Il diritto al risarcimento integrale dei danni alla persona: il suo fondamento costituzionale nella giurisprudenza della Consulta

Marco Bona
16 Dicembre 2015

Corte Cost., 16 ottobre 2014, n. 235 e Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350 hanno negato che nella giurisprudenza della Consulta il diritto al risarcimento integrale dei danni alla persona e da uccisione trovi fondamento nella Costituzione: secondo le Sezioni Unite sarebbe «noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132/1985, Corte cost. n. 369/1996, Corte cost. n. 148/1999) il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale»; per la Consulta il diritto all'integralità del risarcimento non costituirebbe un «valore assoluto e intangibile» e potrebbe venire sacrificato per accordare protezione al contrapposto «valore dell'iniziativa economica privata» delle imprese assicuratrici.Davvero la giurisprudenza costituzionale sorregge la versione fornita da queste due pronunce?
La questione

Corte Cost., 16 ottobre 2014, n. 235 e Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350 hanno negato che nella giurisprudenza della Consulta il diritto al risarcimento integrale dei danni alla persona e da uccisione trovi fondamento nella Costituzione: secondo le Sezioni Unite sarebbe «noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132/1985, Corte cost. n. 369/1996, Corte cost. n. 148/1999) il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale»; per la Consulta il diritto all'integralità del risarcimento non costituirebbe un «valore assoluto e intangibile» e potrebbe venire sacrificato per accordare protezione al contrapposto «valore dell'iniziativa economica privata» delle imprese assicuratrici.

Davvero la giurisprudenza costituzionale sorregge la versione fornita da queste due pronunce?

Si comproverà qui come la Consulta, innanzitutto per i danni alla persona e da uccisione, abbia costantemente attribuito un preciso fondamento costituzionale al diritto alla restitutio in integrum, derivando da esso puntuali limiti per il legislatore.

La Corte ha consolidato la seguente logica giuridica costituzionalmente fondata:

  • la Costituzione qualifica salute, personalità, affetti famigliari alla stregua di diritti inviolabili;
  • ubi remedium ubi ius: se un diritto è inviolabile, anche i rimedi alla sua violazione devono esserlo e non sono soggetti a compromissioni da parte del legislatore.
La “costituzionalizzazione” del diritto alla riparazione integrale dei danni alla persona e da uccisione

La prima sentenza a sancire il fondamento costituzionale del diritto ad un risarcimento esaustivo di tutti i pregiudizi (pure quelli non patrimoniali) da violazione del bene salute fu Corte cost., 26 luglio 1979, n. 88: si rilevò come la categoria del danno non patrimoniale andasse interpretata in senso ampio, «tale da riferirsi, senza ombra di dubbio, a qualsiasi pregiudizio che si contrapponga, in via negativa, a quello patrimoniale, caratterizzato dalla economicità dell'interesse leso», «fino a ricomprendere ogni danno non suscettibile direttamente di valutazione economica, compreso quello alla salute»; il fondamento del risarcimento del danno alla salute così esaustivo fu individuato nell'art. 32 Cost.: «Il bene [salute] è tutelato dall'art. 32 Cost. non solo come interesse della collettività, ma anche e soprattutto come diritto fondamentale dell'individuo, sicché si configura come un diritto primario ed assoluto, pienamente operante anche nei rapporti tra privati. Esso certamente è da ricomprendere tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione […]. Da tale qualificazione deriva che la indennizzabilità non può essere limitata alle conseguenze della violazione incidenti sull'attitudine a produrre reddito ma deve comprendere anche gli effetti della lesione al diritto, considerato come posizione soggettiva autonoma, indipendentemente da ogni altra circostanza e conseguenza».

La Consulta decretò poi l'impossibilità per il Parlamento di circoscrivere la tutela risarcitoria integrale del danno alla salute in Repetto c. Atm Genova (Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184), storico precedente occupatosi di due sinistri stradali che avevano prodotto menomazioni di lieve entità (“colpi di frusta”).

La Corte, sottraendo il danno biologico all'art. 2059 c.c., escluse che il legislatore detenesse un potere discrezionale di limitare il diritto al risarcimento integrale del danno alla salute e, più in generale, dei danni da violazioni di «diritti e […] interessi dalla Costituzione dichiarati fondamentali».

I giudici costituzionali, ricordando come già Corte cost., 26 luglio 1979, n. 87, «nel dichiarare rientrante nella discrezionalità del legislatore adottare trattamenti differenziati in relazione alle differenti situazioni, per presupposti e gravità, del fatto costituente reato e del fatto dannoso integrante esclusivamente illecito civile, [avesse escluso] dalla predetta discrezionalità le “situazioni soggettive costituzionalmente garantite”», affermarono quanto segue: «se è vero che l'art. 32 Cost. tutela la salute come diritto fondamentale del privato, e se è vero che tale diritto è primario e pienamente operante anche nei rapporti tra privati, allo stesso modo come non sono configurabili limiti alla risarcibilità del danno biologico, quali quelli posti dall'art. 2059 c.c., non è ipotizzabile limite alla risarcibilità dello stesso danno, per sé considerato, ex art. 2043 c.c.», essendo «il risarcimento del danno ex art. 2043 […] sanzione esecutiva del precetto primario». «Quand'anche si sostenesse che il riconoscimento, in un determinato ramo dell'ordinamento, d'un diritto subiettivo non esclude che siano posti limiti alla sua tutela risarcitoria (disponendosi ad esempio che non la lesione di quel diritto, per sé, sia risarcibile ma la medesima purché conseguano danni di un certo genere) va energicamente sottolineato che ciò, in ogni caso, non può accadere per i diritti e gli interessi dalla Costituzione dichiarati fondamentali. Il legislatore ordinario, rifiutando la tutela risarcitoria (minima) a seguito della violazione del diritto costituzionalmente dichiarato fondamentale, non lo tutelerebbe affatto, almeno nei casi esclusi dalla predetta tutela. La solenne dichiarazione della Costituzione si ridurrebbe ad una lustra, nelle ipotesi escluse dalla tutela risarcitoria: il legislatore ordinario rimarrebbe arbitro dell'effettività della predetta dichiarazione costituzionale. Con l'aggravante che, mentre il combinato disposto dell'art. 32 Cost. e dell'art. 2043 c.c. porrebbe il divieto primario, generale, di ledere la salute, il fatto lesivo della medesima, per il quale non è previsto dalla legge ordinaria il risarcimento del danno, o, assurdamente, impedirebbe al precetto primario d'applicarsi (il risarcimento del danno rientra, infatti, nelle sanzioni che la dottrina definisce esecutive) o dovrebbe ritenersi giuridicamente del tutto irrilevante. Dalla correlazione tra l'art. 32 Cost. e l'art. 2043 c.c., è posta, dunque, una norma che, per volontà della Costituzione, non può limitare in alcun modo il risarcimento del danno biologico».

