L'ATP obbligatorio nelle controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria

Massimo Vaccari
21 Marzo 2017

La nuova disciplina in tema di responsabilità sanitaria, cd. legge Gelli-Bianco, ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova ipotesi di giurisdizione condizionata, quella del tentativo obbligatorio di conciliazione, da espletarsi nelle forme del procedimento di cui all'art. 696-bis c.p.c.
La nuova disciplina e la definizione del suo ambito di applicazione

L'art. 8 della legge Gelli-Bianco ha introdotto nel nostro ordinamento una nuova ipotesi di giurisdizione condizionata, quella del tentativo obbligatorio di conciliazione, da espletarsi nelle forme del procedimento di cui all'art. 696-bis c.p.c., per le controversie di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità sanitaria.

La disciplina di questo ATP ricalca in parte quella dell'accertamento tecnico preventivo nelle controversie in materia di invalidità, cecità e sordità civili, handicap e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità, di cui all'art. 445-bis c.p.c., introdotto dall'art. 38 d.l. n. 98/2011, convertito con l. n. 111/2011, modificato dalla l. n. 183/2011.

In entrambi i casi infatti il procedimento è previsto come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nei confronti dei danneggianti ed è diretto ad acquisire elementi di prova direttamente rilevanti nel successivo eventuale giudizio di “merito” e, in questo senso, può essere considerato una vera e propria “anticipazione” del tempo di espletamento della consulenza tecnica d'ufficio, che dei giudizi in esame, costituisce accertamento istruttorio ineludibile (così C. cost., 22 ottobre 2014, n, 243 a proposito dell'ATP, ex art. 445-bis c.p.c.).

Va peraltro subito evidenziata una prima differenza tra i due istituti.

L'art. 445-bis c.p.c. infatti riguarda liti in cui l'unico punto controverso è costituito da un elemento di fatto che può essere accertato solo attraverso una consulenza tecnica, anche se la Suprema Corte ne ha limitato l'ammissibilità ai casi in cui sussistano tutti i presupposti per il riconoscimento della prestazione previdenziale, quali l'avvio dell'iter amministrativo; l'eventuale presentazione del ricorso amministrativo; la tempestività del ricorso giudiziario (Cass. civ., sez. lav., 27 aprile 2015, n. 8533 e Cass. civ., sez. lav., 4 maggio 2015, n. 8878).

Nelle liti da responsabilità sanitaria invece il contrasto tra le parti attiene quasi sempre anche all'an della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria e proprio per questo motivo una parte della giurisprudenza di merito ha escluso l'utilizzabilità del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. nei casi in cui vi fosse un radicale e profondo contrasto fra le parti sulla esistenza stessa del credito (Trib. Roma, 26 marzo 2015; contra Trib. Verona, 14 gennaio 2016, che invece lo ha ritenuto ammissibile anche nei casi in cui l'indagine abbia ad oggetto crediti da inadempimento contrattuale o extracontrattuale).

Ulteriore peculiarità della disciplina in esame è data dal fatto che, in alternativa all'ATP, è possibile esperire il procedimento di mediazione che l'art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010, dopo la modifica di cui all'art. 84 l. n. 98/2013, già prevedeva, quale condizione di procedibilità delle controversie in tema di responsabilità medica e sanitaria. Non vi è invece possibilità di una interferenza con la negoziazione assistita per le domande risarcitorie fino ad euro 50 mila poiché l'art. 3, comma 1, secondo periodo del d.l. n. 132/2014 esonera dall'espletamento di quel tipo di ADR le domande di pagamento che trovino fondamento in uno dei rapporti per i è quali è prevista la mediazione obbligatoria. Risulta quindi pleonastica la precisazione, contenuta nell'art. 8 della legge Gelli-Bianco che non trova applicazione l'art. 3, d.l. n. 132/2014.

Con specifico riguardo alla definizione dell'ambito di applicazione del nuovo istituto, dal tenore letterale della norma, che menziona «le controversie di risarcimento dei danni», si evince che esso è utilizzabile solo qualora l'attore intenda proporre una domanda risarcitoria e non quindi anche nel caso in cui si intendesse ottenere solo una domanda di accertamento della responsabilità del professionista sanitario. Tale lettura del resto è conforme al canone interpretativo secondo il quale le disposizioni che stabiliscono limitazioni all'accesso alla giustizia vanno interpretate restrittivamente (cfr. Trib. Palermo, sez. dist. di Bagheria, 11 luglio 2011, a proposito della vexata quaestio della soggezione della domanda riconvenzionale a mediazione).

