Il problema del concorso tra cause umane e naturali e il danno cd. incrementativo

15 Giugno 2015

All'interprete che si avventura tra i tortuosi e (sempre più) sorprendenti percorsi del danno alla persona può capitare di imbattersi in una questione piuttosto insidiosa: come disciplinare le ipotesi in cui l'evento lesivo sia il portato di una interazione tra il comportamento del soggetto agente e le pregresse condizioni psico-fisiche della vittima? Il tema viene solitamente inquadrato entro il paradigma del “concorso tra cause naturali ed umane”: per esemplificare (traendo spunto dai repertori), si può pensare al caso in cui lo stress subito dal lavoratore per il demansionamento si combini con la peculiare condizione di fragilità / vulnerabilità emotiva dello stesso e provochi una sindrome depressiva che, in altra persona, non sarebbe insorta.
La posizione della dottrina

La dottrina che si è occupata dei “grandi temi” del danno alla persona, si è posta il problema di comprendere se e come disciplinare le ipotesi in cui l'evento lesivo costituisca la risultante di una combinazione di fattori, di cui uno umano (imputabile) e l'altro, invece, “naturale”, con ciò intendendosi le pregresse condizioni psico-fisiche della vittima. Per dare un'idea più chiara dei termini della questione, conviene qui ricordare, in via esemplificativa, alcune fattispecie di cui si è occupata la giurisprudenza: in Cass. n. 12339/1999, il CTU aveva ritenuto che, del pregiudizio complessivo derivato al lavoratore in seguito ad infarto, solo un terzo fosse riconducibile a stress occupazionale, mentre la restante quota dovesse essere riferita ad una patologia genetica. In Cass. n. 5539/2003 si discuteva, invece, di una sindrome depressiva la cui insorgenza doveva essere ascritta, per una parte, al demansionamento, e, per l'altra, ad una peculiare predisposizione fisica – fragilità del dipendente.

L'interrogativo di fondo cui si cerca di dare risposta è se, in tali ipotesi, l'autore della condotta lesiva debba sopportare (e risarcire) l'intero danno o se, invece, sia possibile “sottrarre il contributo” della “causa preesistente” e ridurre (proporzionalmente) il quantum debeatur.

La questione è molto dibattuta. Secondo alcuni autorevoli autori, la soluzione dovrebbe essere ricavata dall'art. 41 c.p.; la conclusione cui si giunge applicando tale disposto normativo può essere allora così sintetizzata: le “concause naturali” sono di regola irrilevanti, a meno che siano state da sole sufficienti a cagionare l'evento. Se esse operano indipendentemente dalla condotta del soggetto agente, questi resterà sollevato da qualsivoglia responsabilità; se invece quelle condizioni non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento lesivo, l'autore del comportamento imputabile dovrà farsi carico in toto del pregiudizio derivato.

Così, nell'ipotesi in cui la vittima abbia sviluppato, in ragione di una particolare predisposizione psico – fisica, una patologia che non sarebbe altrimenti insorta, chi ha posto in essere l'illecito dovrà sopportare tutto il costo del danno, senza che sia ammissibile alcuna decurtazione (la regola è nota come all or nothing).

Si è osservato – altresì – che tale principio troverebbe implicita consacrazione nelle norme del codice civile:l'art. 1227 c.c. ammette la diminuzione del risarcimento solo in presenza di una condotta colposa del creditore e tale non può essere considerata, ovviamente, la “debolezza” o, comunque, la peculiare condizione di salute in cui il danneggiato eventualmente versi.

L'art. 2055 comma 1 c.c. dimostrerebbe, a propria volta, che nel nostro sistema la graduazione/riduzione della responsabilità non è concepibile/praticabile, essendo esclusa (addirittura) in presenza del concorso di azioni od omissioni umane (la vittima ha diritto di pretendere l'intero; il vincolo di solidarietà viene meno unicamente nei rapporti interni, in sede di regresso).

La prospettiva è stata però ribaltata da altri studiosi (Busnelli F.D., L'obbligazione soggettivamente complessa, Milano, 1974, 137 ss.), che hanno invece sostenuto che dagli stessi artt. 1227, comma 1, e 2055 comma 2 c.c. sarebbe possibile trarre una regola di segno opposto, che ammette cioè la “scomposizione del nesso”: l'applicazione analogica di tali precetti alle fattispecie in esame – si è osservato - dovrebbe condurre, in via del tutto lineare, a ritenere ammissibile una decurtazione del quantum (in ragione appunto dell'effettivo “peso” che la condotta umana ha avuto).