In realtà già prima in Coccia c. Soc. Turkish Airlines (Corte cost., 6 maggio 1985, n. 132) la Consulta aveva individuato nell'art. 2 Cost. il diritto dei congiunti ad un risarcimento integrale non compresso da limiti legislativi: su tale base affermò l'illegittimità costituzionale di una disciplina addirittura internazionale, profilo, invero, singolarmente trascurato dalle Sez..Un. 2015 e dalla Consulta del 2014 che eppure hanno elevato sugli altari questo precedente quale emblema di una tesi in realtà insostenibile (quella dell'assenza di un fondamento costituzionale del diritto alla restitutio in integrum).

Coccia aveva per oggetto le pretese risarcitorie dei congiunti di una vittima di un disastro aereo: la Consulta doveva stabilire se fossero o meno contrari alla Costituzione gli artt. 1, l. n. 841/1932 e art. 2, l. n. 1832/1962 nella parte in cui, in esecuzione dell'art. 22 Convenzione di Varsavia del 1929, come modificato dall'art. XI del Protocollo dell'Aja del 1955, stabilivano che la responsabilità del vettore aereo per il risarcimento del danno alla persona o per la morte del passeggero fosse contenuta entro il limite invalicabile di 250.000 franchi-oro Poincaré, invero una somma ragguardevole per il sistema risarcitorio italiano dell'epoca (alla fine del 1983 il franco Poicaré corrispondeva a circa 1.200,00 delle vecchie lire, con la conseguenza che il limite risarcibile per passeggero deceduto - giudicato incostituzionale dalla Consulta - ammontava intorno a circa £ 150.000.000,00; £ 300.000.000,00 in base al Protocollo dell'Aja).

In effetti la Corte, affermata l'illegittimità della predetta disciplina, aggiunse il seguente obiter: «Si può … precisare che l'aver comunque sancito un limite alla responsabilità del vettore non basta ad integrare la prospettata ipotesi di illegittimità costituzionale, sebbene importi una deroga al principio del risarcimento integrale del danno […]. Occorre vedere […] se la limitazione dell'obbligo risarcitorio sia giustificata dallo stesso contesto normativo in cui essa si colloca, nel senso che la denunciata disciplina pattizia riesca a comporre gli interessi del vettore con un sistema di ristoro del danno non lesivo della norma costituzionale di raffronto. L'esigenza di tutela del danneggiato, che qui viene in considerazione, va peraltro puntualizzata, tenendo conto delle ragioni che hanno ispirato il regime della responsabilità in sede internazionale e ne hanno promosso l'evoluzione. È, allora, in questa prospettiva, che risulta quale assetto della limitazione del risarcimento possa soddisfare gli estremi della compatibilità con l'art. 2 Cost. Ad avviso della Corte, deve trattarsi di una soluzione normativa atta ad assicurare l'equilibrato componimento degli interessi in giuoco: e dunque, per un verso sostenuta dalla necessità di non comprimere indebitamente la sfera di iniziativa economica del vettore, per l'altro congegnata secondo criteri che, in ordine all'imputazione della responsabilità o alla determinazione della consistenza del limite in discorso, comportano idonee e specifiche salvaguardie del diritto fatto valere da chi subisce il danno».

Orbene, la Corte sì prospettò l'astratta legittimità di norme limitative del risarcimento integrale, ma innanzitutto ribadì il fondamento costituzionale di tale diritto (semmai ipotizzando eventuali deroghe) e concluse poi per la sicura incostituzionalità della normativa predetta («essa lede la garanzia eretta dall'art. 2 Costi. a presidio inviolabile della persona»!), così ritenendo non comprimibile tale diritto pur dinanzi ad una norma internazionale e nonostante la sicura rilevanza sociale del trasporto aereo e della sfera economica dei vettori.

Inoltre, a Cocciaseguì la già ricordata sentenza Repetto del 1986, che costituì un'ulteriore evoluzione della dimensione costituzionale del diritto in questione; la portata dell'obiter dictum della sentenza Coccia fu poi ulteriormente circoscritta dalla Consulta.

In Lilli c. Inps (C. cost., 6 giugno 1989, n. 319) si poneva la questione dell'incidenza dell'azione surrogatoria, instaurata dall'Inps nei confronti dell'assicuratore per la r.c.a., sul diritto del danneggiato al risarcimento integrale stante l'inidoneità del massimale a garantire tale diritto: il Tribunale di Roma aveva prospettato il contrasto con l'art. 3 Cost. dell'art. 28, l. n. 990/1969, comma 2, 3 e 4, nella parte in cui sarebbe stato da interpretarsi nel senso di prevedere, in favore dell'assicuratore sociale, una «prelazione o prededuzione» sul risarcimento dovuto al danneggiato dall'assicuratore della r.c.a., con la conseguenza che sarebbe stato istituito un privilegio ingiustificato, con pregiudizio per gli assistiti nel caso di inidoneità del massimale a coprire per intero i danni ad essi derivati.

La Corte enunciò, ex art. 32 Cost., la sicura prevalenza del diritto del danneggiato al risarcimento integrale del danno sulle pretese dell'assicuratore sociale.

Essa rilevò innanzitutto il seguente limite posto al legislatore: «la discrezionalità legislativa, nel prevedere e disciplinare la “surroga” degli enti gestori di assicurazioni sociali, deve essere esercitata nel rispetto dei principi costituzionali e le finalità perseguite con l'attribuzione dell'azione di “surroga” non possono mai risolversi nel pregiudizio di valori costituzionalmente garantiti».

La Corte sviluppò poi il seguente ragionamento:

  • sussiste una contrapposizione tra il danneggiato e gli enti gestori di assicurazioni sociali che diviene attuale nel caso di insufficienza del massimale a garantire al primo il risarcimento integrale dei danni non garantiti dai secondi;
  • il legislatore, in seno all'art. 28, l. n. 990/1969, ha scelto di privilegiare gli enti assicuratori sociali con conseguente pregiudizio per il danneggiato nel caso di insufficienza del massimale: «Nella composizione dei contrapposti interessi il legislatore, con l'art. 28, l. n. 990/1969, ha dato preferenza al soddisfacimento di quello degli enti assistenziali, in base ad una scelta legislativa preoccupata dell'incidenza dei costi gestionali degli enti stessi. Ne è derivata una soluzione normativa che, in caso di insufficienza del massimale, mira a garantire il soddisfacimento della rivalsa degli enti assistenziali, anche in pregiudizio del diritto del lavoratore danneggiato all'integrale ristoro dei danni subiti»;
  • questo privilegio contrasta:
  • con l'art. 38 Cost. «quando la pretesa dell'ente gestore di assicurazioni sociali impedisce, in tutto o in parte, il risarcimento dei danni alla persona dell'assistito, che non siano stati già altrimenti risarciti. In tal caso, la tutela dell'ente previdenziale viene ad operare in pregiudizio del soggetto assistito e si pone in contrasto con la stessa finalità che l'ente deve perseguire»;
  • con il diritto al risarcimento integrale del danno alla salute di cui agli artt. 2 e 32 Cost.: «Nel nostro ordinamento la integrità personale è configurata come “fondamentale diritto dell'individuo”, con la prescrizione del dovere della Repubblica di tutelarlo (cfr. art. 32 Cost.) nonché col riconoscimento della sua “inviolabilità” ai sensi dell'art. 2 Cost.(cfr. sent. n. 132/1985). Nel caso di lesione, la particolare configurazione e garanzia di tale diritto impongono al legislatore di prevedere misure idonee ad assicurarne il più ampio ristoro»;
    • dunque consegue l'illegittimità della disposizione che, per favorire i costi di gestione degli enti previdenziali/assicuratori sociali, pregiudica il diritto al risarcimento integrale del danno alla salute.

