Il nesso di causa nella responsabilità civile
16 Dicembre 2016
Il quadro normativo
Nonostante sia un requisito necessario e dunque fondamentale del fatto illecito, il nesso causale non viene espressamente disciplinato dal Codice Civile, rappresentando una lacuna che dottrina e giurisprudenza hanno colmato facendo ricorso analogico alla disciplina penalistica dettata dagli artt. 40 e 41 c.p., ritenuta applicabile anche al diritto civile in considerazione del fatto che la natura del nesso causale è comunque la stessa anche se applicata nei due diversi ambiti. Il Codice Civile, prevede invece una specifica disciplina dei danni risarcibili quali conseguenza dell'evento cagionato dal fatto illecito. Infatti, l'art. 2056 c.c., dettato specificamente per le ipotesi di responsabilità extracontrattuale, in tema di danno risarcibile, rinvia alla disciplina contrattuale di cui all'art. 1223 c.c. che limita la risarcibilità a quei danni che siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. Tale riferimento però, essendo relativo alla determinazione dei danni risarcibili, riguarda un accertamento diverso, non avente ad oggetto il legame tra la condotta del soggetto agente e l'evento, ma quello tra l'evento ed il danno con la conseguenza che il suo contenuto non può essere di supporto nell'accertamento, necessariamente preliminare, dell'imputabilità dell'evento all'agente (tra le varie si veda Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007 n. 21619). Sul piano normativo, pertanto, l'accertamento dell'imputabilità dell'evento ad un soggetto è regolata tramite il rinvio alla disciplina penale, mentre l'accertamento delle conseguenze pregiudizievoli che dall'evento sono derivate, è regolato dagli artt. 1223 e ss. c.c. Vengono così in rilievo due diverse funzioni del nesso di causalità: la prima che mira a ricostruire gli eventi ed il collegamento tra questi ed il responsabile (cd. causalità materiale), e la seconda che, attenendo al collegamento tra evento e danno, tende invece a selezionare l'area dei danni risarcibili (cd. causalità giuridica) (Cass. civ., sez. un., n. 174/1971). La giurisprudenza ha affermato a più riprese la distinzione tra i due accertamenti, definendo il nesso di causalità materiale quale collegamento tra condotta ed evento per cui ogni comportamento antecedente – prossimo, intermedio, remoto - che abbia generato, o anche soltanto contribuito, a generare il fatto, deve considerarsi causa dell'evento, a meno che non sia sopravvenuto un fatto da solo idoneo a determinarlo e, quindi, idoneo ad interrompere il nesso tra l'evento stesso e tutti gli antecedenti causali mentre il nesso di causalità giuridica riguarda l'accertamento delle conseguenze immediate e dirette dell'evento e dunque rileva quale criterio di delimitazione del danno (Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007 n. 21619; ugualmente in Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 582; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 581; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 576; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 584). Per costante orientamento della Cassazione, l'accertamento della causalità materiale è regolato dagli artt. 40 e 41 cp, secondo i quali si deve conferire rilevanza causale a tutti quegli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato, abbiano essi agito in via diretta e prossima od in via indiretta e remota e solo l'intervento di un fattore da solo idoneo a determinare l'evento, esclude la rilevanza causale di tutti gli altri antecendenti causali, facendoli scadere al rango di mere occasioni (Cass. civ., 16 giugno 1984, n. 3609; Cass. civ., 19 settembre 1996, n. 8348; Cass. civ., 15 gennaio 1996, n. 268; Cass. civ., 30 marzo 1985, n. 2234; Cass. civ., 7 aprile 1988, n. 2737). Pertanto, per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un evento, non basta affermare che questo si sarebbe potuto verificare anche in assenza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe egualmente verificato senza quell'antecedente, per l'efficacia causale esclusiva di un altro fattore causale (Cass. civ., 18 aprile 2005, n. 7997). Ad esempio, il medico accusato di aver procurato lesioni ad un paziente non si potrà limitare a sostenere che la lesione lamentata si sarebbe comunque prodotta anche in assenza della sua azione od omissione ma dovrà dimostrare, in concreto, quale sia il fatto pregresso o sopravvenuto a lui non imputabile che ha di fatto provocato il pregiudizio lamentato dal danneggiato. Il supporto dato all'interprete dal rinvio agli artt. 40 e 41 c.p., non è tuttavia sufficiente perché gli stessi si prestano a letture diverse e non riescono ad indicare un modello ben definito ed univoco di causalità. Si è riconosciuta quindi l'esigenza di adeguare i criteri di selezione previsti degli artt. 40 e 41 c.p. alla specificità della responsabilità civile, anche in considerazione della differente regola probatoria che la caratterizza rispetto a