Tale contrasto di opinioni si spiega se si considera che - come rilevato da altri autori (Salvi C., La responsabilità civile, Milano, 2005, 239 ss.) - le norme codicistiche ora menzionate non offrono elementi univoci e si prestano ad una doppia lettura. Così, con riguardo all'art. 2055 c.c., si è posta in luce la difficoltà di ricostruire in termini di gerarchia e, quindi, di supremazia, i rapporti tra il comma 1, che sembra deporre per la irrilevanza della singole concause, ed il comma 2, che pare invece dare evidenza alla regola del frazionamento dei singoli apporti: non vi sarebbero, invero, elementi per affermare con certezza che l'una prevale sull'altra (o viceversa).

Con riferimento, poi, all'art. 1227 comma 1 c.c., si è sottolineato che non può non tenersi conto della ratio ad esso sottesa, ove la “concausa” consiste proprio nel comportamento della vittima che invoca il risarcimento: estendere una tale previsione anche all'ipotesi del concorso di fattori naturali potrebbe apparire ingiusto nei confronti del soggetto leso, posto che questi è del tutto estraneo rispetto alla determinazione dell'evento (Salvi C., La responsabilità civile, Milano, 2005, 239 ss.. Nello stesso senso anche Sieff B., Danno neurologico da parto al neonato: nesso di causalità e alternative indennitarie no-fault, in Danno e Resp. 2002, 409, a commento di Cass. n. 2335/2001, cit.).

In senso contrario si è, tuttavia, osservato che la tesi della irrilevanza dei fattori naturali finisce con l'addossare al danneggiante un obbligo di ristoro sproporzionato rispetto all'entità dell'apporto oggettivamente dato perché pone a suo carico il peso di circostanze che nulla hanno a che vedere con il suo agire (Pucella R., La causalità incerta, Torino, 2007, 40 ss. e 166 ss.).

Al fine di garantire soluzioni ispirate al principio di equità, si è anche suggerito di percorrere vie alternative, distinguendo a seconda dei casi. E così, si è affermato che la regola tradizionale potrebbe subire una deroga (con la conseguente ammissibilità di una decurtazione del risarcimento) nelle ipotesi di “aggravamento” dello status quo ante, ossia nei casi in cui la vittima presentava già, prima del sinistro, una vera e propria menomazione o patologia limitante; per converso, il principio della irrilevanza (nel senso dell'all or nothing come sopra chiarito) dovrebbe essere mantenuto fermo nel caso della vittima che, per profili personali, era “predisposta” ovvero più vulnerabile, ma non si trovava in una condizione invalidante (cd. thin skull rule) (In tal senso, Bona M., Stati pregressi di vulnerabilità, preesistenze e concause nel danno psichico: quid iuris?, in AA.VV., Monateri P.G. (diretto da), Il nesso di causa nel danno alla persona, Milano, 2005, 419 ss.).

L'orientamento della giurisprudenza: la tradizionale regola dell'“all or nothing” tra conferme ed oscillazioni

L'orientamento tradizionale formatosi in seno alla Corte di Cassazione è nel senso della irrilevanza delle concause naturali («una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile». In tal senso si vedano, per es.: Cass. 28 marzo 2007, n. 7577, in Foro it., Rep. 2007, voce “Responsabilità civile”, n. 214; Cass., sez. lav., 9 aprile 2003, n. 5539, in Resp. civ. e prev., 2003, 1074; nello stesso senso Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335, in Resp. civ. e prev., 2001, 580, nonché in Danno e Resp., 2002, 409, con nota di B. Sieff; Cass., sez. lav., 5 novembre 1999, n. 12339, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 661; Cass. 27 maggio 1995, n. 5924, in Giur. civ., Mass. 1995, 1093; Cass. 1 febbraio 1991, n. 981, in Nuova giur. civ. comm., 1991, I, 797).

In diverse pronunzie, gli Ermellini hanno chiarito che le opzioni sono solo due: qualora le condizioni ambientali o naturali che caratterizzano la realtà su cui incide il comportamento siano da sole sufficienti a determinare l'accadimento finale, indipendentemente dalla condotta del soggetto agente, quest'ultimo resta sollevato per intero da ogni responsabilità. Nell'ipotesi, invece, in cui quei fattori non possano dar luogo, senza l'apporto umano, all'evento di danno, l'autore è chiamato a sopportare, per intero, il peso di tutte le conseguenze che ne derivano secondo normalità. Ricade in tale ultimo paradigma il caso della vittima che, in ragione di una particolare predisposizione psico-fisica, abbia sviluppato - per effetto della condotta illecita altrui - una patologia che non sarebbe altrimenti insorta.

