La chance: un bene economicamente esistente e patrimonialmente autonomo?
14 Maggio 2014
Natura e caratteri
Il danno da perdita di chances è una figura di “importazione”: nata in seno all'esperienza francese, si è progressivamente estesa oltre l'arco alpino, al punto di influenzare sensibilmente la giurisprudenza e la dottrina italiane. Essa ha trovato ampia fortuna nel settore lavoristico (per es. con riguardo alle ipotesi di illegittima esclusione da un concorso) ed ha conosciuto un certo successo pure nell'ambito della responsabilità professionale (es. del medico, del notaio, dell'avvocato ecc.), anche se da molti anni si discute circa la sua natura e collocazione. Verranno illustrate le tesi sviluppate dalla dottrina e le posizioni della giurisprudenza, soffermando l'attenzione su alcune (possibili) suggestioni, sollecitate dai più recenti e (rivoluzionari) orientamenti in tema di danno da perdita della vita. Dal punto di vista della ricostruzione e dell'inquadramento dogmatico, il panorama dottrinale appare diviso: per alcuni, la perdita di chances si atteggia come lucro cessante; per altri, invece, si configura come danno emergente. Dall'inquadramento entro l'una o l'altra delle due “categorie” discendono conseguenze di non poco conto, che si lasciano apprezzare soprattutto sul piano dell'accertamento del nesso causale, dell'onere della prova e della quantificazione del risarcimento. Per maggiore chiarezza, conviene quindi trattarne separatamente.
La perdita di chances come lucro cessante
Secondo un primo orientamento, la perdita di chance è un “lucro cessante”, consiste cioè in un mancato guadagno, nella perdita di un risultato, di un vantaggio che il soggetto avrebbe conseguito se l'illecito (o l'inadempimento) non si fosse verificato (quantum mihi abest). Pronunziandosi sull'art. 1223 c.c., la giurisprudenza ha sottolineato che per ottenere il risarcimento di tale voce di danno occorre la prova, sia pure indiziaria, della utilità patrimoniale che, secondo un rigoroso giudizio di probabilità, e non di mera possibilità, il creditore avrebbe conseguito se il debitore avesse eseguito correttamente la prestazione; ne deriva che non potrà essere riconosciuto alcun ristoro per quei mancati guadagni che sono soltanto ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte (Cass. n. 7647/1994, in Mass. Giust. Civ., 1994, 1128). La Cassazione ha altresì osservato che il creditore può ottenere il risarcimento del lucro cessante soltanto quando, sulla base della proiezione di situazioni già esistenti dimostrate e non soltanto dedotte, possa ritenersi che il danno si sarebbe prodotto secondo una ragionevole e fondata previsione (Cass. n. 5045/1990, Mass. Giust. Civ., 1990, 5; Cass. n. 9598/1998, in Danno e Resp., 1999, 534). Concepire la perdita di chances in termini di lucro cessante significa, dunque, richiedere una prova puntuale del nesso causale (secondo il criterio del “più probabile che non” definito da Cass. n. 21619/2007, Cass. 16 ottobre 2007 n. 21619 in Danno e Resp. 2009,155); e così, il candidato che sia stato illegittimamente escluso dal concorso potrebbe sì ottenere il risarcimento del danno — sub specie di maggior guadagno che avrebbe conseguito se avesse ottenuto il posto di lavoro —, ma dovrebbe dimostrare , in termini di “ragionevole probabilità” e sulla base di circostanze certe, che avrebbe superato gli esami; una “mera possibilità” non sarebbe sufficiente (Cass., Sez. L, sent. 1 dicembre2004, n. 22524, la Corte ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato la domanda proposta da un dipendente delle Poste a cui era stata sottratta la possibilità di partecipare ad un concorso per un avanzamento di carriera - era assente per malattia e l'ente non gli aveva inviato la comunicazione telegrafica relativa alla copertura del posto vacante-. Il Collegio esclude il risarcimento perché il lavoratore si era limitato a sottolineare che avrebbe avuto probabilità di successo quanto meno pari a quelle degli altri due colleghi risultati vincitori, senza però indicare i criteri selettivi in base ai quali detto avanzamento doveva avvenire, e senza procedere alla doverosa comparazione, alla stregua di detti parametri, della sua posizione con quella dei due predetti dipendenti). L'orientamento in parola ha trovato un certo seguito: in applicazione dei principi testè indicati, la Corte ha per es. negato, per difetto di prova, il danno patrimoniale da perdita di chance invocato da un