Quindi la Corte non solo ribadì il fondamento costituzionale della restitutio in integrum, ma sancì, in ragione della Costituzione, la sicura prevalenza del diritto del danneggiato ad una tutela integrale sull'interesse degli enti assicurativo-previdenziali (e, quindi, della collettività) a ripetere dall'assicuratore per la r.c.a. quanto corrisposto a titolo indennitario alla vittima.

In breve, in Lillila Corte sostituì all'obiter abbozzato in Coccia (1985) una ratio decidendi certamente molto più limitativa della possibilità per il legislatore di circoscrivere il diritto alla riparazione integrale nel nome di interessi contrapposti a questo.

In piena sintonia con Lilliintervennero nel 1991 due ulteriori pronunce.

La prima fu Salambat c. Az. energetica municip. (C. cost., 18 luglio 1991, n. 356), che dichiarò costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 32 Cost., l'art. 1916 c.c., nella parte in cui consentiva all'assicuratore sociale (l'Inail) di avvalersi, nell'esercizio del diritto di surrogazione nei confronti del terzo responsabile, anche delle somme da questi dovute al lavoratore danneggiato, a titolo di risarcimento del danno biologico, somme tali da non formare oggetto della copertura assicurativa.

La Corte operò due premesse generali:

  • la discrezionalità del legislatore è esclusa, allorquando si tratta di apprestare una tutela risarcitoria per le situazioni soggettive costituzionalmente garantite per queste sussistendo l'obbligo di una tutela integrale: «La [prima] premessa è da rinvenire nel principio enunciato nella sent. n. 87/1979, secondo cui, mentre rientra nella discrezionalità del legislatore adottare discipline differenziate per la tutela risarcitoria di situazioni diverse, tale discrezionalità è invece esclusa allorquando vengano in considerazione situazioni soggettive costituzionalmente garantite. Per queste ultime, cioè, la garanzia costituzionale implica logicamente l'obbligo del legislatore di apprestare una tutela piena , ed in particolare - ma non esclusivamente - una piena tutela risarcitoria. Tale principio è stato ripreso e ribadito dalla sent. n. 184/1986, nella quale si e osservato che il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e la minima delle sanzioni che l'ordinamento appresta per la tutela di un interesse, sicché il legislatore ordinario, rifiutando o limitando in alcun modo la tutela risarcitoria “a seguito della violazione del diritto costituzionalmente dichiarato fondamentale, non lo tutelerebbe affatto, almeno nei casi esclusi dalla predetta tutela”. La solenne dichiarazione della Costituzione, in tali ipotesi, “si ridurrebbe ad una lustra” e “il legislatore ordinario rimarrebbe arbitro della effettività della predetta dichiarazione»;
  • il diritto alla salute è diritto fondamentale, primario ed assoluto dell'individuo, quindi tale da precludere limitazioni alla sua piena risarcibilità: «La seconda premessa è rappresentata dal principio, affermato già nella sent. n. 88/1979, secondo cui il bene della salute è tutelato dall'art. 32, primo comma, Cost. […] anche e soprattutto come diritto fondamentale dell'individuo, sicché si configura come un diritto primario e assoluto»; pertanto, essendosi posta la questione della risarcibilità integrale del danno biologico, «se è vero […] che l'art. 32, primo comma, Cost. tutela la salute come diritto fondamentale del privato e se è vero che tale diritto è primario e pienamente operante anche nei rapporti tra privati, non sono configurabili limiti alla risarcibilità in ogni caso del danno biologico per sé considerato. La menomazione dell'integrità psico-fisica del soggetto offeso costituisce quindi danno integralmente risarcibile di per sé stesso. […] La considerazione della salute come bene e valore personale, in quanto tale garantito dalla Costituzione come diritto fondamentale dell'individuo, nella sua globalità e non solo quale produttore di reddito, impone […] di prendere in considerazione il danno biologico, ai fini del risarcimento, in relazione alla integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica sé stessa nella propria vita: non soltanto, quindi, con riferimento alla sfera produttiva, ma anche con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità, e cioè a tutte “le attività realizzatrici della persona umana” (sent. n. 184/1986)».

Ciò premesso, la Consulta così affrontò la questione:

  • all'art. 1916 c.c. il legislatore ha scelto di accordare prevalenza sia all'esigenza di scongiurare che il sinistro divenga occasione di lucro per il danneggiato anche nei casi in cui possa conseguire delle somme a diverso titolo da soggetti diversi, sia all'esigenza di diminuire i costi della garanzia assicurativa attraverso la reintegrazione del patrimonio dell'assicuratore: «il diritto di surroga dell'assicuratore, sia privato che sociale, nei confronti del terzo responsabile, fino alla concorrenza della indennità corrisposta all'assicurato, ha come unico limite quantitativo il complessivo risarcimento che il terzo effettivamente deve al danneggiato-assicurato […]. Le ragioni di tale normativa […] sono state individuate, principalmente, sia nell'esigenza di evitare che un sinistro divenga occasione di lucro (ovvero, come è stato detto, di “indebito arricchimento”) per chi lo subisce, pur quando il ristoro spetti a duplice e diverso titolo e da parte di soggetti diversi, sia nell'esigenza di diminuire i costi della garanzia assicurativa attraverso la reintegrazione del patrimonio dell'assicuratore»;
  • tali finalità perseguite dal legislatore non trovano copertura costituzionale, allorquando vengano in considerazione situazioni soggettive costituzionalmente garantite: «Si tratta di scelte che […] rientrano nella discrezionalità del legislatore […]. In particolare […] rientra nel novero delle scelte politiche rimesse al legislatore adottare discipline differenziate per la tutela risarcitoria di situazioni diverse, ma tale discrezionalità è invece esclusa allorquando vengano in considerazione situazioni soggettive costituzionalmente garantite, quale è il diritto alla salute di cui al primo comma dell'art. 32 Cost.»;
  • pertanto, il legislatore, pur adducendo tali finalità, non può pregiudicare in nessun modo il diritto del danneggiato ad un risarcimento integrale, pena la violazione dell'art. 32: «Ne consegue, come questa Corte ha già affermato con la sent. n. 319 del 1989, che la discrezionalità legislativa, nel prevedere e disciplinare la surroga dell'assicuratore, deve esercitarsi nel rispetto dei principi costituzionali, e le finalità perseguite con l'attribuzione dell'azione di surroga non possono mai risolversi nel pregiudizio di valori costituzionalmente garantiti, quale è il diritto alla salute»; quindi, «allorquando la copertura assicurativa […] non abbia ad oggetto il danno biologico, oppure si limiti ad indennizzare la perdita o riduzione di alcune soltanto delle capacita del soggetto (come avviene per l'attitudine al lavoro nel regime dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), consentire che l'assicuratore, nell'esercizio del proprio diritto di surroga nei confronti del terzo responsabile, si avvalga anche del diritto dell'assicurato al risarcimento del danno biologico non coperto dalla prestazione assicurativa, significa, appunto sacrificare il diritto dell'assicurato stesso all'integrale risarcimento di tale danno, con conseguente violazione dell'art. 32 Cost.».