Tale conclusione viene fondata sui principi che governano la causalità, e in particolare sull'art. 41 c.p.; da qui nasce la regola del cd. all or nothing: «La valutazione di una situazione di concorso tra cause naturali non imputabili e cause umane imputabili può sfociare, alternativamente, o in un giudizio di responsabilità totale per l'autore della causa umana, o in un giudizio di totale assolvimento da ogni sua responsabilità, seconda che il giudice ritenga essere rimasto operante, nel primo caso, ai sensi del primo comma dell'art. 41 c.p., il nesso di causalità tra detta causa umana imputabile e l'evento» (Cass. 1 febbraio 1991, n. 981; Cass. 9 aprile 2003, n. 5539).

La irrilevanza delle “preesistenze naturali” viene altresì argomentata con il rinvio agli artt. 1227 e 2055 c.c.: la Cassazione osserva che dall'art. 1227 c.c. si evince che in caso di concorso di cause è consentita una diminuzione del risarcimento solo in presenza di condotta colposa del creditore (e tale non può essere considerata la preesistente situazione psico-fisica della vittima); dall'art. 2055 c.c. si desume, inoltre, che «la graduazione e riduzione delle responsabilità non è concepibile neppure in presenza di cause umane, azioni od omissioni imputabili a soggetti diversi dal danneggiato e diversi tra loro, stante il principio della responsabilità solidale , il quale non opera soltanto in sede di regresso» (Cass. 9 aprile 2003, n. 5539; Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335; Cass. 1 febbraio 1991, n. 981).

Nella giurisprudenza di merito non sono, tuttavia, mancate pronunzie favorevoli alla riduzione del quantum in caso di azioni incidenti su pregresse condizioni del soggetto leso (da sole “non sufficienti” a cagionare l'evento): si vedano, per es., App. Torino 15 aprile 2009 in Danno e Resp. 2009, 1214, nonché Trib. Roma 9 giugno 2009, in Sistema Leggi d'Italia - Corti di merito, che hanno affermato la necessità di ridimensionare il risarcimento per dare rilievo alle “preesistenze”: il primo caso riguardava un pedone che era stato investito sul marciapiede ed era poi morto a causa delle precarie condizioni di salute in cui già versava; nel secondo si trattava di un paziente che aveva sviluppato lesioni da decubito per negligenza dei sanitari ed era successivamente deceduto anche per effetto delle pregresse patologie di cui era affetto.

In tale solco (favorevole cioè alla deminutio del quantum debeatur) parrebbe porsi anche la recente Cass. 12 giugno 2012, n. 9528 ove il soggetto rimasto vittima di un incidente stradale aveva riportato lesioni di tipo neurologico che avevano aggravato patologie psichiche preesistenti.

Su tale ultima pronunzia si tornerà nel prosieguo (par. 3), per mettere in evidenza come la questione del “concorso tra cause naturali e umane” riveli profili spesso ambigui e sia terreno fertile per facili fraintendimenti .

Per ora, conviene soffermare l'attenzione su due importanti pronunce della Suprema Corte che molto hanno fatto parlare di sé: si tratta di Cass. civ., sez. III, 16 gennaio 2009, n. 975 (Cass. 16 gennaio 2009,n. 975 in Danno e Resp. 2010, 372, con nota di M. Capecchi e B. Tassone) e di Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991 (Cass. 21 luglio 2011, n. 15991 in Resp. Civ. 2012, 1, 16 con nota di S. Pellegrino, nonché in Resp. Civ. e prev. 2011, 12, 2505 con nota di G. Miotto).

La sentenza della Cassazione n. 975/2009: un caso peculiare, che attiene alla incertezza del nesso

Il caso sottoposto a Cass. n. 975/2009 riguardava un intervento chirurgico di simpaticectomia lombare prodromica all'inserimento di un by-pass femoro-popliteo alla gamba destra, all'esito del quale il malato, già affetto da problemi cardiaci, decedeva per infarto. Gli accertamenti tecnici espletati non erano risolutivi: non era, cioè, possibile stabilire se l'errore del sanitario (perforazione dell'aorta e successiva emorragia) avesse (con)causato il decesso, “combinandosi”, per così dire, con le già precarie condizioni di salute del paziente, o se la morte fosse dipesa, autonomamente, dal compromesso stato fisico di quest'ultimo (affetto da preesistente patologia vascolare).

Nell'affrontare la questione, la Cassazione enuncia un principio che si pone in netta antitesi con l'orientamento consolidato, e ciò sotto un duplice profilo.

In primo luogo, la Corte riconduce senz'altro l'ipotesi sottoposta al proprio esame entro il paradigma del “concorso tra cause naturali ed umane” (e si dirà infra se tale primo “passaggio” è condivisibile o meno); così, ponendosi in soluzione di continuità con la “tradizione”, essa afferma che quando la produzione dell'evento dannoso risale alla concomitanza della condotta dell'agente e di fattori preesistenti, di questi ultimi è ben possibile tener conto ai fini della riduzione del risarcimento.