giovane aspirante ballerino rimasto infortunato in un sinistro stradale (Cass. n. 9598/1998, in Danno e Resp., 1999, 534). Nello stesso senso si muovono le pronunce in tema di responsabilità professionale dell'avvocato: « ;Il cliente che chieda al proprio difensore il ristoro dei danni che egli assume subiti a seguito della mancata impugnazione della sentenza di primo grado non può limitarsi a dedurre l'astratta possibilità della riforma in appello di tale pronuncia in senso a lui favorevole, ma deve dimostrare l'erroneità della pronuncia in questione oppure produrre nuovi documenti o altri mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame, se proposto, sarebbe stato accolto ;» (Cass. n. 722/1999, in Danno e Resp., 1999, 1123; analogamente, Cass. 27 marzo 2006 n. 6967; Cass. 27 maggio 2009 n. 12354; Cass. 22 aprile 93, n. 4725.). La perdita di chances come danno emergente
Assestata sul versante opposto è, invece, la teoria secondo cui la chance è un bene attuale, è una prospettiva favorevole, una “mera possibilità” che fa già parte del patrimonio del soggetto: la sua “distruzione” si atteggia, quindi, come danno emergente (questa configurazione è accolta da M. Bocchiola, Perdita di una "chance" e "certezza" del danno, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 55 ss., e da A. Pontecorvo, La responsabilità per perdita di chances, in Giust. civ., 1997, II, 447 ss.). In giurisprudenza, per questa posizione: Cass. sez. III, sent. 21 luglio 2003, n. 11322; Cass. n. 4400/2004. In tale diversa ottica le conseguenze pratiche cambiano radicalmente. Per tornare all'esempio di cui sopra: poniamo il caso che il candidato non sia affatto in condizione di dimostrare che, in mancanza dell'illecito altrui, avrebbe vinto il concorso (non dispone di elementi sufficienti per sostenere e provare l'esistenza del nesso in termini di “ragionevole probabilità”); secondo l'impostazione più sopra esaminata (quella del “lucro cessante”), in una tale evenienza dovrebbe categoricamente escludersi qualsiasi risarcimento. Nella prospettiva del “danno emergente”, invece, il soggetto merita tutela, perché ha comunque perduto qualcosa, una “occasione”, una “possibilità”, che era entrata nel suo patrimonio e che aveva, in sé, un valore. Il danno non verrà quindi commisurato al lucro cessante (es. alle maggiori retribuzioni), ma alla “entità” della chance. La prova, allora, non riguarda il rapporto eziologico (tra condotta ed evento lesivo, in termini di mancato conseguimento di un risultato che il soggetto avrebbe altrimenti ottenuto), ma la consistenza “percentuale” di quella “opportunità” che c'era già ed è sfumata. La quantificazione del pregiudizio segue un criterio che può, a grandi linee, essere così descritto: si calcola astrattamente il vantaggio economico che il soggetto avrebbe ottenuto se non si fosse verificato l'evento lesivo e lo si riduce percentualmente, in funzione della “possibilità” di realizzarlo (es. 15%, 20% ecc.). Il tutto, ovviamente, attraverso lo strumento della valutazione equitativa di cui dispone il Giudice (Cass. Sez. L, sent. 14 dicembre 2001 n. 15810 ; Cass. Sez. II, sent. 13 dicembre 2001, n. 15759).Con riferimento specifico al settore della responsabilità medica, la qualificazione in termini di “danno emergente” è stata di recente recepita dalla nota sentenza Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619 (cit.) che, nell'indicare i “livelli” sui quali si assesta la causalità civile, ha osservato come la « ;perdita di chances, attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico ;» va concepita « ;non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute ;». Va segnalata altresì Cass. 19 maggio 2008 n. 23846 (Cass. n. 23846/2008, in Danno e Resp., 2009, 155) nel caso, relativo alla mancata tempestiva diagnosi di pregressa patologia di per sé mortale, la Suprema Corte ha annullato la decisione del giudice di merito rilevando che all'attrice doveva essere riconosciuto il risarcimento del danno per una “duplice” perdita di chances: quella di vivere più a lungo (anche se solo di poche settimane o alcuni mesi) e “meglio” (una corretta diagnosi le avrebbe permesso di subire un intervento meno invasivo e di beneficiare di terapie palliative contro il dolore). Nella motivazione è racchiusa l'essenza di quella che, secondo il Collegio, deve qualificarsi come chance: si tratta, afferma la Corte, di una <<entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora si accerti