Dunque, in Salambat, aggiungendo un ulteriore tassello rispetto a Lilli, la Consulta affermò che il legislatore non può limitare il diritto al risarcimento integrale del danno da violazione di beni fondamentali adducendo l'«esigenza di diminuire i costi della garanzia assicurativa» (neppure quando questa sia un'assicurazione sociale).

Singolarmente la Consulta del 2014 si è pure scordata di questo rilevante passaggio.

Eppure la linea stabilita in Salambat, in continuità con Repetto e Lilli,fu poi confermata in Bracco c. Fall. soc. Axel (Corte cost., 27 dicembre 1991, n. 485), che ribadì «il principio costituzionale della integrale e non limitabile tutela risarcitoria del diritto alla salute», tale da estendersi «prioritariamente e indefettibilmente [al] danno biologico in sé considerato», da riferirsi «alla integralità dei suoi riflessi pregiudizievoli rispetto a tutte le attività, le situazioni e i rapporti in cui la persona esplica se stessa nella propria vita», cioè anche «con riferimento alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale, sportiva e ad ogni altro ambito e modo in cui il soggetto svolge la sua personalità, e cioè a tutte “le attività realizzatrici della persona umana». La Consulta affermò la preclusione per l'Inail di avvalersi, ai fini dell'azione di regresso, delle somme dovute dal responsabile civile all'infortunato a titolo di risarcimento del danno biologico cagionato da infortunio sul lavoro.

In Concordato preventivo Morini c. Bernardi e Inail (Corte cost., 17 febbraio 1994, n. 37) il diritto, così costituzionalmente garantito, al risarcimento integrale del danno alla salute finì pure per andare a beneficio dei danneggiati sul versante del danno morale. La Corte, pur rilevando che il risarcimento di questo danno (rimasto intrappolato nell'art. 2059 c.c.) non sarebbe stato assistito ex art. 32 Cost., trasse la conclusione che il diritto di surrogazione non potesse essere esteso neppure a questo danno giacché a sua volta estraneo al rischio assicurato: ciò, proprio grazie alla copertura costituzionale, individuata negli artt. 2 e 32 Cost., del diritto al risarcimento integrale del danno alla salute (questa impostazione fu ribadita in Corte cost., 22 ottobre 1997, n. 319).

Vero è che poi la Consulta in Sgrilli c. Colzi (Corte cost., 27 ottobre 1994, n. 372) eLuzzi c. Piredda(Corte cost., 22 luglio 1996, n. 293) continuò ad ossequiare la bizzarra strategia salvifica del “vecchio” art. 2059 c.c. consistente nel farlo sopravvivere attribuendogli sostanza attraverso il danno morale ed al contempo escludendo dalla sua sfera restrittiva il danno biologico “esistenzializzato”.

Nondimeno anche in queste pronunce la Consulta confermò, ex artt. 2 e 32 Cost., la tutela risarcitoria “costituzionalizzata” tanto per il danno biologico che per il patema d'animo e lo stato di angoscia transeunti del congiunto dell'ucciso degenerati «in un trauma fisico o psichico permanente».

In Sgrilli la Corte ribadì che la tutela risarcitoria del diritto alla salute «deve essere ammessa per precetto costituzionale»: con riferimento all'art. 2043 c.c. ricordò che questa norma, «coordinata con l'esigenza di effettività della tutela dei diritti fondamentali», poneva ormai «un principio di risarcibilità dei danni più generale di quello originariamente tradotto nella regola del codice civile, comprendente non solo i danni patrimoniali, ma pure i danni non patrimoniali causati dalla lesione di un diritto personale costituzionalmente protetto, quale il diritto alla salute».

Ad ogni modo, nel corso del decennio successivo a queste ultime due sentenze, alle quali va aggiunta un'ulteriore conferma del diritto al «pieno ristoro del danno alla persona» (Corte cost., 6 novembre 2000, n. 470), la ripartizione dei pregiudizi non patrimoniali fra art. 2043 (pregiudizi biologici ed esistenziali) e art. 2059 (pregiudizi morali) venne soppiantata: quest'ultima norma fu reinventata alla radice in senso costituzionalmente conforme; il “nuovo” art. 2059 tornò sì ad essere la casa di tutte le declinazioni del danno non patrimoniale, tuttavia, nei casi di violazione dei diritti fondamentali, con esclusione del requisito della fattispecie di reato o di una specifica previsione. Ad operare questa rivoluzione furono le pronunce Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828.

In questa nuova prospettiva l'art. 2059 “costituzionalizzato” venne ad imporre la sicura risarcibilità del danno non patrimoniale, a prescindere dalla configurabilità di un reato, in tutti i casi di lesione di «valori della persona costituzionalmente garantiti». Anche il danno morale - il pregiudizio da violazione dell'«interesse all'integrità morale, la cui tutela, [è] agevolmente ricollegabile all'art. 2 Cost.» - fu svincolato dalle precedenti catene, ponendosi, quanto ai requisiti per la sua risarcibilità, alla stessa stregua dei pregiudizi biologici ed esistenziali.

La Cassazione del 2003 si determinò a questa rivoluzione anche a fronte della «sempre più avvertita esigenza di garantire l'integrale riparazione del danno ingiustamente subito, non solo nel patrimonio inteso in senso strettamente economico, ma anche nei valori propri della persona (art. 2 Cost.)».

Orbene, in Manetti c. Ingretolli (Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233) laCorte così appose il suo sigillo: «In due recentissime pronunce (Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828), che hanno l'indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il tormentato capitolo della tutela risarcitoria del danno alla persona, viene […] prospettata, con ricchezza di argomentazioni […] un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., tesa a ricomprendere nell'astratta previsione della norma ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: e dunque sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto […]; sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona».

Dunque, la Consulta del 2014 e le SS.UU. 2015 sono intervenute dinanzi ad una giurisprudenza costituzionale granitica nell'affermare sia il fondamento costituzionale del diritto al risarcimento integrale da violazione di diritti inviolabili, sia l'impossibilità per il legislatore di comprimere la restitutio in integrum sulla base, per es., dell'«esigenza di diminuire i costi della garanzia assicurativa» (Corte cost. n. 356/1991) o di una «scelta legislativa preoccupata dell'incidenza dei costi gestionali» (Corte cost. n. 319/1989) degli enti erogatori di assicurazioni sociali.