Tale conclusione - osservano gli Ermellini - si fonda sul principio di equità ex art. 1226 c.c., oltre che su una lettura ragionata di alcune norme: viene in considerazione, da un lato, l'art. 2055 comma 2 c.c. dal quale può evincersi la regola secondo cui fra condebitori è perfettamente legittima, ed anzi doverosa, una “frantumazione” del nesso causale nelle sue diverse componenti, secondo l'efficienza dei singoli apporti. Da tale disposizione si ricava, secondo la pronuncia in esame, che il frazionamento della responsabilità non è estraneo al sistema positivo.

Dall'altro, viene in rilievo l'art. 1227 c.c. che consente espressamente la scissione del rapporto eziologico in considerazione del contributo dello stesso creditore nella determinazione dell'evento. Ad avviso del Supremo Collegio, la ratio sottesa a tale previsione codicistica ben può essere estesa all'ipotesi in cui l'accadimento finale sia conseguenza del concorso tra condotta del sanitario e preesistente situazione patologica del malato, «non essendovi ragione per usare al fattore causale meramente naturale un trattamento diverso rispetto a quello riservato al fatto dello stesso danneggiato».

Secondo la citata pronuncia, quindi, è possibile procedere ad una valutazione della diversa efficienza delle varie concause (ivi compresa quella naturale) ed escludere che l'autore della condotta umana debba necessariamente sopportare nella loro integralità le conseguenze dell'evento lesivo.

La Cassazione - ed ecco il secondo passaggio logico-argomentativo - termina poi il proprio ragionamento sostenendo che «allorché vi è stato un inadempimento colposo e come non si può concludere con certezza che esso sia la causa dell'evento dannoso e neppure lo si può escludere, anziché accollare l'intero peso del danno all'uno o all'altro soggetto, è possibile lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato e imputare all'altro il peso del danno la cui produzione può aver trovato causa nella condotta negligente sua».

Tale affermazione verrà tuttavia radicalmente posta in discussione dalla successiva Cass. n. 15991/2011 (su cui vedi paragrafo successivo).

Ma prima di esaminare tale pronunzia conviene svolgere alcune brevi considerazioni; al fine di evitare possibili equivoci, è forse opportuno distinguere due situazioni:

a) da un lato, può darsi che non sia dato sapere se l'evento sia effettivamente dipeso dal concorso di un fattore naturale (che “si è combinato” con il comportamento umano) piuttosto che dalla sola condotta colposa dell'operatore (e questa è l'ipotesi affrontata da Cass. n. 975/2009): in tali casi vi è incertezza sul nesso.

La questione dovrebbe allora essere risolta applicando gli usuali criteri in materia di riparto dell'onere della prova (su cui infra), con l'effetto che, seguendo l'impostazione della nota sentenza della Cassazione, S.U., n. 577/2008, il medico verrà completamente “assolto” o, per converso, risponderà per intero a seconda che riesca o meno a dimostrare che la propria azione non ha avuto efficacia eziologica;

b) su altro e diverso piano pare invece collocarsi l'ipotesi in cui è certo che, per es., la condizione pregressa del paziente ha contribuito, ma non è stata da sola sufficiente, al verificarsi dell'evento finale.

Ebbene, la fattispecie sottoposta a Cass. n. 975/2009 rientrava nel caso a) e non era possibile dare risposte sulla genesi dell'evento: la CTU non sapeva individuare una causa (in termini di “più probabile che non”), perché la morte poteva, in astratto, essere dipesa tanto dall'errore del medico quanto (con identico “coefficiente percentualistico”) dalle pregresse condizioni del paziente (per una ipotesi analoga sia consentito rinviare a Cass. 30 settembre 2014, n. 20547 “Lo stallo nell'accertamento del nesso causale” in RIDARE).

In tale situazione, la Corte ha, in sostanza, compiuto un doppio passaggio logico: in prima battuta, ha ritenuto di poter ricondurre il caso entro il paradigma del “concorso tra cause umane e naturali” (nonostante l'incertezza sull'effettiva interazione delle “preesistenze”) e, poi, ha ammesso la possibilità di una riduzione “proporzionale” del quantum in via equitativa, nei termini più sopra trascritti.