quella penale ed al mero fine risarcitorio del processo civile. A tal fine, in ambito civilistico, sono state recepite alcune delle diverse teorie elaborate dalla dottrina e giurisprudenza penale per accertare il nesso causale. La prima teoria è nota con il nome di condicio sine qua non, detta anche teoria della equivalenza di cause perché parifica tra loro tutti quei fattori che costituiscono antecedenti causali dell'evento. Tale teoria prevede di procedere all'accertamento della causalità in termini logico-naturalistici attraverso l'individuazione di tutti gli antecedenti che hanno concorso a produrre un determinato evento: è da ritenersi causa di un dato evento quella condotta che rappresenta una delle condizioni senza le quali l'evento non si sarebbe verificato. Pertanto, per causa deve intendersi ogni singola condizione dell'evento e dunque ogni antecedente senza il quale l'evento non si sarebbe verificato. L'interprete, nell'accertare la sussistenza del nesso di causalità attraverso tale teoria, dovrà effettuare una valutazione ex post secondo una doppia formula:
Così, nel caso di un medico accusato di aver provocato il decesso di un paziente durante un intervento, secondo la formula positiva è sussistente il nesso causale quando la morte non si sarebbe verificata in assenza dell'intervento mentre secondo la formula negativa si esclude il nesso causale quando il decesso sarebbe comunque intervenuto anche in assenza della condotta del medico. Nonostante che a questa teoria si sia riconosciuto l'indubbio pregio di aver posto in primo piano l'importanza del cosiddetto giudizio controfattuale, si è tuttavia criticato che “pecchi per eccesso”, in quanto l'equivalenza causale implica una esasperazione che conduce al cd. regresso all'infinito attraverso il quale si giunge a soluzioni talvolta paradossali, poiché, ad esempio, responsabile dell'investimento di un pedone potrebbe essere ritenuto anche il produttore dell'automobile! Si è per ciò concluso che la verifica effettuata attraverso l'impiego di condizioni controfattuali, non può rappresentare il filtro che permette l'individuazione tra più cause potenziali della causa efficiente, in quanto rischia di includere, nel processo di ricerca degli eventi, circostanze che, sebbene ipoteticamente cause degli stessi, non sono tali nella realtà. Per diminuire le criticità della teoria dell'equivalenza delle cause, sono state elaborate delle teorie denominate dell'imputazione oggettiva dell'evento che propongono dei correttivi volti a delimitare l'ambito del nesso causale giuridicamente rilevante individuando dei criteri astratti che permettono di determinare, tra tutte le concause naturali di un dato evento emerse attraverso l'applicazione della conditio sine qua non, quelle che hanno rilevanza giuridica. Nello specifico, il difetto di regredire all'infinito nell'individuazione degli antecedenti che sono causa dell'evento, viene corretto con un giudizio di prevedibilità, introdotto dalla teoria della causalità adeguata o regolarità causale secondo la quale, per operare una selezione tra i diversi antecedenti che assurgono al rango di causa, occorre compiere un giudizio di adeguatezza consistente nella individuazione della generale attitudine dell'azione a cagionare eventi del tipo di quello verificatosi in concreto. Tale teoria individua la causa di un evento nella condotta idonea a provocarlo secondo un criterio di prevedibilità basato sull'id quod plerumque accidit. Grazie al temperamento della causalità adeguata, si può essere ritenuti responsabili soltanto di quelle conseguenze che appaiano prevedibili al momento in cui si è agito escludendosi, di contro, la responsabilità per tutte le conseguenze atipiche che si dovessero verificare. La causalità adeguata non si pone come alternativa alla teoria della condicio sine qua non ma si cumula ad essa, ed anzi la sua applicazione presuppone già compiuto il giudizio condizionalistico, intervenendo, dunque, in un momento successivo: una volta individuati tutti gli antecedenti attraverso il metodo condizionalistico, si procederà ad una loro selezione secondo un giudizio di prevedibilità, escludendo il collegamento eziologico con l'evento di danno di quegli antecedenti che, quando si sono compiuti, non erano idonei a determinarlo (di recente Cass. civ., n. 12923/2015). A livello applicativo, è necessario operare un giudizio di prevedibilità ex ante, ponendosi mentalmente nelle condizioni del soggetto che ha determinato uno degli antecedenti e valutare se, in quel momento, l'evento di danno fosse o meno astrattamente prevedibile secondo la migliore scienza ed esperienza (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 582; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 581; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 576; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 584). Il giudice, chiamato ad accertare il rapporto di causalità, deve compiere quindi una prognosi postuma e verificare se l'evento costituisca uno sviluppo normale, probabile e prevedibile della condotta tenuta. Secondo la suddivisione tradizionalmente accettata, che vede la causalità materiale, in ambito civile, disciplinata attraverso il rinvio agli artt. 40 e 41 c.p. e quella giuridica dall'art. 1223 c.c., la teoria della causalità adeguata rappresenta l'applicazione dell'art. 41 c.p. in quanto, tra le varie cause individuate in applicazione dell'art. 40 c.p. attraverso la teoria condizionalistica, si conferisce rilevanza a quella sopravvenuta da sola idonea (id est adeguata) a cagionare l'evento. I criteri di accertamento