che la sua concreta utilizzazione avrebbe reso (non necessariamente probabile ma) anche solo possibile il conseguimento di un determinato vantaggio ;». Il Collegio ha, in sostanza, aderito alla tesi secondo cui la perdita di chance è un danno emergente ed ha precisato che la “percentuale di probabilità” di ottenere un certo risultato rileva soltanto ai fini della quantificazione, nel senso che ove essa sia scarsamente significativa potrà concludersi che il “valore della perdita è nullo” (e dunque, in pratica, il risarcimento sarà pari a zero). Il principio è stato (almeno in tesi) di recente ribadito da Cass. 14 giugno 2011, n. 12961 che, nell'occuparsi di un caso analogo (omesso accertamento di un carcinoma), ha tuttavia respinto il ricorso osservando come all'esito della disposta CTU fosse emerso che la condotta dei medici (seppur erronea) era “indifferente sul piano eziologico” (una pronta diagnosi non avrebbe comunque comportato significative differenze né in termini di durata né in termini di qualità della vita residua); come a dire: la “chance di sopravvivenza” era praticamente nulla. Profili processuali
Va altresì ricordato che secondo l'orientamento tradizionale (affermato per es. da Cass. n. 4400/2004 (Cass. 04 marzo 2004 n. 4400, Il Foro It. 2004, 5, p.1403, pt. I), afferma che « ;nell'ambito della responsabilità dei medici, per prestazione errata o mancante, cui è conseguito il danno del mancato raggiungimento del risultato sperato, se è stato richiesto solo questo danno, non può il giudice esaminare ed eventualmente liquidare il danno da perdita di chance, che il creditore della prestazione sanitaria aveva, neppure intendendo questa domanda come un minus rispetto a quella proposta, costituendo invece domande diverse, non ricomprese l'una nell'altra ;». Nello stesso senso Cass., sez. lav., n. 852/2006, in Resp. Civ. e Prev., 2006, 1272), secondo cui la domanda avente ad oggetto il risarcimento per la perdita di chances è diversa da quella diretta a conseguire il ristoro del danno per il mancato raggiungimento del risultato sperato, con la conseguenza che — ove sia stata formulata solo quest'ultima — il Giudice non può esaminare la prima, neppure intendendola come un minus della seconda. L'assunto è, tuttavia, smentito dalla già citata Cass. 14 giugno 2011, n. 12961 che, al contrario, osserva:« ;può superarsi la tesi secondo cui esito positivo probabile e possibilità di tale esito costituiscano oggetto di pretese risarcitorie diverse ;»: da ciò deriva che « ;ritenuta la richiesta del risarcimento del danno da perdita di chance come riduzione dell'originaria domanda di risarcimento dell'intero pregiudizio assunto, da un parte essa non determina una mutatio libelli e dall'altra tale riduzione può essere effettuata direttamente anche dal giudice, pur in difetto di esplicita richiesta della parte in tal senso riduttiva ;». La questione, però, è tutt'altro che pacifica se si considera che la recente Cass. 29 novembre, 2012 sembra essere tornata all'idea di partenza: gli Ermellini hanno infatti stabilito che la domanda volta ad ottenere il risarcimento per la perdita di chance è diversa da quella diretta a conseguire il ristoro del pregiudizio per il mancato conseguimento del risultato (Cass. 29 novembre 2012, in D&G, 30 novembre 2012: gli Ermellini confermano la decisione della Corte d'Appello che aveva escluso che la domanda degli eredi del paziente deceduto potesse essere qualificata come di risarcimento del danno da perdita di chance laddove essi, nell'atto introduttivo del giudizio, avevano chiesto il ristoro di tutti i pregiudizi derivati dalla morte del loro congiunto. Osserva il Collegio: « ;E invero, il rilievo degli impugnanti, volto a far valere che, nell'atto introduttivo del giudizio essi avevano chiesto il risarcimento di tutti i danni derivati dalla morte del loro congiunto — e dunque anche il danno da perdita di chance — è all'evidenza basato sull'equivoco di fondo che la liquidazione di quest'ultimo possa essere operata d'ufficio dal giudice, essendo la relativa domanda insita, come un minus, in quella volta a far valere il pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato. Per quanto innanzi detto, trattasi invece di domanda tutt'affatto diversa, sulla quale, ove non proposta, il giudice non può pronunciare ;»). Nello stesso senso anche la recentissima sentenza del Tribunale di Reggio Emilia 27 febbraio 2014 (Trib. Reggio Emilia 27 febbraio 2014 Est. Morlini).
