esecuzione del riscontro diagnostico di cui alla l. 15 febbraio 1961, n. 83, sia nel caso di decesso ospedaliero che in altro luogo, altresì potendo disporre la presenza di un medico di loro fiducia.

Tale norma dischiude una prospettiva importante per famigliari ed eredi, ancorché, tuttavia, sia da sottolinearsi la carenza della disposizione in questione sul piano della tecnica legislativa, ciò innanzitutto con riferimento all'infelice espressione «concordare». Questa, infatti, è manifestamente oltremodo vaga. Va poi debitamente ricordato che ai sensi dell'art. 39, comma 3, di detto regolamento il medico settore, allorquando si prospetti il sospetto che la morte sia dovuta a reato, deve sospendere le operazioni e darne immediata comunicazione all'autorità giudiziaria.

Conclusioni: prevenzione e risk management senza investimenti e trasparenza

Illustrate le norme qui in commento, il giudizio su di esse è, purtroppo, lungi dal poter essere positivo: la l. n. 24/2017 è altamente carente sul piano della prevenzione e del risk management.

Al riguardo va premesso in sintesi quanto segue:

- il contenimento dei casi di responsabilità, penali e civili, di medici e strutture sanitarie (quindi di danni agli individui e, in definitiva, alla collettività) non dovrebbe conseguirsi attraverso la riduzione delle tutele rimediali a disposizione dei pazienti e dei loro famigliari, bensì, almeno prioritariamente, tramite l'attuazione di tutte le politiche idonee alla prevenzione dei sinistri sanitari;

- su quest'ultimo fronte occorrono investimenti seri sulle strutture, sulle dotazioni e sul personale; si impongono sistemi efficienti di gestione del rischio e di reazione agli avventi avversi; sono pure necessarie adeguate risposte - sul piano penale, amministrativistico e lavoristico - a fenomeni criminosi purtroppo lungi dall'essere marginali nelle strutture sanitarie, come purtroppo insegnano le cronache.

Ciò posto, costituisce, pertanto, un segnale positivo che i primi tre articoli della legge siano dedicati in larga misura al tema della prevenzione e della gestione del rischio in sanità.

Sennonché, questo segnale risulta ampiamente ingannevole, ciò in quanto è inevitabile provare una certa qual delusione al cospetto di questi articoli.

In primis, il cerchio intorno all'esatta portata di queste norme si chiude con l'art. 18 recante la clausola di invarianza finanziaria per cui le amministrazioni provvedono all'attuazione delle nuove disposizioni esclusivamente nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie già disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

In pratica, il legislatore ha mostrato sì piena consapevolezza circa l'importanza della prevenzione, al punto che ne ha trattato sin dal principio; al contempo, però, ha dichiarato la propria indisponibilità a sostenerla finanziariamente, limitando gli orizzonti del suo intervento ai margini economici già previsti nei precedenti interventi, disponibilità che, come noto, sono insufficienti anche per la realizzazione degli scopi più basilari.

A deludere, tuttavia, non è soltanto la prospettiva di una prevenzione lasciata priva di risorse adeguate; critica risulta anche la scelta del legislatore di non garantire l'assoluta trasparenza sulle attività delle strutture in materia di gestione del rischio clinico.

A quest'ultimo riguardo, infatti, al comma 1 dell'art. 16 la novella esclude che i verbali e gli atti conseguenti all'attività di gestione del rischio clinico - cioè quei documenti indubbiamente fondamentali per la comprensione delle misure precauzionali contemplate e poste in essere - possano essere acquisiti o utilizzati nell'ambito di procedimenti giudiziari, con la conseguenza che così viene impedito, tanto ai danneggiati quanto alla magistratura, di fare piena luce in ordine alle misure precauzionali contemplate ed attuate dalle strutture.

Questo passaggio della nuova disciplina si pone senz'altro in aperta contraddizione con la trasparenza evocata dal legislatore e, in tutta una serie di casi, con il corretto accertamento delle responsabilità delle strutture. Soprattutto mina alla radice l'effettività delle attività di prevenzione dei sinistri sanitari, sottratte al controllo della magistratura. Risulta davvero difficile comprendere le ragioni di questa scelta legislativa.

In particolare, riformando l'art. 1, comma 539, lett. a), della legge 28 dicembre 2015 n. 208, che prevedeva l'utilizzo di tali documenti nei processi penali alla stregua di mezzi di prova alla condizione del rispetto delle modalità e delle garanzie stabilite dal c.p.p., la novella legislativa finisce per impedire in senso generalizzato, tanto nei processi penali che in quelli civili, lo scrutinio delle attività svolte per la prevenzione e la gestione dei rischi sanitari.

In pratica si sottrae a danneggiati e magistrati la possibilità di approfondire e documentare (od escludere) eventuali radicate carenze nell'attuazione, da parte delle strutture, delle misure di prevenzione e di gestione del rischio sanitario individuate dal legislatore del 2015, ricordandosi come fra tali misure il comma 539 avesse indicato in primis l'attivazione dei percorsi di audit finalizzati allo studio dei processi interni e delle criticità più frequenti, con analisi delle possibili misure idonee alla messa in sicurezza dei percorsi sanitari.

Questo inspiegabile diniego di trasparenza in merito alle attività di prevenzione non è certamente un incentivo all'attuazione delle stesse. Peraltro, si delinea un marcato trattamento discriminatorio fra strutture sanitarie e tutte le altre realtà imprenditoriali, che non possono certo sperare in coperture di questo tipo.

In definitiva, quindi, l'effettiva sicurezza delle cure, eppure declamata dall'art. 1, non sembra destinata a progredire; né paiono prospettarsi, neppure nel lungo periodo, diminuzioni dei sinistri sanitari. Le altre disposizioni della l. n. 24/2017 non risultano poter mutare queste previsioni.

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