Nell'attuale sistema civilistico si ritiene che l'accertamento del collegamento tra un fatto, commissivo od omissivo, e l'evento dannoso debba essere svolto in base a criteri che si fondano su di un giudizio di probabilità. Tale conclusione, che a molti può apparire scontata, è invece il frutto di una evoluzione della dottrina e della giurisprudenza che, prendendo le mosse da quanto previsto in sede penale ove l'accertamento del nesso causale risponde a regole certamente più rigide, si sono man mano discostate proponendo un criterio proprio della responsabilità civile differente da quello penale. Un momento decisivo che ha posto i civilisti a doversi confrontare con soluzioni tipiche del diritto penale, è senza dubbio rappresentato dalla sentenza a Sezioni Unite Penali del 2002 comunemente nota con il nome di sentenza “Franzese” che ha ritenuto di ravvisare la sussistenza di un collegamento eziologico solo quando l'integrazione del dato statistico con le circostanze del caso concreto consenta di raggiungere un “alto o elevato grado di credibilità razionale” (Cass. pen., Sez. Un., 10 luglio 2002 n. 30328). La dottrina civilistica, ha rilevato come la ratio decidendi della sentenza Franzese fosse improntata al rispetto dei principi tipici della responsabilità penale che mal si conciliano con le diverse finalità della responsabilità civile (CAPECCHI, Il nesso di casualità. CEDAM, 2005, pag. 176 ss. ma già prima della “Franzese” così si esprimeva ZENO-ZENCOVIH, Questioni in tema di responsabilità per colpa professionale sanitaria, in NGCC, 1992, I, 362). Nonostante un primo adeguamento ai criteri penalistici operato da Cass. civ., n. 4400/2004, successive sentenze si sono man mano discostante dal modello penalistico nel tentativo di elaborare un criterio diverso e più attinente alla finalità meramente risarcitoria della responsabilità civile. Infatti, con la sentenza del 2005 (Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2005 n. 7997 del 2005), la Cassazione ha chiaramente affermato che il nesso di causalità rilevante per la responsabilità civile, può sussistere anche in assenza dei requisiti richiesti dalle Sezioni Unite Penali ed ha criticato il riferimento alla probabilità statistica compiuto dalla Franzese, ritenendo che si debba prediligere quello delle leggi scientifiche che, nel caso in cui non siano sufficienti ad individuare un criterio applicabile alla fattispecie, possono a loro volta essere sostituite dalla logica aristotelica e cioè dalle cd. “massime di esperienza” e, quindi, dall'id quod plerumque accidit, inteso come ciò che normalmente accade in casi simili. La successiva sentenza del 2006 (Cass. civ., n. 11755/2006), dando continuità ai principi affermati solo un anno prima, ha precisato chenella ipotesi di responsabilità civile, soprattutto se si versa in casi di illecito (anche) commissivo, la verifica probabilistica può arrestarsi su soglie meno elevate di accertamento controfattuale. Chiarificatrice dei motivi per i quali i criteri di accertamento previsti per la disciplina penalistica dalla sentenza Franzese, non possono essere applicabili nella responsabilità civile è la sentenza n. 21619 (Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007 n. 21619), ove si evidenziano diversità sia sotto il profilo morfologico che funzionale e dove viene confermata, definitivamente, la necessità di dover preferire la «probabilità relativa o variabile», caratterizzata da una soglia di probabilità meno elevata di quella penale e si afferma la definitiva obbedienza alla regola del «più probabile che non». L'accertamento del nesso causale civilistico consiste dunque nel valutare, tra le diverse opzioni, quella più probabile, escludendo le premesse più improbabili, secondo un principio di “ragionevolezza/adeguatezza”. Questo orientamento è stato definitivamente affermato nel 2008, dalle Sezioni Unite Civili che, chiamate a dirimere questioni relative al particolare ambito del danno da emotrasfusioni, sono tornate nuovamente sul tema del nesso causale e dei criteri necessari per il suo accertamento, precisando che i risultati delle leggi statistiche e scientifiche devono essere comunque corroborati dalla probabilità logica e quindi dagli elementi del caso concreto (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 582; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 581; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 576; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 584). La convinzione è che la causalità statistica possa essere vista come un significativo “indizio” della relazione causale ma non sia idonea, da sola, a dimostrare una relazione causale in quanto, talvolta, l'incremento delle frequenze può essere meramente occasionale o, altre volte, il caso concreto, per le sue peculiarità, può fuoriuscire dalle ipotesi meramente statistiche. Vengono così in rilievo, nella valutazione del nesso causale, le prove contenute negli atti del giudizio che serviranno all'interprete per valutare in termini logici i coefficienti numerici desunti dall'applicazione della statistica: l'interprete dovrà, attraverso il materiale relativo al caso concreto, effettuare un “giudizio di corroborazione” delle ipotesi statistiche e giungere ad una conclusione attraverso la regola probatoria della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non (Cass. civ., n. 3390/2015). I due concetti differiscono tra loro in quanto, il “più probabile che non”, si riferisce al grado di conferma che le prove acquisite conferiscono all'ipotesi statistica (che deve essere superiore al 50%), mentre la “preponderanza dell'evidenza” si riferisce ai casi in cui vi siano più ipotesi causali in conflitto fra loro, tra le quali deve prevalere quella che, comparativamente, ha la più elevata probabilità logica. In definitiva, nell'accertamento del nesso causale, non ci si potrà limitare a recepire il dato quantitativo-statistico delle frequenze di classi di eventi (cd. probabilità quantitativa o pascaliana) ma se ne dovrà verificare la fondatezza attraverso gli elementi di conferma o di esclusione disponibili in relazione al caso concreto (cd. probabilità logica o baconiana)(Cfr. BONA, Più probabile che non e concause naturali: se, quando ed in quale misura possono rilevare gli stati patologici pregressi della vittima, in Corr. Giur. 12/2009, pag. 1661). Nelle ipotesi omissive il rapporto tra omissione ed evento non esiste in natura e l'interprete deve immaginare un modello astratto idealizzato della condotta che è stata omessa e determinare se l'evento si sarebbe comunque verificato (giudizio controfattuale). In natura, pertanto, le omissioni non sono causa di nessun evento ma lo diventano, per il diritto, solo a seguito di una disposizione del legislatore che impone di tenere il comportamento non tenuto. L'omissione assume rilevanza giuridica solo se contraria ad un dovere giuridico non solo discendente da specifiche norme positive, ma anche da generici obblighi di comportamento quali quelli di correttezza e buona fede previsti dagli artt. 1175 e 1375 c.c.. Una volta ipotizzata la condotta doverosa, sarà necessario valutare se, in termini probabilistici, prima scientifici e poi logici fondati su tutti gli elementi del caso concreto, qualora attuata avrebbe evitato l'evento di danno. La causalità omissiva, dunque, è di tipo logico e non naturalistico e al suo accertamento si procede attraverso un giudizio sull'antidoverosità della condotta tenuta: secondo un giudizio controfattuale bisogna immaginarsi come compiuta la condotta omessa, successivamente è necessario valutare se tale condotta costituisse un dovere giuridico e se tale dovere violato mirasse ad evitare l'evento di danno verificatosi in concreto; infine, attraverso un giudizio probabilistico, bisogna determinare se la condotta omessa, qualora tenuta, avrebbe evitato l'evento e dunque se avrebbe interrotto la catena causale dimostrandosi idonea ad impedirlo. Così, ad esempio, nel caso di lesioni conseguenti ad omissione terapeutica, sarà necessario anzitutto immaginare se il medico avesse effettuato il trattamento omesso, dopodiché si deve valutare se tale trattamento fosse imposto dalla bona ars medica proprio per evitare le lesioni riportare dal paziente ed, infine, se il trattamento omesso avrebbe, probabilmente, evitato l'evento di danno concretamente verificatosi. Per fatti interruttivi del nesso causale si intendono quelli che, inseritisi nella catena causale determinata attraverso l'applicazione della teoria condizionalistica, risultano da soli idonei e sufficienti a determinare l'evento di danno, relegando gli altri antecedenti, tra i quali quello commesso dall'agente, a delle mere occasioni, giuridicamente irrilevanti ed ininfluenti, sotto il profilo causale. In altri termini, l'evento di danno, in assenza della condotta del convenuto, si sarebbe comunque verificato per effetto di una sequenza causale diversa ed autonoma che rende giuridicamente irrilevanti le altre cause, ponendosi come causa esclusiva dell'evento stesso (il concetto è ben espresso da Cass. civ., 12 settembre 2005 n. 18094). Il riferimento normativo viene comunemente individuato nell'art. 41, comma 2, c.p., la cui funzione è quella di limitare la straordinaria capacità espansiva della teoria condizionalistica e, quindi, di selezionare, tra tutte le possibili cause di un determinato