Le critiche della dottrina alla figura della perdita di chances
La tesi della perdita di chances come danno emergente è stata — ed è — oggetto di forti critiche in dottrina: autorevoli studiosi (M. Rossetti, Il danno da lesione della salute, Padova, 2001, 1053; conf. A. Pacces, Alla ricerca delle chance perdute: vizi (e virtù) di una costruzione giurisprudenziale, in Danno e Resp., 2000, 658) hanno infatti evidenziato che essa si traduce in un escamotage che consente al soggetto di ottenere un risarcimento anche in assenza del nesso causale, in mancanza cioè di quello che, per definizione, è uno degli elementi costitutivi dell'illecito: l'interessato riceve tutela anche quando non è possibile provare (secondo la regola di “accertamento” del più probabile che non) l'esistenza di un collegamento eziologico tra il fatto del terzo ed il mancato conseguimento del risultato, all'uopo bastando una “mera possibilità”.. Si è altresì osservato che la chance non può essere considerata un bene suscettibile di valutazione economica: non si può acquistare, né vendere, né cedere, né donare; non ha una utilità in sé, ma solo se ed in quanto venga ad essere lesa. Anche la giurisprudenza di merito ha registrato qualche voce di dissenso: si veda, per es. il Tribunale di Venezia 25 luglio 2007 (Trib. Venezia 25 luglio 2007, in Danno e Resp., 2008, 51) secondo cui « ;l'autonoma risarcibilità della chance va esclusa alla luce del fatto che essa si traduce nella risposta ad esigenze di compensation che provengono dalle vittime in ragione della complessità dei problemi causali ;». Ancor più di recente, pare emblematica la posizione assunta da Trib. Cremona, 24 ottobre 2013 n. 542 che osserva: <<Ma infine, è il concetto stesso di chance come bene esistente economicamente e patrimonialmente autonomo, ad essere discutibile. Quella che viene chiamata chance e viene ritenuta entità a sé stante non è che una mera aspettativa di fatto, perché o, in base alle chance concretamente esistenti, il soggetto leso avrebbe, con giudizio condizionalistico abduttivo ed elevata credibilità logico- razionale, conseguito il bene della vita, il risultato, e allora sarà questo ad essergli risarcito, oppure non lo avrebbe conseguito, e allora non può certo essergli accordato un risarcimento per così dire minore di un'entità che altro non è che la sintesi delle condizioni favorevoli>>. Ad avviso di chi scrive, siffatte critiche colgono nel segno: la chance pare essere diventata una sorta di escamotage attraverso il quale il danneggiato può ottenere un ristoro (seppur ridotto) anche nell'ipotesi in cui non sia in grado di provare il rapporto eziologico (ossia di raggiungere quel parametro del “più probabile che non” di cui ha parlato Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619). Il che pare in contrasto con i principi fondamentali in materia di responsabilità civile
La regola enunciata da Cass. n. 577/2008 ed i suoi riflessi sulla perdita di chances
La figura della “perdita di chance” deve, peraltro, confrontarsi con gli sviluppi della giurisprudenza. Può essere utile qui ricordare che le Sezioni Unite con la sentenza n. 577/2008 (Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577 in Resp. civ. e prev. 2008, 849) hanno profondamente innovato le regole in tema di riparto degli oneri: il malato non deve (più) provare il rapporto causale, ma è sufficiente che alleghi una condotta astrattamente efficiente alla produzione del danno; spetterà al medico/struttura dimostrare che non vi è stato inadempimento, ovvero che, se si è verificato (perché per es. effettivamente non sono stati rispettati i protocolli, le regole di buona pratica ecc.), non ha avuto efficacia causale (es. la morte è dipesa da altri fattori indipendenti). Stando a questo orientamento, dunque, il nesso sostanzialmente si presume: esso sussiste (e dà vita ad una responsabilità, per così dire, a tutto tondo) in tutti i casi in cui la struttura/il sanitario non riescano a dimostrare che l'errore