Isolamento lavorativo: il datore di lavoro deve risarcire il danno biologico al dipendente
19 Maggio 2016
Il caso. Il Tribunale prima, la Corte di appello dopo, condannavano una datrice di lavoro a risarcire al proprio dipendente il danno biologico, provocatogli a causa dell'emarginazione lavorativa cui l'aveva costretto da anni. Nel dettaglio, l'isolamento cui era stato sottoposto il lavoratore aveva influito negativamente sul suo stato psichico, comportando un aggravamento della malattia determinata da crisi d'ansia di cui era già affetto. Secondo i giudici di merito la datrice di lavoro aveva agito senza obiettive e documentate esigenze organizzative, violando così l'art. 2087 c.c.. La donna ricorreva allora in Cassazione.
Isolamento lavorativo come causa della malattia professionale. La Suprema Corte stabilisce che la Corte di appello, correttamente, aveva dato atto della conferma del consulente del secondo grado del giudizio della diagnosi espressa dall'ausiliare del primo grado, rispetto al fatto che «l'isolamento in cui era stato posto [il dipendente] dalla datrice di lavoro poteva aver influito negativamente sullo stato psichico del lavoratore». Era altresì stato rilevato che, seppur vero che il dipendente aveva sospeso la terapia cui era sottoposto, era stata la situazione lavorativa a causare o comunque aggravare l'evento.
Il principio dell'equivalenza delle condizioni. D'altronde si deve far riferimento al principio ormai pacifico per cui «in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali, trova applicazione la regola contenuta nell'art. 41 c.p., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta l'efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che il nesso eziologico sia interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l'evento tale da far degradare la cause antecedenti a semplici occasioni» (Cass., n. 1575/2010). Anzi, conclude la Cassazione riportando l'iter logico giuridico della Corte d'Appello per cui «la sospensione della terapia, dannosa per il lavoratore, era in qualche modo riconducibile proprio a quello stato psichico del dipendente reso incerto dall'accertato illegittimo comportamento datoriale».
Sulla base di tali argomenti la Cassazione ha rigettato il ricorso.
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