Quali limiti costituzionali per il legislatore fuori dai casi di danni alla persona e da uccisione?

L'apodittica affermazione, di cui alle Sez. Un. 2015, per cui il diritto ad un risarcimento integrale del danno non sarebbe fornito di copertura costituzionale, è comparsa in alcune isolate pronunce della Consulta intervenute - questo il punto - con riferimento ad un settore circoscritto e nettamente distinto dall'ambito dei danni alla persona e da uccisione: il campo dei danni da espropriazioni (infra § La giurisprudenza costituzionale in tema di espropriazioni), aggiungendosi un precedente in ambito lavoristico (infra § Lavoratore illegittimamente assunto a termine).

Peraltro, a questo sporadico diniego, incautamente reso dalla Consulta senza una più che opportuna verifica dei propri precedenti, si è per lo più associata la declaratoria di incostituzionalità della disciplina impugnata: la Corte ha fissato dei paletti, che, se per ipotesi trasposti in seno alla tutela risarcitoria di persone lese nell'integrità psicofisica o violate nel bene famiglia, sarebbero tali da precludere qualsiasi operazione salvifica nei confronti di iniziative legislative protese a ridimensionare risarcimenti integrali in tali ambiti, come per esempio gli artt. 138 e 139 Cod. Ass. Priv.

La giurisprudenza costituzionale in tema di espropriazioni

Deve premettersi come le questioni di legittimità sollevate in relazione alla normativa in materia di espropriazioni si siano poste in relazione al bene tutelato dall'art. 42 Cost., che inquadra la proprietà privata alla stregua di un diritto lungi dall'essere incomprimibile (come, invece, salute e famiglia), potendo la legge ordinaria determinare dei limiti al suo godimento «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (comma 2) e pure prevedere che, «salvo indennizzo», possa essere «espropriata per motivi d'interesse generale» (comma 3).

Inizialmente la legislazione prevedeva il risarcimento integrale del danno da espropriazione illegittima: si era posto il diverso problema della legittimità del mancato riconoscimento del diritto alla retrocessione dei beni espropriati.

Al riguardo Corte cost., 31 luglio 1990, n. 384 salvò l'art. 3, comma 1, l. n. 458/1988, ove statuiva che «il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia pubblica, agevolata o convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene». La Corte ritenne che la violazione dell'art. 42 andasse esclusa perché «il mancato adempimento della pretesa restitutoria, imposto da preminenti ragioni di pubblico interesse, si sostitui[va] la tutela risarcitoria (art. 2043 c.c.), integralmente garantita»: «il legislatore […] non si è limitato a corrispondere “l'indennizzo”, ma ha previsto l'integrale risarcimento del danno subito».

Il legislatore intervenne poi con il d.l. n. 333/1992, convertito dalla l. n. 359/1992, limitando il risarcimento del danno da espropriazione legittima in un indennizzo non corrispondente al bene espropriato.

Corte cost., 16 dicembre 1993, n. 442 dichiarò legittima tale normativa, giacché non discriminatoria, laddove distingueva tra due fattispecie fra loro incomparabili: da un lato l'accessione invertita contraria ai canoni della legalità (risarcimento integrale); dall'altro lato l'espropriazione al termine di un procedimento secundum legem (indennizzo).

Muovendo da tale distinzione tra atti legittimi ed atti illeciti in Como c. Noli (Corte cost., 2 novembre 1996, n. 369) la Consulta dichiarò costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 28, 42, comma 2, e 97 Cost., l'art. 5-bis, comma 6,d.l. n. 333/1992, come sostituito dall'art. 1, comma 65, l. n. 549/1995, nella parte in cui il legislatore aveva esteso al risarcimento del danno da occupazione appropriativa o acquisitiva, cioè da illegittima occupazione privativa, i criteri di determinazione (semisomma del valore di mercato e del reddito dominicale + ulteriore riduzione del 40%, evitabile con la cessione volontaria del bene) stabiliti per l'indennizzo in caso di espropriazione legittima per pubblica utilità, in quanto, data la diversità delle obbligazioni così comparate, era innegabile come ne derivasse la violazione del precetto di eguaglianza.

Merita soffermarsi su questo precedente poiché travisato dalla Consulta del 2014 e dalle Sez.Un. 2015.

La questione era se detto ius superveniens si risolvesse «nella compressione del diritto al risarcimento del danno all'interno di una fattispecie di illecito aquiliano» e se fosse in via di principio «consentito al legislatore ordinario di operare una siffatta compressione».

Vero è che incidentalmente la Corte ritenne che potesse «convenirsi con l'Avvocatura che la regola generale di integralità della riparazione ed equivalenza al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha - come del resto, evidenziato nella sent. n. 132/1985 [punto 4.3. della motivazione] - copertura costituzionale». Altresì innegabile, tuttavia, è come la Consulta si fosse fidata della rappresentazione apprestata dall'Avvocatura, senza interrogarsi sulla sua veridicità: infatti, come dimostrato al § 2, in Coccia la Corte fu lungi dal negare copertura costituzionale al diritto al risarcimento integrale (anzi, la riconobbe ai congiunti sulla base dell'art. 2 Cost.), senza contare che tale fondamento fu poi ribadito a più riprese, con maggiore vigore ed ulteriori invalicabili limiti alla discrezionalità del legislatore, nei successivi precedenti (Repetto, Lilli, Salambat, Bracco, Concordato preventivo Morini, Sgrilli).

Ad ogni modo, la Corte, subito dopo aver rivolto tale cenno alla tesi dell'Avvocatura, proseguì contrapponendo la seguente puntualizzazione: «in realtà - in casi eccezionali (di cui non mancano in dottrina tentativi di ricognizione sistematica) - il legislatore può pure ritenere equa e conveniente una limitazione del risarcimento del danno».

Insomma, a leggere con scrupolo la sentenza, al di là delle massime incorrettamente tratte da essa, si ha come la Consulta abbia ribadito la copertura costituzionale del diritto in questione, per l'appunto precisando come semmai questo sia suscettibile di deroghe «in casi eccezionali». Quindi la Corte fu lungi dal confezionare un diniego generale del fondamento costituzionale del diritto alla riparazione integrale.

Ad ulteriore dimostrazione della conferma di una copertura siffatta la Consulta pervenne poi a dichiarare l'illegittimità della norma, circoscrivendo in modo significativo i casi in cui un intervento normativo riduttivo della misura della riparazione può trovare giustificazione.