non ha avuto efficacia causale (ossia non possano provare che, con una probabilità di almeno il 51%, l'evento è dipeso da altro). Ma è chiaro come una simile probatio sia spesso diabolica. Si pensi al caso in cui la prestazione non sia conforme alle regole dell'arte e, tuttavia, accanto ad essa, vengano in gioco molteplici fattori astrattamente idonei a provocare quel tipo di danno (tutti dotati di pari efficacia eziologica): in una situazione del genere vi è la mera possibilità che l'atto del medico abbia provocato l'accadimento infausto; ma se il sanitario o l'ente non riescono a dimostrare che sono intervenute altre cause a spezzare il nesso, la condanna al risarcimento (in presenza degli altri presupposti di legge) diviene pressoché ineludibile. E l'aspetto peculiare è che, in siffatte ipotesi, il paziente potrà ottenere un risarcimento integrale (il vero e proprio “lucro cessante”). Alla luce di ciò, si capisce come, in concreto, sia un po' sfumata l'utilità del ricorso alla perdita di chances che, appunto, è nata come strumento volto ad agevolare il (a garantire comunque una tutela minima al) danneggiato che non fosse in grado (quando ne aveva l'onere...) di dimostrare il nesso tra la condotta del medico ed il mancato conseguimento del risultato . Va detto, peraltro, che la regola enunciata da Cass. 577/2008 non risulta seguita pedissequamente: il quadro, nella stessa giurisprudenza di legittimità, è a macchia di leopardo. E così, alcune pronunce hanno confermato il principio secondo cui il paziente deve (semplicemente) allegare un inadempimento astrattamente idoneo a produrre il danno (Cass. 08 giugno 2012, n. 9290; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17143; Cass. 01 febbraio 2011, n. 2334; Cass. 30 dicembre 2011, n. 30267; Cass. 26 gennaio 2010, n. 1538, in Diritto e Giustizia, 2010; Cass. 8 settembre 2009, n. 20101, in Ragiusan, 2011, 325-326,189). Altre, invece, hanno sostenuto che il malato ha comunque l'onere di provare il nesso causale tra la condotta dei sanitari e l'evento (Cass. 27 novembre 2012, n. 20996; Cass. 9 giugno 2011, n. 12686, in Ragiusan, 2011, 327-328, 208; Cass. 24 marzo 2011, n. 6744; Cass. 11 maggio 2009, n. 10743). Il danno da morte e la perdita di chances
La giurisprudenza ha, in più occasioni, riconosciuto il risarcimento per la perdita di chances di “vivere meglio“ o “più a lungo” in relazione, per es., a casi di colpevole mancata tempestiva diagnosi di malattie tumorali (Cass. 19 maggio 2008, n. 23846 e Cass. 14 giugno, 2011 n. 12961); nella giurisprudenza di merito merita di essere ricordata Trib. Monza 30 gennaio 1998, che ha accordato agli eredi il ristoro del danno subito dal congiunto che per effetto di malpractice medica aveva perso la possibilità di sopravvivere per altri cinque anni (Trib. Monza 30 gennaio 1998, in Resp. Civ. e Prev., 1998, 696, che utilizza il seguente parametro di quantificazione: « ;secondo criteri valutativi tabellari di fonte giurisprudenziale correttamente applicati e perciò assunti a diritto vivente, il valore uomo di una persona avente 75 anni di età è misurabile in L. 693 milioni - corrispondenti alla quantificazione di una lesione che abbia prodotto una diminuzione del 100% della sua validità biologica). Questo valore, diviso per 75 (anni) dà la misura del valore uomo per ogni anno di sopravvivenza; moltiplicando per cinque (anni) si ha la misura, pari a L. 46.200.000, della perdita di sopravvivenza (per cinque anni di vita) ;». Tali pronunce offrono lo spunto per qualche riflessione su un tema molto dibattuto qual è quello del c.d. danno tanatologico, che ha, da ultimo, registrato sensazionali novità. Tralasciando, per un momento, i più recenti arresti (e precisamente, Cass. 23 gennaio 2014 n. 1361, Rel. Dott. Scarano) che aprendo una vera e propria breccia nell'orientamento consolidato, ha ammesso il risarcimento del danno per la perdita della vita), conviene brevemente accennare al sistema “tradizionale”. Secondo l'impostazione (che