La successiva Cass. n. 15991/2011: correttivi e nuovi orizzonti

L'escamotage attuato da Cass. n. 975/2009 viene severamente criticato dalla successiva Cass. 15991/2011 che pone in luce la inammissibilità di una soluzione in “salsa equitativa” ed osserva che il nesso di causa o c'è oppure no, tertium non datur (Cass. 21 luglio 2011, n. 15991 in Resp. Civ. 2012, 1, 16: «il giudizio di causalità è limitato alla sua sussistenza/insussistenza, senza che siano date terze ipotesi, tantomeno in via equitativa. (…) La regula iuris che il giudice di merito è chiamato ad applicare resta quella, codificata, secondo la quale la presenza di cause naturali che in teoria la possano escludere (...) conduce ad un interrogativo che non può essere risolto in via equitativa, ovvero tramite il ricorso ad un modello di responsabilità proporzionale, bensì trova risposta nel solo senso della sua sussistenza/insussistenza»).

Tale precisazione è, a parere di chi scrive, sicuramente condivisibile. Non dovrebbe essere possibile inventare “vie di mezzo” perché l'applicazione del principio dell'onere della prova conduce, in modo lineare, ad una alternativa secca; una volta stabilito (secondo quanto enunciato dalla nota Cass., S.U., n. 577/2008) che spetta al medico/struttura dimostrare che il proprio errore non ha avuto efficacia causale (perché l'exitus è dipeso da altro specifico fattore estraneo alla propria condotta), delle due l'una: se il sanitario riesce a dare tale prova, andrà esente da responsabilità; in caso contrario, sarà chiamato a risarcire l'intero danno, posto che l'evento deve ritenersi allo stesso (in toto) ascrivibile, senza che siano possibili distinzioni o riduzioni di sorta.

La sentenza in esame prende dunque le distanze dalla prima regula enunciata da Cass. n. 975/2009 e, in conformità con l'orientamento consolidato, ribadisce il (vecchio) principio della irrilevanza delle concause naturali: «una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile». In linea con tale impostazione, la Corte ricorda dunque che il “frazionamento” del nesso è consentito sì dagli artt. 1227 e 2055 c.c., ma solo nell'ipotesi di concorso di più condotte umane: nella fattispecie, dunque, tali norme non sono applicabili.

E tuttavia, pur dopo averla confermata, Cass. n. 15991/2011 supera l'impostazione tradizionale introducendo una sorta di correttivo.

Il Collegio afferma infatti (si direbbe sorprendentemente) che in taluni casi è comunque possibile tener conto, ai fini della riduzione del quantum, della incidenza di eventuali stati patologici preesistenti; ma ciò – avverte – deve avvenire sul piano non della causalità “materiale” (che lega la condotta all'evento lesivo), ma di quella giuridica (ex art. 1223 c.c., id est delle perdite derivate dal fatto, inteso come condotta + evento).

Dunque, fermo restando che l'accadimento “finale” deve essere imputato in toto all'agente, è tuttavia possibile – in alcune ipotesi - diminuire il risarcimento andando a sceverare le conseguenze che ne sono derivate ex art. 1223 c.c. (in termini di perdita), e chiamando l'autore del fatto a rispondere solo di quelle che sono ricollegabili alla sua condotta Così, il Giudice potrebbe procedere «eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa incidenza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (…) onde ascrivere all'autore della condotta , responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non ricomprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all'evento di danno bensì determinate dal fortuito, come tale inteso la pregressa situazione patologica del danneggiato non eziologicamente riconducibile, a sua volta, a negligenza, imprudenza, imperizia del sanitario>>.

L'ipotesi che la stessa Cassazione adduce per giustificare la soluzione proposta è quella dell'aggravamento dello stato di salute di un paziente: occorre cioè che «il danneggiato già presenti, prima dell'evento dannoso, una reale e conclamata patologia, tale (in base a prova da fornirsi dal danneggiante (...)) da rendere le conseguenze dell'evento rigorosamente configurabili (...) alla stregua di un aggravamento dello stato patologico pregresso».

La Corte precisa altresì che nessuna riduzione del risarcimento potrebbe invece essere accordata nell'ipotesi in cui «il danneggiato, prima dell'evento, risulti portatore di una mera “predisposizione” ovvero di uno “stato di vulnerabilità” (stati preesistenti non necessariamente patologici o invalidanti, ciò che risulta ancor più frequente nel delicato universo dei danni psichici), ma l'evidenza probatoria del processo non consenta, in proposito, di superare la soglia della mera ipotesi, e comunque appaia indimostrabile la circostanza che, a prescindere dalla causa imputabile, la situazione pregressa sarebbe comunque, anche in assenza dell'evento di danno, risultata modificativa in senso patologico invalidante della situazione de soggetto»; qui «il giudice non procederà ad alcuna diminuzione del quantum debeatur, atteso che un'opposta soluzione condurrebbe ad affermare l'intollerabile principio per cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi) siano, per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella riservata agli altri consociati affetti da “normalità”».