evento, quelle alle quali imputare l'evento di danno. Secondo il costante orientamento della cassazione per causa da sola sufficiente a determinare l'evento si deve intendere quella che, costituendo un fattore del tutto eccezionale, abbia incidenza causale esclusiva per il verificarsi dell'evento oppure quella del tutto indipendente dal fatto del soggetto agente, avulsa dalla sua condotta ed operante con “assoluta autonomia ed autosufficienza” in modo da sfuggire al controllo ed alla di lui prevedibilità, che interrompa uno sviluppo causale in fieri, di modo che i fattori originari non siano neppure condizioni dell'evento, pur essendo stati intrinsecamente pericolosi (Cass. civ., 12 settembre 2005 n. 18094; Cass. civ., sez. III, 8 novembre 2002 n. 15710; Cass. civ., n. 268/1996). I fatti interruttivi vengono intesi come “cause non imputabili”, dove la non imputabilità non discende dall'assenza di colpa in capo al convenuto, ma dal fatto positivamente individuato e contraddistinto da un'autonoma efficacia causale assorbente (COTTINO, voce Caso Fortuito (dir. civ.), in Enc. Dir., pag. 381). In questi termini, se un determinato evento, secondo la teoria condizionalistica, è eziologicamente riferibile ad un soggetto, lo stesso potrà andare esente da responsabilità se sia intervenuto un altro fatto idoneo da solo a cagionarlo. Chi intenda far valere un fatto interruttivo, non si dovrà limitare ad affermare che l'evento si sarebbe comunque verificato anche in mancanza del fatto imputatogli, ma dovrà dimostrare che l'evento si sarebbe verificato in assenza di quel antecedente proprio per l'efficacia causale autonoma ed esclusiva del fatto sopravvenuto (Cass. civ., 18 aprile 2005 n. 7997). Nella responsabilità civile, i fatti interruttivi del nesso causale vengono comunemente individuati nel caso fortuito, nella cui accezione viene ricompresa anche la forza maggiore, nel fatto del terzo ed in quello della vittima in quanto, rispetto alla loro verificazione, il soggetto agente non aveva alcun obbligo di impedirli o prevenirli oppure perché il loro prodursi si sviluppa al di fuori di quella sfera di controllo che il diritto gli impone (Cfr. MONATERI, in La Responsabilità Civile, Trattato di Diritto Civile, diretto da R. Sacco, Torino, 1998, pag. 173; AAVV, Il nesso di causa nel danno alla persona, Milano, pag. 279). Concorso di cause
Oltre al già esaminato caso in cui nella sequela causale si inserisca un fattore dotato di autonomia causale esclusiva, frequenti sono i casi in cui, interrotta la catena causale, ci si trovi comunque di fronte a due o più cause che hanno contribuito a determinare il medesimo evento di danno. In tal caso viene in rilievo il problema relativo ai rapporti tra le varie cause individuate. Contrariamente all'accertamento del nesso causale e delle ipotesi interruttive, che si attengono ai principi regolatori dalla disciplina penale (artt. 40 e 41 c.p.), le ipotesi relative a più cause che hanno determinato il medesimo evento di danno vengono espressamente disciplinate dal Codice Civile all'art. 2055 rubricato sotto la dicitura “Responsabilità solidale” il quale, al comma 1, prevede che “se il fatto è imputabile a più persone tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno”, salvo poi, al comma 2, prevedere la possibilità di regresso interno tra i coautori in proporzione della “gravità delle rispettive colpe e dell'entità delle conseguenze che ne sono derivate”. La scelta del legislatore di prevedere la solidarietà in ipotesi di concorso di cause è certamente dettata dal favor riservato alla vittima del danno sia contro il rischio di insolvenza di uno dei colpevoli, sia contro il rischio di un danno parzialmente anonimo (DE CUPIS, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja e Branca, libro VI, Bologna, 1971, pag. 109; Cass. civ., n. 7118/1987; Cass. civ., n. 4296/1987; Cass. civ., n. 4203/1979). A livello applicativo l'art. 2055 c.c. interviene in un momento logico e cronologico successivo all'accertamento svolto in base agli artt. 40 e 41 cp. Infatti, innanzitutto, si deve ricorrere all'art. 40 c.p., per individuare attraverso la teoria della condicio sine qua non, tutti gli antecedenti causali di un determinato evento. Successivamente, attraverso l'applicazione dell'art. 41 c.p., si opera il temperamento dei risultati emersi attraverso la prima operazione individuando la presenza di fattori interruttivi. Dopodiché, se nonostante il temperamento di cui all'art. 41 c.p., l'evento risulti cagionato da due o più condotte, si procederà all'applicazione dell'art. 2055 c.c.. Secondo la Cassazione i presupposti necessari per l'applicazione della responsabilità solidale sono due: l'unicità dell'evento dannoso e l'imputabilità delle concause a soggetti diversi (Cfr. una per tutte Cass. civ., n. 291/2011). Nonostante l'art. 2055 c.c. parli letteralmente di “fatto dannoso”, inducendo a ritenere che i diversi agenti debbano concorrere a causare il medesimo fatto illecito, la giurisprudenza