pareva fino ad oggi) “granitica”, al soggetto che muoia istantaneamente (in conseguenza del fatto altrui) non può essere riconosciuto alcun risarcimento; solo la sopravvivenza quodam tempore, sia pure nelle sue mutevoli ed oscillanti quantificazioni, consente una simile tutela (sub specie di danno biologico/morale commisurato ad una “inabilità temporanea totale” opportunamente personalizzata). Non è certo questa la sede per ripercorrere le argomentazioni poste a fondamento di tale linea di pensiero (né per indagare le ragioni di quello che, alla luce di Cass. 1361/2014, sembrerebbe un nuovo corso); sta di fatto, tuttavia, che le soluzioni elaborate dalla giurisprudenza (e a suo tempo confermate dalle Sezioni Unite nelle note sentenze gemelle del novembre 2008) si rivelano per più aspetti inappaganti e discutibili. In queste pagine, rinviata ad altre sedi ogni più ampia dissertazione in materia (M. Hazan, D. Zorzit Il risarcimento del danno da morte, Milano, 2009): l' attenzione verrà soffermata solo su alcuni aspetti, al fine di porre in luce qualche (almeno apparente) distorsione. Le sentenze menzionate in apertura di paragrafo riconoscono, come si è detto, il diritto al risarcimento per la perdita di chances nei casi in cui, a causa di una tardiva diagnosi (dovuta a colpa dei sanitari), il paziente, affetto da una malattia con prognosi infausta, abbia perduto la possibilità di vivere più a lungo e/o meglio (ad es. perché avrebbe potuto beneficiare di terapie palliative o antidolorifiche ecc.).. Si tratta ora di vedere se da queste pronunce possa essere tratto qualche spunto ricostruttivo - ed eventualmente anche critico – (D. Zorzit, “La perdita di chance ed il danno da morte: prove tecniche di resistenza e nuovi scenari” in Danno e Responsabilità n. 11/2009). Nelle fattispecie considerate, la decisione traeva occasione da ipotesi di responsabilità per comportamento omissivo; non dovrebbe peraltro esservi difficoltà ad ammettere che la regula in quei casi enunciata possa applicarsi anche ai danni derivanti da condotta attiva (e ciò tenuto conto del disposto dell'art. 40, comma secondo, c.p., pacificamente “esteso” anche all' ambito civilistico). Fatto dunque questo primo adattamento, si potrebbe andare oltre ed estrapolare da quelle sentenze un principio che suona così : « ;alla vittima che, per effetto di comportamento (illecito/inadempiente, omissivo o attivo) di un dato soggetto, abbia perduto la chance di vivere più a lungo, spetta il risarcimento del danno ;». Se questa premessa è valida, viene allora spontaneo portarla sino ai suoi estremi sviluppi, fino al punto di ipotizzare che eguale diritto debba essere riconosciuto, per es., al diciottenne che, investito dall'automobilista imprudente, deceda sul colpo. Si potrebbe cioè affermare che nel patrimonio di costui era già entrata (secondo la definizione fatta propria dalla giurisprudenza più recente) una possibilità, quella di raggiungere i 70 anni (età media secondo le statistiche). Certo, si potrebbe obiettare che la differenza (con il caso del paziente affetto da malattia incurabile per il quale un più tempestivo intervento avrebbe avuto una mera possibilità di allungare la vita) consiste nel fatto che nel primo vi è incertezza circa l'esistenza del nesso causale, nel secondo no (è indubitabile che la morte è stata cagionata dall'urto contro la vettura). Tuttavia, una volta affermato che la chance è « ;una entità giuridicamente ed economicamente valutabile, che fa già parte del patrimonio del soggetto e la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile ;», vi è da chiedersi se abbia senso operare dei distinguo (a seconda delle pregresse condizioni di salute) o non si debba, invece, riconoscere il risarcimento in tutti i casi in cui la condotta di un terzo privi di tale possibilità una persona. In altri termini, non pare chiaro, dal punto di vista rigorosamente dogmatico, perché in una ipotesi vi sarebbe spazio per la tutela e nell'altra, invece, no. In