Dunque, il caso “emblematico” in cui, secondo la Corte, ben potrebbe procedersi ad una riduzione del risarcimento (operando sulla “causalità giuridica”, come più sopra illustrato) è quello dell'aggravamento (provocato dal comportamento illecito/inadempiente).

In tale evenienza il Collegio ammette, in sostanza, la possibilità di accollare al medico solo quella parte di danno riconducibile alla sua condotta, “lasciando fuori dal calcolo” il “valore”, il “peso” della preesistenza.

(segue) La soluzione di Cass. n. 15991/2011: luci ed ombre

Se la soluzione cui è pervenuta Cass. n. 15991/2011 è sicuramente condivisibile nel risultato, qualche dubbio si pone sul tipo di percorso prescelto: ferma restando l'assoluta finezza e profondità delle argomentazioni, la strada seguita dalla Corte non sembra, invero, così convincente.

Nel caso in cui la condotta dell'agente abbia comportato un aggravamento - osserva il Supremo Collegio – è possibile ridurre il quantum debeatur; per fare ciò occorre considerare, da un lato, «la differenza» tra lo stato di invalidità complessivamente derivato e quello preesistente e, dall'altro, la situazione che si sarebbe determinata se non fosse intervenuto il fatto lesivo.

Così, ad es., si immagini il caso di una patologia invalidante che, in assenza dell'operato dei medici, sarebbe comunque rimasta stabile e si ipotizzi che, per effetto del concorso di essa e dell'errore iatrogeno, la situazione risulti peggiorata perché il soggetto ha «subito un ulteriore vulnus alle sue condizioni di salute».

A parere di chi scrive, in una ipotesi del genere, ragionare in termini di «differenza», ossia - come afferma la sentenza in esame - escludere dall'obbligo risarcitorio «le conseguenze dannose determinate dal fortuito» (inteso come fattore naturale preesistente), dovrebbe voler dire individuare gli effetti che la condotta avrebbe avuto su un soggetto sano e tener conto di questi soltanto. La comparazione dovrebbe cioè atteggiarsi in questi termini: se Tizio non avesse avuto la pregressa patologia, per effetto del comportamento dei medici si sarebbe verificato solo x e non anche y, di talché il ristoro dovrebbe essere proporzionalmente diminuito. Ma, se non ci si inganna, seguire questo iter ricostruttivo altro non significa se non individuare un (ipotetico) “evento lesivo minore” echiamare il sanitario a rispondere delle (sole) conseguenze da esso derivate o, detto altrimenti, isolare e scomputare dalla catena degli antecedenti il fatto naturale, valutandone l'efficienza eziologica in raffronto alla condotta umana.

E allora, a dispetto di quanto asserito dalla Corte, una siffatta operazione sembra collocarsi già sul piano della causalità materiale e non di quella giuridica: al soggetto viene, alla fine, ascritto solo l'“evento lesivo minore” eziologicamente riconducibile alla sua azione.

Sembra, insomma, che la sentenza in esame finisca con l'ammettere – in punto di diritto – ciò che invece negava. In altri termini: la Corte non fa che applicare gli artt. 1227 e 2055 comma 2 c.c. anche al caso di concorso tra cause umane e naturali (ciò che, in tesi, essa invece escludeva). La «comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti» che, secondo la Cassazione, consentirebbe di graduare il quantum, è – ad avviso di chi scrive - operazione che si colloca pur sempre nella causalità materiale (e non in quella giuridica), è cioè applicazione dell' art. 2055 comma 2 c.c.. Tale norma, infatti, nel consentire il frazionamento del nesso materiale (ponendo a carico dei condebitori solo gli effetti della singola condotta individuale), espressamente dichiara che tale “scomposizione” deve essere effettuata tenendo conto della “entità delle conseguenze che ne sono derivate” (e, quindi, nella specie, delle perdite, in termini di disfunzionalità, subite dall'offeso) (per maggiori approfondimenti sia consentito rinviare a Zorzit D., Il problema del concorso di fattori naturali e condotte umane. Il nuovo orientamento della Cassazione, in Danno e Resp. 5/2012).

Al di là di questo primo rilievo, vi è poi un altro interrogativo su cui occorrerebbe riflettere: il caso dell'aggravamento di una patologia pregressa è davvero riconducibile alla tematica del concorso di fattori naturali ed umani ex art. 41 c.p.? In altri termini, si pone effettivamente un problema di “concause”? A ben vedere, la risposta potrebbe essere negativa. Il risultato cui è giunta Cass. n. 15991/2011 – la riduzione del quantum – appare senz'altro condivisibile - si diceva poc'anzi -, ma forse altro è lo “strumento” per giustificarlo.