è chiara nell'affermare che per potersi parlare di concorso di cause è sufficiente che il danno sia unico, perché, trattandosi di concorso, l'unicità sussiste anche nelle ipotesi in cui il fatto dannoso dipende da diverse azioni od omissioni che hanno violato anche norme diverse, purché contribuiscano a determinare il medesimo danno (Cass. civ., n. 1147/1992; Cass. civ., 7680/1991; Trib. Torino 4 maggio 1987; Cass. civ., n. 5944/1997; Cass. civ., n. 6041/2010). Infatti, a differenza dell'art. 2043 c.c. che fa sorgere l'obbligo risarcitorio dal “fatto” doloso o colposo, l'art. 2055 c.c., considerando il “fatto dannoso”, fa riferimento alla posizione del danneggiato, in favore del quale è prevista la solidarietà, con la conseguenza che “unico” deve essere solamente il danno mentre le condotte illecite che lo hanno cagionato ben possono essere diverse e distinte, anche nel tempo. Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione è pacificamente orientata nell'affermare che ricorre la solidarietà, pur se il fatto dannoso sia derivato da più azioni o omissioni, dolose o colpose, costituenti fatti illeciti distinti, e anche diversi, sempre che le singole azioni o omissioni, legate da un vincolo di interdipendenza, abbiano concorso in maniera efficiente alla produzione del danno, a nulla rilevando, a differenza di quanto accade nel campo penalistico, l'assenza di un collegamento psicologico tra le stesse (Cass. civ., n. 6041/2010). Si può, quindi, avere concorso nella causazione del medesimo evento di due condotte nascenti una da un rapporto contrattuale ed l'altra da un rapporto extracontrattuale(Cass. civ., n. 1998/1969; Cass. civ., n. 820/1970; Cass. civ., n. 1696/1980; Cass. civ., n. 1114/1986; Cass. civ., n. 884/1987; Cass. civ., n. 8312/87; Cass. civ., n. 2605/1993; Cass. civ., n. 7231/1995; Cass. civ., n. 418/1996) così come tra ipotesi di responsabilità per colpa e quelle di responsabilità oggettiva (Cass. civ., n. 1760/1973; Cass. civ., n. 6739/1988). Rappresenta dunque una regola pacifica che la responsabilità solidale intervenga in presenza di più fatti, diversi tra loro, compiuti in momenti anche successivi, purché abbiano contribuito in modo concorrente alla produzione del danno. Il giudizio sulla causalità giuridica segue quello sulla causalità materiale e cioè interviene dopo che si è già risolto il problema dell'imputazione dell'evento e si è dunque già accertata la responsabilità. In questa seconda fase si deve determinare l'estensione delle conseguenze dannose, affrontando una questione che non è più di “causalità” ma di “ammontare del danno risarcibile”. La causalità giuridica è regolata dagli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., applicabili anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale in forza del richiamo operato dall'art. 2056 c.c.. In particolare, l'art. 1223 c.c. si riferisce al rapporto evento-danno prevedendo, ai fini risarcitori, la sussistenza del carattere di “conseguenza immediata e diretta”. La sua funzione è quella di adeguare il risarcimento del danno a quello effettivamente subito dal danneggiato e di porre a carico del danneggiante i relativi costi. La ratio della norma è, da una parte quella di impedire che il danneggiato possa ricevere un ristoro maggiore di quello effettivamente spettantegli, scongiurando così il crearsi di ipotesi, inaccettabili, di arricchimento senza causa o che gli vengano risarciti danni che si è autoprocurato e, dall'altra di imporre al danneggiante di rispondere di tutte - ma solo - le conseguenze immediate e dirette della sua azione, e cioè del danno ingiusto provocato. A livello applicativo si deve procedere attraverso un giudizio ipotetico così da valutare, secondo l'id quod plerumque accidit, quelle che sono le conseguenze immediate e dirette dell'azione commessa, procedendo attraverso un giudizio differenziale tra la condizione post fatto illecito e quella che sarebbe stata in assenza di esso (particolarmente chiara in tal senso è la citata sentenza Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007 n. 21619). Infatti, attraverso le regole giurisprudenziali desumibili dall'art. 1223 c.c., arricchite ed integrate dall'art. 1227, comma 2, c.c., si va a determinare il contenuto del danno risarcibile, giungendo all'identificazione del pregiudizio il cui costo deve essere imputato al responsabile, potendosi affermare con certezza che questo lo ha cagionato (Cfr. FRANZONI, Il danno risarcibile, II, in Trattato della Responsabilità Civile, GIUFFRE', 2010, pag. 22). Tramite l'applicazione delle due norme si giunge, in primo luogo, a determinare i danni che sono conseguenza immediata e diretta (art. 1223 c.c.), fra i quali, in un secondo momento, si escludono quelli che il danneggiato poteva evitare con l'ordinaria diligenza (art. 1227, comma 2, c.c.). L'elasticità - o genericità - del contenuto dell'art. 1223 c.c., ha indotto la giurisprudenza ad elaborare dei criteri che possano indirizzare l'interprete