Da ciò consegue che, qualora l'attore avesse interesse alla sola pronuncia di accertamento della responsabilità del professionista sanitario, la sua domanda dovrà essere preceduta necessariamente dalla mediazione.

Deve per contro ritenersi che la disciplina in esame riguardi tutti i casi di responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie e quindi anche quelli derivanti da un rapporto libero professionale, data l'ampiezza dell'espressione utilizzata nello stesso titolo della legge per definire l'ambito di applicazione delle nuove disposizioni.

Da ciò consegue che si potrà verificare una sovrapposizione tra negoziazione assistita e ATP obbligatorio o mediazione nel caso in cui, a fronte della pretesa del professionista sanitario ad un compenso fino ad euro 50 mila, che prima di essere azionata in giudizio dovrà essere preceduta da negoziazione assistita, il cliente-paziente prospetti l'inadempimento del primo e lamenti un danno perché la corrispondente domanda dovrà essere invece preceduta da uno dei procedimenti di cui all'art. 8, qualora si riconosca che anche la riconvenzionale è soggetta a condizione di procedibilità (sul punto, con riguardo alla riconvenzionale fondata su un rapporto per il quale è prevista la mediazione, per la soluzione negativa si è espresso Trib. Palermo, sez. dist. di Bagheria, 11 luglio 2011; mentre per quella positiva si vedano, tra gli altri, Trib. Roma, sez. dist. Ostia, 15 marzo 2012; Trib. Verona, 12 maggio 2016).

Il procedimento

A differenza dell'art. 445-bis c.p.c. che non fissa un termine di durata massima della procedura, il terzo comma dell'art. 8 legge Gelli-Bianco lo individua in quello, espressamente qualificato come perentorio, e come tale ai sensi dell'art. 152 c.p.c., non prorogabile, di sei mesi a decorrere dal deposito del ricorso (si rammenti che il termine per lo svolgimento della mediazione invece è, ai sensi dell'art. 6, comma 1, d. lgs. n. 28/2010, di tre mesi, prorogabili).

Si tratta di una norma che riveste carattere di assoluta novità in quanto stabilisce un termine essenziale per lo svolgimento di un'attività lato sensu processuale.

La ratio di tale disposizione è con tutta probabilità da individuarsi nell'esigenza di contenere i tempi per l'espletamento della ADR, al fine di evitare possibili profili di incostituzionalità della disciplina, tenuto conto dei limiti delineati dalla giurisprudenza costituzionale per le norme che prevedono limiti all'accesso alla giurisdizione. Il giudice delle leggi (C. cost., sent., n. 443/2014) infatti ha collegato la loro legittimità al triplice requisito che il legislatore non renda la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa (negli stessi termini anche la sentenza C. cost., n. 406/1993), che contenga l'onere nella misura meno gravosa possibile e che operi un congruo bilanciamento tra l'esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell'accesso alla stessa intende perseguire (negli stessi termini anche la sentenza C. cost., n. 98/2014).

L'ultimo comma dell'art. 8 stabilisce che la partecipazione personale al procedimento è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione (del professionista sanitario o della struttura in cui si è verificato il fatto illecito), e ciò al fine evidente di assicurare un coinvolgimento dei soggetti che più concretamente possono contribuire alla definizione in via conciliativa della controversia.

Con essa si è forse voluto risolvere il dubbio che, a livello giurisprudenziale, si è presentato riguardo alla necessità della partecipazione effettiva della parte al procedimento di mediazione (per la risposta affermativa, ex plurimis, Trib. Firenze, 19 marzo 2014; contra Trib. Verona, 28 settembre 2016).

La disposizione quindi non consente il conferimento di procure ad hoc, nemmeno in casi particolari che pure potrebbero verificarsi (si pensi all'ipotesi del danneggiato in condizioni di inabilità fisica grave) e risulta vieppiù inopportuna, tenuto conto del termine, non contenuto, di durata del procedimento, perché sembra richiedere la partecipazione a tutte le fasi di esso, e quindi anche agli incontri tra consulenti che dovessero aver luogo, e non al solo esame diretto della parte lesa.