La Corte ravvisò i seguenti interessi contrapposti: «da un lato, quello riferibile all'amministrazione di conservazione dell'opera di pubblica utilità, con contenimento dell'incremento di spesa correlativa; e, dall'altro, l'interesse del privato ad ottenere riparazione per l'illecito subito». Orbene, la Corte escluse che tale interesse della p.a. potesse avvallare ridimensionamenti della tutela risarcitoria: «mentre la misura dell'indennizzo - obbligazione “ex lege” per atto legittimo - costituisce il punto di equilibrio tra interesse pubblico alla realizzazione dell'opera e interesse del privato alla conservazione del bene, la misura del risarcimento - obbligazione “ex delicto” - deve realizzare il diverso equilibrio tra l'interesse pubblico al mantenimento dell'opera già realizzata e la reazione dell'ordinamento a tutela della legalità violata per effetto della manipolazione - distruzione illecita del bene privato. E quindi sotto il profilo della ragionevolezza intrinseca (ex art. 3 della Costituzione), poiché nella occupazione appropriativa l'interesse pubblico è già essenzialmente soddisfatto dalla non restituibilità del bene e dalla conservazione dell'opera pubblica, la parificazione del quantum risarcitorio alla misura dell'indennità si prospetta come un di più che sbilancia eccessivamente il contemperamento tra i contrapposti interessi, pubblico e privato, in eccessivo favore del primo».

In seguito il legislatore corse ai ripari con l'art. 3, comma 65, l. n. 662/1996, ove andò a prevedere (art. 5-bis, comma 7-bis, d.l. n. 333/1992) che per i casi di occupazione illegittima, intervenuti prima del 30 settembre 1996, trovassero applicazione, per la liquidazione dei danni, i criteri per l'indennità prevista per la espropriazione lecita (semisomma tra valore di mercato e reddito catastale rivalutato, decurtata del 40%) con esclusione della riduzione del 40% e con incremento dell'importo del risarcimento del 10%; tale disposizione si applicava anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato.

Dinanzi a questa insistenza del legislatore in Martelli c. Pres. Cons. (Corte cost., 30 aprile 1999, n. 148) la Consulta operò un passo indietro rispetto a Como c. Noli.

Innanzitutto, per salvare la norma la Consulta, senza curarsi di verificare l'effettivo stato della propria giurisprudenza, decretò apoditticamente che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale (sent. n. 369/1996; sent. n. 132/1985)»: anche in questa occasione si citarono precedenti lungi dal confermare il dogma declamato.

Comunque, come già in Como, la Corte andò subito a contraddire questa prima affermazione, ribadendo che soltanto «in casi eccezionali il legislatore può ritenere equa e conveniente una limitazione al risarcimento del danno». Sennonché, diversamente da Como, ritenne di ravvisare la sussistenza dell'«eccezionalità del caso» a fronte del «carattere temporaneo della norma denunciata» (!) e della «finalità, egualmente temporanea e di emergenza, rivolta a regolare situazioni passate».

Ad ulteriore giustificazione aggiunse come la novella realizzasse un equilibrato componimento dei contrapposti interessi, prevedendo un «incremento (non irrisorio, né meramente apparente) a favore del privato danneggiato […] rispetto alla previsione largamente riduttiva della precedente norma colpita da dichiarazione di illegittimità costituzionale». In breve, la Consulta ritenne preminente «la esigenza […] di salvaguardare una ineludibile, e limitata nel tempo, manovra di risanamento della finanza pubblica, già predisposta, in vista - come sottolineato dall'Avvocatura generale dello Stato - degli impegni assunti in sede comunitaria».

Sennonché questa impostazione così come pure i successivi interventi legislativi furono censurati dalla Corte di Strasburgo sulla base dell'art. 1 del Protocollo 1 della CEDU («Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale»).

In particolare in Scordino c. Italia (CEDU, Grande Camera, 29 marzo 2006) la Grande Chambre così suggellò, in una summa finale, il suo già costante orientamento.

La CEDU, rilevato come in relazione al diritto di proprietà l'art. 1 stesso conceda una «ingerenza nel diritto» da parte dello Stato soltanto a determinate condizioni (il pieno rispetto di «un giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo»), operò questa premessa: «Se è vero che in numerosi casi di espropriazione legittima, come l'espropriazione singola di un terreno in vista della costruzione di una strada o per altri fini di utilità pubblica, solo un indennizzo integrale può essere considerato ragionevolmente correlato al valore del bene, questa regola non è tuttavia senza eccezioni».

Tuttavia, quanto alle eccezioni ammissibili ex art. 1 la Corte ribadì questo paletto: «Degli obbiettivi legittimi di utilità pubblica, come quelli che si perseguono con misure di riforma economica o di giustizia sociale, possono giustificare un rimborso inferiore al pieno valore venale relativamente alla misura dell'indennizzo».

Per meglio precisare i margini di tali ristrette eccezioni la Corte riportò i seguenti casi: presa di possesso, da parte dello Stato, di determinati beni al fine di operare «mutamenti radicali del sistema costituzionale di un paese quali la transizione dalla monarchia alla repubblica»; adozione da parte della Germania di misure legislative incidenti sulla proprietà privata nel «contesto unico della riunificazione tedesca»; in Grecia «l'esproprio di oltre 150 immobili […] alfine di costruire una strada nazionale».

Viceversa, la CEDU escluse la ricorrenza di un caso eccezionale «nella fattispecie […] di esproprio singolo, che non si sistema in un contesto di riforma economico, politico o sociale, e non si ricollega a nessuna circostanza particolare», non potendosi ravvisare «alcuna legittima finalità di “utilità pubblica” che possa giustificare un indennizzo inferiore al valore venale».

Su queste basi la CEDU non condivise la posizione assunta dalla Consulta in pronunce quali Como e Martelli, ritenendo violato dall'Italia l'art. 1 a fronte del fatto che l'indennità di esproprio accordata ai ricorrenti secondo i criteri fissati dall'art. 5-bis della l. n. 359/1992 corrispondeva alla metà del valore di mercato del terreno, espropriato per permettere ad una società cooperativa di realizzarvi alloggi destinati a privati, liberi, tra l'altro, dopo 5 anni di rivendere gli alloggi al prezzo di mercato, con loro vantaggio economico. Queste le conclusioni: «l'indennizzo accordato ai ricorrenti non era adeguato, considerato il suo modesto ammontare e l'assenza di motivi di utilità pubblica in grado di legittimare un indennizzo inferiore al valore venale del bene. Ne consegue che i ricorrenti hanno dovuto rapportare un carico sproporzionato ed eccessivo, che non può essere giustificato da un interesse generale e legittimo perseguito dalle autorità».

Proprio a fronte della CEDU nel 2007 la Consulta (Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349) decise di rivedere le proprie posizioni: «il bilanciamento svolto in passato con riferimento ad altri parametri costituzionali deve essere ora operato […] tenendo conto […] della regola stabilita dall'art. 1 del Protocollo addizionale», regola tale da comportare, «anche nel caso di espropriazione legittima», la violazione di tale disposizione nel caso di riconoscimento al titolare del diritto di proprietà - «al solo scopo di sopperire ad esigenze di bilancio» ed «al di fuori di un contesto di riforme economiche o sociali» - di un indennizzo inferiore a quello del valore venale del bene. Quindi la Corte, in relazione all'art. 5-bis, co. 7-bis, d.l. n. 333/1992, ribaltò la sua impostazione (in primis Martelli) e dichiarò l'incostituzionalità della norma ove estendeva le regole per la determinazione dell'indennità di espropriazione al risarcimento da occupazione appropriativa.