dottrina (F. Chabas, La perdita di chance nel diritto francese della responsabilità civile”, in Resp. civ. e prev. 1996, 227) si è affermato che il requisito essenziale perché possa parlarsi di perdita di chances è che sia incerto il nesso causale: « ;Per definizione, bisogna che la vittima sia già stata coinvolta in un processo che potrebbe condurre alla morte, in modo tale che la vittima non abbia, nel momento dell'atto o dell'omissione imputata al medico, che delle chances di non morire. La colpa del medico (supposta accertata) non ha causato la morte. Ha determinato la perdita delle chances. Non è possibile perciò affermare che il responsabile abbia causato la perdita della posta (sopravvivenza, vincita del processo), poiché, per definizione, il nesso di causalità tra quella perdita e la colpa è incerto. Questo, è, a tutti gli effetti, fondamentale ;» F. Chabas, cit.). Secondo questo orientamento, è necessario altresì che il soggetto si trovi già, al momento dell'intervento del sanitario, in una situazione di pericolo : le differenze di disciplina possono essere colte attraverso alcuni esempi. Il primo caso è quello di un ragazzo la cui vita non è assolutamente in pericolo e che si rivolge ad un chirurgo per essere operato di ernia. Il giovane muore. Si scopre una condotta colposa del medico, ma nulla può dimostrare che essa abbia avuto efficacia causale: la consulenza tecnica non può chiarire la causa del decesso. Consideriamo invece l'ipotesi della degente ammalata di cancro Si riscontra una colpa del medico. Ma niente potrà provare che essa ha causato la morte. Sia nell'uno che nell'altro caso — si è osservato — non è che possibile che il medico abbia causato la morte. « ;Purtuttavia, in un caso vi sarà condanna per perdita di una chances e nell'altro no. Perché? Perché i potenziali perduti non sono in realtà gli stessi [...]. Nel caso dell'ernia non c'è alea. Il paziente non è in pericolo. Egli ha tutte le sue chances. Ma vi è incertezza sulle cause della perdita della vita: il pregiudizio è la perdita della vita. Nel caso del cancro, l'alea è alla base, è elemento costitutivo del potenziale perduto [...] ;» (F. Chabas, cit.). Secondo la citata dottrina, dunque, la differenza sta nel fatto che « ;inizialmente, al momento del fatto, il paziente [ragazzo operato di ernia ndr.] aveva tutte le chances di sopravvivere; non si potrebbe dunque affermare che egli ha perso “solo delle possibilità di sopravvivenza”. Egli ha perduto la vita ;». A parere di chi scrive, tali argomentazioni non sembrano, tuttavia, convincenti: in sostanza, seguendo la logica dei casi citati, si arriva a negare ogni risarcimento quando il soggetto ha perso il 100% di chances e lo si ammette, invece, quando lo stesso è stato privato del solo (per es.) 30 o 40% . Il che pare una contraddizione: a parità di incertezza (del nesso), forse dovrebbe valere la regola contraria. (per approfondimenti sul punto si vedano R. Pucella, “Tre decisioni diverse, accomunate dalla difficoltà di far fronte al problema dell'incertezza causale (..)”, in Danno e Resp. n. 1/2008, 58; M. Bona, P.G. Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale, 2004, 645). Proseguendo nellaesemplificazione potremmo ipotizzare che il medico, colposamente, somministri al paziente giunto in Pronto Soccorso il farmaco sbagliato (anziché quello salvavita): il malato muore subito. Supponiamo che sia sicuro che la condotta del sanitario abbia provocato il decesso; ebbene, in una evenienza del genere, non pare che la giurisprudenza (almeno secondo l'indirizzo tradizionale) sia disposta ad accordare un risarcimento iure proprio alla vittima (non essendovi una sopravvivenza quodam tempore). Immaginiamo, per converso, che nella fattispecie non vi siano elementi per sostenere l'esistenza del rapporto eziologico (vi era solo la possibilità che il corretto intervento del medico avrebbe scongiurato l'esito letale perché, per esempio, le condizioni in cui Tizio era giunto in ospedale erano orami