La conseguenza della mancata partecipazione all'ATP sarà la condanna, con il provvedimento che definisce il successivo giudizio (l'uso del tempo indicativo presente induce ad escludere qualsiasi discrezionalità del giudice al riguardo), della parte, pur vittoriosa, che abbia disatteso la prescrizione normativa al pagamento delle spese di consulenza (se conclusa tempestivamente) e di lite, oltre che di una pena pecuniaria. Di questa il legislatore non ha individuato né il minimo né il massimo a differenza di quanto fatto rispetto ad altre ipotesi di analoghe sanzioni costituenti anch'esse declinazioni del principio di causalità (art. 8, comma 4-bis, d. lgs. n. 28/2010; art.13, comma 1-quater, d.P.R. 115/2002), a vantaggio della controparte cha abbia invece partecipato al procedimento.

È necessario poi coordinare questa previsione a quella dell'art. 9, comma 2, che fissa i limiti per l'esercizio dell'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria che non sia stato parte della procedura stragiudiziale poiché in questo caso per partecipazione al procedimento si intende non la partecipazione personale ma l'essere stati convenuto nell'ATP. Una diversa interpretazione sarebbe infatti irragionevole perché consentirebbe al sanitario di sottrarsi agli effetti della domanda svolta nei suoi confronti.

Si stabilisce altresì l'obbligo per tutti i soggetti coinvolti nel procedimento, e non solo per le imprese di assicurazione, di formulare nel corso del procedimento una offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui non intendono formularla. Trattasi quindi di una disciplina derogatoria rispetto a quella dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., che invece riconosce alle parti del giudizio la facoltà di formulare una proposta conciliativa.

Peraltro non è previsto un termine entro il quale la proposta transattiva va avanzata cosicchè deve ritenersi che essa possa essere formalizzata anche nella fase conclusiva del procedimento, purchè prima del deposito tempestivo della relazione che ne costituisce la naturale conclusione.

Qualora invece l'offerta dovesse essere formulata dopo il deposito della relazione il danneggiato avrà comunque modo di valutarla nel termine stabilito per proporre il giudizio di merito.

L'impresa di assicurazione che non abbia formulato una proposta transattiva o che non abbia esplicitato le ragioni per cui non abbia ritenuto di farlo è soggetta, oltre alle conseguenze sopra citate, anche alla segnalazione, da parte del giudice, all'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni ma solo in caso di decisione favorevole al danneggiato (potrà trattarsi anche di una ordinanza ex art. 702-ter c.p.c e non solo di una sentenza secondo il tenore letterale della legge).

Per pronuncia favorevole deve intendersi quella che abbia almeno riconosciuto un risarcimento danno in favore dell'attore atteso che qualora esso fosse stato escluso verrebbe meno il presupposto giustificante la necessità di una proposta conciliativa risarcitoria.

Non è invece previsto che siano valutate le ragioni addotte a sostegno della mancata formulazione della proposta. Qualsiasi motivazione sarà quindi sufficiente a giustificare una simile scelta, come la non condivisione delle conclusioni della CTU o la mancata conclusione di essa e la conseguente impossibilità di conoscere la valutazione del danno.

Peraltro la formulazione di una proposta conciliativa potrà essere opportuna per i danneggianti perché consentirà loro di riversare il carico delle spese, sia dell'Atp che del successivo giudizio, sul danneggiato che la dovesse rifiutare senza giustificato motivo, grazie al meccanismo di cui all'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c..

È dubbio se il predetto obbligo valga anche qualora sia lo stesso CTU a formulare una proposta conciliativa, nell'ambito del tentativo di conciliazione che è abilitato a svolgere ai sensi dell'ultimo periodo del comma 1 dell'art. 696 c.p.c., o se sia necessaria almeno l'adesione da parte dei resistenti ad essa per rispettare la prescrizione.

Le prescrizioni sin qui esaminate non dovranno essere osservate nel caso in cui il danneggiato attivi, invece dell'ATP, la mediazione, non essendo consentita una interpretazione analogica dell'ultimo comma dell'art. 8 che riguarda espressamente la partecipazione al procedimento di consulenza preventiva. Pertanto in tal caso varranno le previsioni contenute nel d.lgs. n. 28/2010.