nell'accertare le conseguenze “immediate e dirette” di un evento di danno. Tali criteri sono rappresentati dalla normalità e dalla prevedibilità (DE CUPIS, Il danno, I, GIUFFRE', 1980, pag. 228 ss.; in giurisprudenza Cass. civ., n. 1785/1982). Per normalità si intende ciò che si desume dall'esperienza e dalle regole probabilistiche e statistiche sulla base delle quali un danno si ritiene risarcibile quando sia “probabile”, “normale” ed “statisticamente dimostrabile” che derivi da un determinato evento. Utilizzando tale criterio si riconosce la rilevanza giuridica e dunque la risarcibilità anche di danni mediati ed indiretti, apparentemente in contrasto con il tenore letterale dell'art. 1223 c.c. ma che invece non lo sono quando siano prodotti da una sequenza normale o regolare di eventi che traggano origine dal fatto iniziale (Cass. civ., n. 15274/2006; Cass.civ., n. 12124/2003; Cass. civ., n. 589/1999). Il criterio della “prevedibilità”, invece, serve a determinare le conseguenze normali di una condotta e quindi, se il danno sia una sua conseguenza immediata e diretta. Va premesso che la prevedibilità non è quella di cui all'art. 1225 c.c., pacificamente non applicabile alla ipotesi extracontrattuali e neanche quella propria della colpa, che si riferisce, invece, alla prevedibilità in concreto, ma quella intesa in modo rigorosamente oggettivo ed astratto, come criterio da adottare per capire se sia normale che da una data sequenza di avvenimenti già in atto, si possano produrre i danni lamentati. Tale criterio quindi, prescinde dalla diligenza dell'uomo medio e riguarda invece le regole statistiche e probabilistiche con le quali determinare se un pregiudizio lamentato sia conseguenza di un determinato evento (Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 582). Una volta delimitato l'ambito delle conseguenze immediate e dirette attraverso i criteri di normalità e prevedibilità in astratto, in presenza di una precisa e puntuale eccezione del convenuto ai sensi dell'art. 1227, comma 2 c.c., il giudice, in ossequio del principio di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato, sancito dall'art. 112 c.p.c., dovrà valutare se, tra i danni immediati e diretti, ve ne siano alcuni, o se siano tutti, da non imputare al danneggiante perché imputabili allo stesso danneggiato che, con l'ordinaria diligenza, li poteva evitare.
La prova del nesso causale, così come, in caso di responsabilità extracontrattuale, degli altri elementi dell'illecito e, in caso di responsabilità contrattuale, del titolo e dell'inadempimento, è ai sensi dell'art. 2697 c.c. riservata alla parte che vuol far valere un diritto in giudizio, il cui onere è di provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (tra la varie Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015 n. 10244; Cass. civ., 19 maggio 2015 n. 10191). Tale rigida regola generale si è andata tuttavia ad affievolire e specialmente in alcuni campi della responsabilità civile, quali ad esempio il sottosistema della responsabilità medico sanitaria, ha praticamente perso rilevanza, avendo la giurisprudenza sviluppato ed adottato principi che hanno sostanzialmente condotto ad un'inversione dell'onere della prova. Infatti, la giurisprudenza, complice l'applicazione del regime contrattuale della responsabilità sanitaria, il rigetto del criterio penalistico della certezza ed il conseguente ricorso al criterio della probabilità logica, ha reso largamente presuntiva la prova del nesso causale, consentendo al creditore di potersi limitare ad allegare l'inadempimento qualificato ed il nesso causale tra questo e l'evento di danno, ed addossando sul debitore l'onere di liberarsi dalla presunzione, dimostrando che l'esito lesivo sia stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile, ovvero l'esistenza di una particolare condizione fisica del paziente non precedentemente accertata né accertabile e, quindi, l'assenza del nesso causale (tra le più recenti Cass. civ., n. 5590/2015; Cass. civ., sez. III, 30 settembre 2014 n. 20547; Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2013 n. 4792; Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2013 n. 27855; Cass. civ., 20 ottobre 2014 n. 22222). Ne consegue che, seppur non si possa parlare di totale inversione dell'onere probatorio, è evidente come questo non gravi tanto sul danneggiato ma prevalentemente sul debitore. Al danneggiato spetta sempre dimostrare la sussistenza del nesso causale, ma tale prova può essere fornita anche attraverso il ricorso alle presunzioni, il che comporta l'ulteriore onere in capo al convenuto di liberarsene fornendo la prova contraria. Tra l'altro lo spostamento del carico probatorio dal creditore al debitore è stato ulteriormente favorito dall'ormai consolidata teoria sul cd. “danno evidenziale”, ossia dalla regola della “prossimità alla fonte di prova o vicinanza della prova”, secondo la quale non può essere addossata alla vittima, che dimostri la riferibilità, in termini di idoneità