critiche e si poteva “solo sperare”); in questo caso, che sembra “meno grave” in termini di “riprovazione sociale”, tenuto conto appunto della mancanza di certezze, la tutela diretta (nell'altra sede negata) potrebbe — paradossalmente — trovare ingresso sotto forma di perdita di chances (ed il relativo diritto dovrebbe essere trasmissibile iure hereditario trattandosi di lesione di un bene che, come afferma la Cassazione, già faceva parte del patrimonio del de cuius). La contraddizione parrebbe innegabile: il risarcimento per la perdita della vita (sub specie di possibilità di vivere più a lungo) viene concesso quando il nesso è del tutto dubbio e viene, invece, negato quando il rapporto causale è certo. Per come sin qui tratteggiato,il sistema rivela, dunque, una antinomia. Ed allora - e l'osservazione è qui volutamente provocatoria - piuttosto che ricorrere a distinguo poco giustificati ed artificiosi, sarebbe più coerente portare sino in fondo le premesse: una volta che si ammette la figura della perdita di chances , bisognerebbe applicarla a tutto tondo; si dovrebbe cioè sostenere che anche il ragazzo (nell'esempio) rimasto vittima di sinistro stradale ha diritto ad un ristoro (per la perdita della aspettativa di vita media). Si tratterebbe cioè di riconoscere che nella fattispecie è stato colpito un bene (una possibilità) che già faceva parte del patrimonio del de cuius, ed in relazione al quale gli eredi (successori in universum ius) dovrebbero poter vantare il diritto al risarcimento (ciò che solitamente accade nella prassi giudiziaria con riguardo alle cose materiali andate distrutte in conseguenza dell'incidente, a prescindere dalla sopravvivenza quodam tempore; si veda, per esempio, una recente sentenza di merito che, pur negando da un lato il diritto al risarcimento per la perdita della vita - ed ammettendolo solo per il danno “catastrofale” da sopravvivenza di qualche ora in stato di lucidità- riconosce iure hereditario ai congiunti della vittima il ristoro per la distruzione dell'auto (Trib. Messina 14 febbraio 2006, www.dejure.giuffre.it. Nello stesso senso Trib. Foggia 28 giugno 2002, in Foro It, 1, 3496, rileva che « ;nessuno dubita che per effetto della lesione della proprietà, sorga un obbligo di risarcimento a carico del danneggiante e che il relativo credito sia trasmissibile agli eredi secondo le regole successorie ordinarie. Eppure, la lesione della situazione proprietaria si verifica nello stesso momento della lesione del bene — vita e vede sorgere una pretesa risarcitoria che appare sin dall'origine orfana di un titolare, al pari del credito risarcitorio commisurato alla perdita della vita ;»). Oppure – e forse questa è la soluzione più lineare ed ”onesta” - si deve riconoscere che la chance è una figura ambigua e solo apparentemente definita, che può essere dilatata o ristretta ad libitum (se si vuole essere rigorosi, a ben vedere anche quella del 90 o del 100% è una chance, la cui peculiarità consiste nell'essere molto elevata), e la si espunge definitivamente dal sistema in quanto di per sé ibrida e priva di solido fondamento dogmatico. All'esito di queste riflessioni, la sentenza della Cass. 1361/2014, al di là della condivisibilità o meno della linea di pensiero che ne fonda le motivazioni (tema a cui qui non si può neppure accennare, data la estrema complessità della materia e la necessità di più approfondita indagine), si pone, almeno nel risultato, in un'ottica di maggiore coerenza. Essa, pur svolgendo una scelta radicale, “recupera” un equilibrio: se non altro perché elimina le incongruenze più sopra rilevate che - come ad es. nel caso del paziente in gravi condizioni a cui il medico non somministra il farmaco salvavita - portavano (“prima”) a riconoscere il risarcimento, sotto forma di perdita di chance, se il malato aveva la mera possibilità di salvarsi, e lo escludevano, invece, radicalmente laddove fosse certo che, con un tempestivo ed adeguato intervento, egli sarebbe sopravvissuto. |