Il rapporto tra condizione di procedibilità e giudizio di merito e le sue criticità

Il comma 2 della norma, al pari del corrispondente comma dell'art. 445-bis c.p.c. e dell'art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010, terz'ultimo e penultimo comma, in tema di mediazione individua due modalità di sanatoria nel caso in cui nel giudizio di merito venga rilevata, d'ufficio o su eccezione di parte, la mancata realizzazione originaria della condizione di procedibilità, a seconda che l'accertamento tecnico preventivo non sia stato espletato ovvero sia iniziato ma non concluso: nel primo caso il giudice assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dell'istanza, nel secondo fissa analogo termine per il completamento dell'accertamento preventivo.

A differenza dell'ATP obbligatorio del processo assistenziale però, qualora il procedimento non sia stato nemmeno iniziato, il giudice, nell'assegnare il predetto termine, dovrà avere l'accortezza di precisare che esso varrà sia per il deposito dell'istanza di mediazione che per il deposito dell'istanza di ATP, e ciò al fine di assicurare l'effettiva alternatività tra i due istituti. Ancora, l'istanza di ATP andrà presentata allo stesso giudice che tratta il giudizio di merito, con la conseguenza che il successivo procedimento diventerà una fase incidentale di quest'ultimo.

Come è stato già osservato in relazione al disposto riguardante il processo assistenziale il fatto che il giudice rilevi che il procedimento ex art. 445-bis c.p.c. è iniziato ma non si è concluso, implica che le parti possano proporre contestualmente la domanda di consulenza tecnica e quella di merito o che comunque quest'ultima non necessariamente debba essere preceduta dalla presentazione dell'istanza di accertamento tecnico preventivo.

È opportuno precisare che, data la necessità di rispettare il termine perentorio per lo svolgimento dell'ATP, qualora la mancata conclusione di esso venga rilevata nel corso del giudizio di merito, il giudice di questo, prima di assegnare il termine di quindici giorni per il suo completamento dovrà prima verificare, eventualmente acquisendo gli atti relativi non prodotti spontaneamente della parti, che non sia già decorso il termine semestrale.

Alla luce delle indicazioni date dalla Corte Costituzionale circa i limiti delle forme di accesso alla giurisdizione (cfr. infra Il procedimento) la disciplina in esame non si sottrae ad alcuni rilievi di incostituzionalità, avuto riguardo alle conseguenze che l'inosservanza del succitato termine perentorio comporta per l'attore, ipotesi che non appare affatto improbabile, atteso che è facile prevedere che, soprattutto nei casi di accertamenti più complessi, difficilmente quel termine potrà essere osservato.

Orbene, qualora ciò dovesse accadere, la conseguenza non potrà che essere quella della inutilizzabilità nel successivo giudizio degli accertamenti che dovessero essere espletati dopo la scadenza del predetto termine e a fortiori della relazione che fosse stata depositata dopo quel momento, con evidente deroga a quanto previsto dal penultimo comma dell'art. 696-bis c.p.c.

A quel punto si porrà la necessità di rinnovare quelle attività nel giudizio di merito, con conseguente ritardo nell'accertamento dei fatti e aggravio di costi per il danneggiato (si tratterà quantomeno delle spese per l'assistenza difensiva, potendosi dubitare che al ctu che non abbia concluso la sua attività nel termine previsto spetti un compenso), e una simile prospettiva risulta assai poco compatibile con il parametro dell'art. 24 Cost. Si noti poi che a scongiurare le prospettate conseguenze non può certo contribuire la previsione che il giudizio di merito può essere introdotto nelle forme del procedimento sommario di cognizione poiché, anche a fronte della scelta di esso, rimarrà la necessità di espletare ex novo l'accertamento tecnico. Qualora poi i convenuti dovessero contestare l'an della responsabilità, si dovrà dar corso ad una istruttoria orale che renderà altamente probabile la cosiddetta conversione del rito.

Peraltro la previsione summenzionata non vale per le controversie che, in base al loro valore, siano di competenza del giudice di pace, dal momento che la Corte di cassazione (Cass. civ., n. 23691/2011) ha chiarito che il procedimento sommario non possa trovare applicazione in esse.