Queste le conclusioni della Corte manifestamente di opposte ai suoi precedenti: «La temporaneità del criterio di computo stabilito dalla norma censurata, le congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l'astratta ammissibilità di una regola risarcitoria non ispirata al principio della integralità della riparazione del danno non costituiscono elementi sufficienti a far ritenere che, nel quadro dei principi costituzionali, la disposizione censurata realizzi un ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da contrastare utilmente la rilevanza della normativa CEDU. Questa è coerente con l'esigenza di garantire la legalità dell'azione amministrativa ed il principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato. Per converso, alla luce delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell'art. 42, non si può fare a meno di concludere che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema legale e di conservare l'opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito».

La Corte pervenne così a circoscrivere significativamente, per l'appunto «nel quadro dei principi costituzionali», i margini per il legislatore di prevedere deviazioni dal risarcimento integrale.

In definitiva la giurisprudenza in materia di espropriazioni dimostra quanto segue:

  • da essa non si trae un diniego generalizzato della copertura costituzionale del diritto al risarcimento integrale: semmai la Corte, in relazione a tale ambito, ha espresso l'«astratta ammissibilità» di regole eccezionali in deroga al principio della integralità risarcitoria;
  • tali eccezioni presentano ambiti operativi estremamente circoscritti: neppure «le congiunturali esigenze finanziarie» dello Stato possono giustificare restrizioni al diritto ad una tutela risarcitoria piena, neanche in relazione alla tutela della proprietà contro espropriazioni legittime;
  • comunque, anche nei rari casi in cui sia ravvisabile «il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato», eventuali limiti ai risarcimenti devono risultare associati ad un'ulteriore diretta contropartita a favore del danneggiato.

A quest'ultimo riguardo rileva Corte cost., 30 aprile 2015, n. 71, occupatasi della legittimità dell'art. 42-bis («Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico») del d.P.R. n. 327/2001, introdotto dall'art. 34, comma 1, d.l. n. 98/2011, convertito dall'art. 1, comma 1, l. n. 111/2011. Questa la norma: «Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene».

La Corte, ritenendo la costituzionalità di tale norma, ha giudicato legittima la forfetizzazione del danno non patrimoniale nella misura del 10% del valore venale, tuttavia non solo in quanto tale da costituire un «un ristoro supplementare rispetto alla somma che sarebbe spettata nella vigenza della precedente disciplina»(neppure «previsto per l'espropriazione condotta nelle forme ordinarie»), ma anche perché conseguibile dal danneggiato senza la necessità di fornire alcuna prova («deve sottolinearsi che il privato, in deroga alle regole ordinarie, è in tal caso sollevato dall'onere della relativa prova»).

S'aggiunga come la Corte abbia ritenuto accettabile tale misura anche a fronte degli stretti requisiti posti per l'adozione del provvedimento acquisitivo.

Dunque, la giurisprudenza della Consulta in materia di espropriazioni non contraddice la copertura costituzionale del diritto al risarcimento integrale dei danni alla persona e da uccisione.

Lavoratore illegittimamente assunto a termine

Il diniego di copertura costituzionale del diritto al risarcimento integrale è affiorato anche in Corte cost., 11 novembre 2011, n. 303, occupatasi della legittimità dell'art. 32, comma 5, l. n. 183/2010, che, per il periodo dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione, garantisce al lavoratore, che ottenga la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, non già l'integrale risarcimento del danno, ma soltanto una indennità forfettaria.

La Consulta ha premesso incidentalmente quanto segue: «Peraltro, questa Corte ha affermato a più riprese che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale» (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991)».

Orbene, anche in questo caso la Consulta è stata del tutto inaccurata nel riferirsi alla propria giurisprudenza: infatti, come già dimostrato innanzi, non è vero che la stessa abbia, tantomeno «a più riprese», negato copertura costituzionale alla integralità dei risarcimenti.

Inoltre le pronunce n. 199/2005 e n. 420/1991, intervenute in materia di trasporti, non enunciano affatto un diniego generalizzato della copertura costituzionale in questione: non si rinviene semplicemente alcuna declamazione in tal senso; semmai ammettono, entro ristretti limiti, delle deroghe per taluni danni patrimoniali, comunque al di fuori della tutela dei diritti inviolabili.

Ciò posto, la Corte si è determinata per la declaratoria di legittimità a fronte delle rilevanti contropartite garantite al lavoratore dalla norma impugnata:

  • «la norma scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato»: «la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario»;
  • si ha la previsione, quale misura «aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione», di una «indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell'offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta», somma, peraltro, spettante a prescindere dal mancato svolgimento medio tempore di prestazioni lavorative.

In definitiva, la norma è stata salvata in quanto garantisce al lavoratore dei vantaggi diretti e concreti invero superiori ed incommensurabilmente più certi rispetto alla tutela risarcitoria canonica.

Trasporti

Senz'altro non si rinvengono conferme di un diniego generalizzato del fondamento costituzionale del diritto alla riparazione integrale dei danni (tantomeno quelli da violazione di diritti inviolabili) nella giurisprudenza relativa alle norme, che, in materia di trasporti, recano forfetizzazioni dei danni patrimoniali da perdite o avarie di merci. Anzi, anche in questi casi la discrezionalità del legislatore risulta assoggettata dalla Corte a delle limitazioni, il che dimostra l'esistenza, quale assunto di partenza, di una copertura costituzionale della restitutio in integrum (altrimenti non si porrebbe alcuna questione di legittimità).

Peraltro, in materia emerge un vieppiù marcato trend della Corte verso significative restrizioni della discrezionalità del legislatore: certo, non essendo in gioco diritti inviolabili, questi può circoscrivere la tutela risarcitoria, ma comunque dovendo garantire risarcimenti “adeguati” in considerazione del maggior sacrificio economico imposto all'utente del servizio (per es. costretto a ricorrere a polizze supplementari).

Corte cost., 22 novembre 1991, n. 420 ha così dichiarato l'illegittimità dell'art. 1, comma 1, l. n. 450/1985 («Norme relative al risarcimento dovuto dal vettore stradale per perdita o avaria delle cose trasportate»), nella parte in cui, nell'ipotesi di trasporto di merci su strada soggetto a sistema tariffario obbligatorio, non prevedeva un meccanismo di aggiornamento del massimale prescritto per l'ammontare del risarcimento del danno patrimoniale causato dal vettore; Corte cost., 26 maggio 2005, n. 199 ha sancito l'illegittimità dell'art. 423, comma 1, cod. nav., nella parte in cui non escludeva il limite del risarcimento dovuto dal vettore marittimo in caso di responsabilità determinata da dolo o colpa grave sua o dei suoi dipendenti o preposti.