lesiva, dell'evento dannoso all'attività sanitaria, la prova di circostanze che solo il convenuto è in grado di fornire e che l'attore non possa farsi carico di eventuali lacune probatorie imputabili al soggetto danneggiante (Cass. civ., sez. III, 13 settembre 2000 n. 12103; Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2003 n. 11316; Cass. civ., sez. III, 5 luglio 2004 n. 12273; Cass. civ., n. 1538/2010; Cass. civ., 27 aprile 2010 n. 10060; Trib. Milano, sez. I, 3 dicembre 2014, n. 14401; Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015 n. 12218). Frequenti sono i casi in cui, per varie ragioni, siano andati persi i documenti che accertavano lo stato di salute del danneggiato al momento dell'ingresso in ospedale oppure vi siano lacune della cartella clinica che non consentono di poter ricostruire se la condotta medica sia stata conforme alla regula artis. In tali casi, le lacune che, a rigore comporterebbero delle carenze probatorie, non possono essere addossate alla vittima danneggiata, dipendendo da colpa esclusiva del medico-struttura sanitaria che ha l'obbligo di correttezza e completezza nel mantenimento e nella compilazione della cartella clinica e di tutti i documenti ivi allegati. Ne consegue che, proprio nel rispetto del principio della vicinanza della prova e dal relativo onere, non potendo essere fornita la prova della regolare condotta, il nesso causale tra l'intervento e le lesioni lamentate si riterrà presuntivamente accertato spettando al debitore dimostrare il contrario. Peraltro, l'accertamento presuntivo del nesso causale e quindi lo spostamento dell'onere probatorio in capo al debitore che dovrà dimostrare l'assenza del legame causale con la sua condotta, è oggi applicabile anche alle ipotesi di prestazioni di difficile esecuzione per le quali l'art. 2236 c.c. limita la responsabilità del medico ai casi di colpa grave o dolo. Secondo la concezione tradizionale, in queste prestazioni, il paziente doveva dimostrare non solo la difficoltà della prestazione e colpa grave o il dolo ma anche il legame causale tra tale condotta e l'evento di danno non applicandosi il regime presuntivo, invece tradizionalmente applicabile alla ipotesi di prestazioni routinarie. Il più recente orientamento giurisprudenziale formatosi in conseguenza delle più volte richiamate Sezioni Unite del 2008, ha infatti spiegato che, indipendentemente dalla natura facile o difficile della prestazione, l'onere probatorio è sempre lo stesso e l'accertamento della sussistenza del legame eziologico in presenza di un comportamento astrattamente idoneo a provocare l'evento è presumibile spettando poi al debitore fornire la prova contraria dell'assenza del nesso causale (da ultimo Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2015 n. 5590). La giurisprudenza pertanto ha agevolato il danneggiato sotto il profilo probatorio introducendo un principio di diritto che, pur senza realizzare l'inversione dell'onere della prova, raggiunge, dal punto di vista pratico, effetti equivalenti. In conclusione
La giurisprudenza civile con una serie di decisioni avvallate dalle Sezioni Unite del 2008 (Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 582; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 581; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 576; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 584) ma successivamente riprese da tutte le sentenze che sono seguite, si è discostata dal modello penalistico di accertamento causale, elaborando il criterio meno rigido fondato sulla regola probatoria del più probabile che non, conferendo rilevanza alla logica, a dispetto delle regole statistiche e scientifiche, e quindi ponendo in primaria rilevanza le prove acquisite nel caso concreto. Nei casi di responsabilità contrattuale, ed in particolare nel sottosistema della responsabilità medico-sanitaria, si è giunti, tramite l'applicazione della regola presuntiva e del principio di vicinanza della prova, a caricare il debitore della prova liberatoria dell'assenza di nesso causale, sgravando il danneggiato che si potrà limitare alla mera allegazione del legame causale in presenza di una condotta astrattamente idonea a provocare l'evento. Con l'avvento del DDL Gelli-Bianco, ora all'esame del Senato, la responsabilità del medico verrà riportata all'interno della responsabilità extracontrattuale, con la conseguenza che, a logica, il carico probatorio nei casi in cui si agirà nei confronti del medico e non della struttura che continua a rispondere ai sensi dell'art. 1218 c.c., ritornerà interamente in capo al paziente. Del resto a tale conclusione era già giunto il Tribunale di Milano con la sentenza del 17 luglio 2014 (Trib. Milano, Sez. I, 17 luglio 2014) a seguito dell'interpretazione data all'art. 3, comma 1, l. Balduzzi secondo il quale per il medico resta fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. anche nel caso in cui non risponda penalmente per aver tenuto una condotta connotata da colpa lieve. |