Il problema dell'aggravamento di una patologia preesistente è davvero riconducibile entro il paradigma del concorso tra cause naturali e umane ex art. 41 c. p.?

Senza ricorrere a complesse distinzioni e sottigliezze, si potrebbe anche ritenere che nelle ipotesi di “aggravamento” non si debba affatto parlare di “concorso tra cause umane e naturali” e “scomodare” l'art. 41 c.p. (di cui forse neppure sussistono i presupposti applicativi).

Così, si potrebbe sostenere che se Tizio soffre di una pregressa patologia con effetti invalidanti (per es. del 10%) e in conseguenza della condotta illecita altrui subisce un peggioramento (ritrovandosi con una IP del 40%), si è di fronte non ad un “unico evento” dato dalla somma di più apporti, ma a due fenomeni distinti (in senso “fisico” ed anche temporale), di cui uno (la preesistenza) provocato da un fattore autonomo, indipendente e non concorrente.

In altri termini, in applicazione “pura e semplice” del principio di causalità di cui all'art. 40 c.p., l'agente risponderà solo “dell'aggravamento”, ossia (nell'esempio, del 30%): non può dirsi che egli abbia cagionato una invalidità complessiva del 40% perché il malato aveva già di per sé una menomazione del 10%.

Valutando la questione in altra e complementare prospettiva si potrebbe anche dire che l'“evento” preso in considerazione dall'art. 41 c.p. è un quid novi che ha carattere unitario ed inscindibile, è una modificazione di una realtà frutto della sinergia di più fattori, un qualcosa che viene ad esistenza e che prima non c'era (si pensi alla morte del soggetto emofiliaco, provocata da un piccola ferita inferta dall'agente, di per sé inidonea – in un individuo sano – a provocare il decesso; oppure al caso della sindrome depressiva insorta per effetto non solo del demansionamento, ma anche di una peculiare predisposizione fisica – fragilità del dipendente). In simili ipotesi vi è un accadimento del tutto nuovo (decesso /patologia psichica), che costituisce il portato della reciproca interazione tra più elementi, da soli non sufficienti a generarlo (si veda sul punto Miotto G., La Cassazione torna sul concorso di cause umane e cause naturali e butta il bambino con l'acqua sporca, in Resp civ. e prev. 2011, 12, 2505).

Il principio della irrilevanza delle concause naturali potrebbe allora – a ragione – essere applicato allorquando il paziente soffra di una patologia non invalidante, la quale, tuttavia, proprio in conseguenza dell'errore del sanitario, abbia a sprigionare i propri effetti lesivi (che altrimenti sarebbero rimasti silenti).

Nel caso, invece, dell'“aggravamento di uno stato patologico pregresso”, dal punto di vista medico legale l'evento, il quid novi non è – nell'esempio sopra fatto – la compromissione del 40% (perché il 10% c'era già prima), ma è solo il gap (il peggioramento appunto) del 30%. Ed allora la fattispecie dovrebbe, de plano, essere regolata dall'art. 40 c.p..

Impostando il problema in questi termini, il ragionamento di Cass. n. 15991/2011 finisce con l'apparire fuorviante. Non si tratta di “ridurre” un risarcimento (assunto come integrale) in applicazione della “causalità giuridica”, ma, molto più semplicemente, di chiamare a rispondere l'agente - secondo i principi generali - del solo evento (l'aggravamento) che ha cagionato.

Conclusioni

Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, in linea generale potrebbe non apparire azzardato sostenere che i casi sono essenzialmente riconducibili a due categorie:

a) vittima “vulnerabile” o “predisposta” ma non invalida.

Se la vittima è (solo) “predisposta” o “vulnerabile” (ma non già invalida), l'autore dell'illecito dovrebbe rispondere per intero dell'evento (es. grave depressione causata da demansionamento in un soggetto che era già psicologicamente fragile), senza che sia possibile alcuna riduzione del quantum. In siffatte ipotesi, la riflessione di Cass. n. 15991/2011 sembrerebbe, invero, da condividere: «il giudice non procederà ad alcuna diminuzione del quantum debeatur, atteso che un'opposta soluzione condurrebbe ad affermare l'intollerabile principio per cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi) siano, per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella riservata agli altri consociati affetti da “normalità”».