La “giustificazione solidaristica” della discrezionalità del legislatore: inapplicabilità alla tutela risarcitoria

La tesi, per cui il diritto al risarcimento integrale del danno da violazione del bene salute non avrebbe fondamento costituzionale e, comunque, sarebbe assoggettato a bilanciamenti di carattere solidaristico, denota una propensione ad assimilare il risarcimento del danno da fatto illecito/inadempimento alle stesse logiche che contraddistinguono il diverso ambito degli equi indennizzi e delle altre misure assistenziali che lo Stato - ex artt. 2, 32 e 38 Cost. - è tenuto a predisporre a tutela del medesimo bene per obiettivi di “solidarietà collettiva”.

Questo tentativo di assimilazione contrasta con la netta linea di demarcazione tracciata dalla Corte tra, da un lato, tutela risarcitoria apprestata dalla r.c. e, dall'altro lato, tutele indennitarie a carattere sociale (cfr. già Corte cost., 15 febbraio 1991, n. 87).

Come sottolineato dalla Corte, diversamente dal caso del risarcimento dovuto per la lesione illecita del diritto alla salute (violazione rispetto a cui «la responsabilità civile opera sul piano della tutela della salute di ciascuno contro l'illecito (da parte di chicchessia) sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con […] effetti risarcitori pieni») (Corte cost., 22 giugno 1990, n. 307), l'intervento indennitario pubblico trova una differente giustificazione, quella dell'«adempimento di un dovere di solidarietà» (Corte cost., 6 marzo 2002, n. 38), sicché soltanto in questa seconda prospettiva può affermarsi che non s'impone al legislatore di considerare nella sua integralità il danno subito dal destinatario del beneficio solidaristico. In relazione alla tutela indennitaria, cioè, «l'intervento pubblico […] deriva, dal punto di vista costituzionale, da un obbligo dello Stato non strettamente commisurato al danno subìto, un obbligo cioè di solidarietà sociale nei confronti di coloro che hanno esposto la loro salute a un rischio, nell'interesse non solo loro proprio, ma anche dell'intera collettività» (Corte cost., 6 marzo 2002, n. 38).

Più in generale gli indennizzi - a favore di vittime di trattamenti sanitari obbligatori o di danni occorsi nell'adempimento del servizio militare o di altri servizi assimilabili, vittime del dovere, del terrorismo e della mafia - si fondano, diversamente dai risarcimenti imposti ai responsabili di atti illeciti, non già sul dovere dello Stato di scongiurare determinati eventi lesivi, bensì «sulla solidarietà collettiva garantita ai cittadini, alla stregua degli artt. 2 e 38 Cost., a fronte di eventi generanti una situazione di bisogno» (Corte cost., 27 ottobre 2006, n. 342).

Per questo motivo si giustifica come «la determinazione del contenuto e delle modalità di realizzazione di un tale intervento di natura solidaristica [sia] rimessa alla discrezionalità del legislatore», fermo restando che questi, ad ogni modo, non può incorrere in scelte «affette da palese arbitrarietà o irrazionalità» ovvero che comportino «una lesione del nucleo minimo della garanzia» (Corte cost., 27 ottobre 2006, n. 342; cfr., altresì, ex plurimis, Corte cost., 9 novembre 2011, n. 293).

Tale giustificazione solidaristica non opera in seno alla r.c., giacché altrimenti si finirebbe incorrettamente per «trasferire elementi di un sistema di garanzia in un altro» (Corte cost., 16 ottobre 2000, n. 423): tanto non è possibile importare «elementi propri della tutela risarcitoria» (integralità del risarcimento) in seno, per es., al «beneficio» economico previsto dalla l. n. 210/1992, quanto non è possibile compiere l'operazione inversa.

Conclusioni

La giurisprudenza della Consulta dimostra quanto segue:

  • la Corte non ha mai legittimato ridimensionamenti della tutela risarcitoria per i danni alla persona e da uccisione né sulla base di un diniego di copertura costituzionale del diritto al risarcimento integrale per questi danni, né per interessi economici imprenditoriali o riconducibili allo Stato; anzi, la copertura costituzionale di tale diritto rimediale costituisce una costante in seno alla Consulta, che, tra l'altro, ha escluso che in questo ambito il legislatore ordinario possa intaccare tale diritto adducendo, per es., l'«esigenza di diminuire i costi della garanzia assicurativa» (Corte cost.n. 356/1991) o gli interessi economici di una categoria (Corte cost. n. 132/1985) o una «scelta legislativa preoccupata dell'incidenza dei costi gestionali» dei gestori di assicurazioni sociali (Corte cost. n. 319/1989);
  • il diniego di tale fondamento è rinvenibile soltanto in isolate pronunce intervenute in altri settori non assimilabili, sul piano dell'inviolabilità dei beni, al campo delle lesioni personali e dei danni da uccisione, nonché si è retto su un erroneo richiamo aCoccia, che, all'opposto, ravvisò nell'art. 2 Cost. il diritto dei congiunti ad un risarcimento integrale; in ogni caso, queste sentenze hanno relegato la derogabilità alla restitutio in integrum a casi del tutto eccezionali; peraltro, hanno escluso, pur in relazione alla tutela della proprietà (bene sottoposto dalla stessa Costituzione a limitazioni ex lege), che il diritto ad una riparazione integrale possa venire derogato «al solo scopo di sopperire ad esigenze di bilancio» e «al di fuori di un contesto di riforme economiche o sociali» (C. cost. n. 349/2007), riforme - si osservi bene - che devono consistere in «mutamenti radicali del sistema costituzionale di un paese», a questa ipotesi potendosi affiancare la realizzazione di opere di comprovata utilità pubblica; inoltre, sempre questa giurisprudenza, laddove soddisfatti gli stretti requisiti posti per la configurazione di una deroga, ha ravvisato la sussistenza del corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti nell'ulteriore riconoscimento al danneggiato di una contropartita reale e diretta (per es., attribuzione di un indennizzo a prescindere dalla prova del pregiudizio subito – C. cost. n. 71/2015 - e/o – C. cost. n. 303/2011 - aggiunta all'indennizzo di una riparazione in forma specifica di particolare impatto);
  • interventi restrittivi del legislatore rispetto alla tutela della salute trovano una legittima giustificazione nella «solidarietà collettiva» soltanto con riferimento al diverso ambito degli indennizzi che lo Stato, ex artt. 2, 32 e 38 Cost., è tenuto ad effettuare a protezione di determinate categorie; viceversa la giustificazione solidaristica non opera per il risarcimento dei danni da violazione illecita dei diritti inviolabili.

Dunque, dalla giurisprudenza costituzionale risulta del tutto manifesto e comprovato come sia C. Cost. n. 235/2014 che Sez. Un. n. 15350/2015 abbiano gravemente frainteso indirizzi consolidati e precedenti pronunce della Consulta.

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