In tale filone parrebbe dover rientrare anche il caso della condotta che, interagendo con una pregressa patologia, provochi la morte (che altrimenti non si sarebbe verificata hic et nunc). In una tale evenienza (si pensi per es. al soggetto già affetto da una grave malattia, la cui prognosi di vita sarebbe comunque stata ridotta), fermo restando l'accertamento del nesso con l'exitus, si potrebbe peraltro – in sede di liquidazione – fare riferimento a quell'orientamento della Cassazione secondo cui «il pregiudizio da uccisione consiste non già nella violazione del rapporto familiare quanto piuttosto nelle conseguenze che dall'irreversibile venir meno del congiunto e dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali discendono. E proiettandosi esso nel futuro, assume al riguardo rilievo la considerazione del periodo di tempo nel quale si sarebbe presumibilmente esplicato quel godimento del congiunto che l'illecito ha reso invece impossibile» (Cass. n. 13546/2006; Cass. 31 maggio 2003, n. 8827; Cass. 31 maggio 2003, n. 8828).

Sempre in argomento, può essere utile ricordare una recente pronuncia del Tribunale di Torino (Trib. Torino, 8 ottobre 2014, G.U. Castellino, in RIDARE) in cui si discuteva dei pregiudizi subiti da un bimbo al momento della nascita.

Dall'istruttoria era emerso che i sanitari avevano commesso un errore (non avendo monitorato costantemente – come sarebbe stato necessario – il battito fetale, si erano accorti solo tardivamente della sofferenza ipossico-ischemica). Tuttavia, i CTU avevano altresì osservato che la patologia derivata al nato (gravissima invalidità permanente) poteva essere ricondotta alla interazione della condotta umana (l'omesso controllo cardiotocografico, appunto) con una (ipotetica) “causa genetica”. Il Giudice ha ritenuto di dover ricondurre la fattispecie entro il paradigma – definito da Cass. n. 15991/2011 – del comportamento che incide su un pregresso stato di “vulnerabilità” del danneggiato; ha quindi condannato la struttura sanitaria al risarcimento integrale, specificando altresì che sarebbe stato onere della convenuta dimostrare che il fattore “naturale” (la cui preesistenza – secondo il decidente - doveva comunque ritenersi tutt'altro che certa) sarebbe stato, da solo, sufficiente a cagionare l'evento (tale prova - che nella fattispecie non era stata raggiunta – avrebbe consentito una liberatoria totale, in applicazione dell'art. 41 c.p.);

b) aggravamento di uno stato patologico pregresso (cd. “danno incrementativo”).

Viceversa, se la vittima è affetta da una pregressa menomazione di per sé invalidante, la condotta (dolosa/colposa) che incida su tale status, determinando un peggioramento delle condizioni di salute (fuori dai casi di decesso appena sopra considerati), dovrebbe sempre dare luogo ad un “aggravamento” ed il risarcimento dovrebbe essere proporzionato al solo danno che oggettivamente è stato cagionato dall'agente, in piena applicazione del principio di causalità (e senza “scomodare” il “concorso” di cui all'art. 41 c.p.).

Una conferma in tale direzione sembra potersi leggere nella recente sentenza Cass. 12 giugno 2012, n. 9528 : nel caso trattato, il soggetto rimasto vittima di un incidente stradale aveva riportato lesioni di tipo neurologico che avevano aggravato patologie psichiche preesistenti; nella fattispecie la Corte osserva: «non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all'agente i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità per l'agente stesso per l'intero danno differenziale».

Resta inteso peraltro che, in tali ipotesi, per “calibrare” il quantum debeatur ed adeguarlo alle peculiarità del caso il Giudice non potrà che fare ricorso allo strumento equitativo ex art. 1226 c.c. trattandosi di valutazioni che di per sé sfuggono alla applicazione “automatica” di criteri matematici.

In tal senso si è mossa, per es., una interessante sentenza del Tribunale di Milano (Trib. Milano, 2 dicembre 2014, n. 14320, G.U. Dott. Bichi, in RIDARE), che ha posto in luce come, da un lato, non si possa far gravare sull'agente «una misura del danno da risarcirsi incrementata da fattori estranei alla sua condotta, così come verrebbe a determinarsi attraverso una pedissequa applicazione di tabelle con punto progressivo, computato a partire, in ogni caso, dal livello di invalidità preesistente»e, dall'altro, ha sottolineato che «la liquidazione va necessariamente rapportata ad una concreta verifica, secondo le allegazioni delle parti, delle conseguenze negative “incrementative” subite dalla parte lesa».

Occorre cioè tenere conto dell'effettivo “aggravamento”, di ciò che la vittima – seppur affetta da pregressa invalidità - poteva fare prima e di quello che, invece, le è oggi precluso in conseguenza dell'illecito; fermo restando, peraltro, l'onere, in capo al soggetto leso, di allegare e provare le circostanze che danno corpo e consistenza alla modificazione in peius della propria condizione. Nella liquidazione, lo strumento di cui il decidente dispone per effettuare tale ponderazione è dunque quello della personalizzazione, basata su ciò che “emerge” dall'istruttoria, e “guidata” dal filtro della equità.

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