Nel giudizio di merito potranno essere utilizzati invece gli accertamenti svolti prima della scadenza del termine semestrale ed essi potranno essere valutati, in qualità di CTU, dallo stesso professionista incaricato dell'ATP, non sussistendo ragioni di astensione o ricusazione. Infatti dal combinato disposto degli artt. 51, comma 1, n. 4 e 63 c.p.c. si desume che costituisce causa di ricusazione dell'ausiliario del giudice l'aver svolto l'incarico in una precedente fase di merito dello stesso giudizio di merito.

La previsione in esame risulta anche irragionevole dal momento che parifica, ai fini della scelta del procedimento semplificato, l'ipotesi in cui vi sia stato il tempestivo deposito della relazione del CTU, e a fronte della quale si giustifica la scelta di un giudizio sommario, a quella in cui esso non sia avvenuto o sia stato tardivo e occorra quindi un compiuto accertamento del quantum del danno.

La norma impone poi all'attore di introdurre il giudizio di merito entro il termine, da ritenersi perentorio, di 90 giorni dal deposito della relazione o, qualora ciò non sia avvenuto, dalla scadenza del termine perentorio fissato per la conclusione del procedimento di ATP. Il rispetto di detto termine è richiesto sia per rendere procedibile la domanda sia per «assicurarne gli effetti», espressione invero alquanto generica che pare riferirsi agli effetti della domanda sul termine di prescrizione e su quello di decadenza. Emerge anche qui una vistosa discrepanza sia rispetto alla disciplina del procedimento di ATP del giudizio assistenziale, atteso che l'art. 445-bis, comma 3, c.p.c., attribuisce al deposito della sola richiesta di espletamento dell'accertamento tecnico efficacia interruttiva del termine prescrizionale, sia rispetto al procedimento di mediazione nel quale lo stesso effetto è ricollegato al momento della comunicazione dell'istanza di mediazione (art. 4 d.lgs. 28/2010).

Si noti che queste previsioni consentono l'interruzione della prescrizione di un diritto attraverso l'instaurazione di un procedimento che non ha ad oggetto quel diritto e consentono quindi un effetto altrimenti non raggiungibile in assenza di una espressa previsione normativa.

Stando al tenore letterale della novella quindi solo la proposizione tempestiva del giudizio risarcitorio produce lo stesso risultato a decorrere però dalla notifica (in caso di atto di citazione) o dal deposito (in caso di ricorso) dell'atto introduttivo del giudizio di merito. Tale lettura determina però una disparità di trattamento tra il danneggiato che opti per l'ATP e quello che scelga la mediazione quale procedimento stragiudiziale ante causam. Può allora proporsi una diversa interpretazione secondo cui, con la introduzione del giudizio, l'effetto interruttivo retroagisce al momento del deposito della istanza di ATP.

Essa però non consente di eliminare del tutto la ingiustificata disparità tra le due situazioni poiché il danneggiato che, prima di proporre il giudizio di merito, avesse scelto di attivare la mediazione, in caso di mancato esito conciliativo di essa, non dovrà osservare nessun termine per proporre il giudizio di merito a differenza di colui che abbia optato per l'ATP e che, a ben vedere, dovrà osservare una doppia condizione di procedibilità: l'attivazione del procedimento di ATP e, una volta concluso lo stesso, il rispetto del termine per proporre il giudizio di merito.

Piuttosto che introdurre subito il procedimento di ATP è allora forse preferibile promuovere, in alternativa alla mediazione, direttamente il giudizio di merito, senza nemmeno avanzare contestuale istanza di ATP, ma attendendo che la necessità di essa sia eccepita dalla controparte o rilevata ex officio dal giudice. Una simile scelta infatti consente di interrompere il termine di prescrizione del diritto, anche se vanifica la finalità deflattiva che il nuovo istituto mira a realizzare.

(FONTE: www.ilprocessocivile.it)

Guida all'approfondimento

LICCI, Il nuovo accertamento tecnico preventivo obbligatorio nelle controversie previdenziali: l'occasione mancata per l'ottenimento rapido di un titolo esecutivo ?, in www.judicium.it;

MONTELEONE, Il recente art. 445 bis c.p.c. tra antinomie sistemiche e prospettive razionalizzanti, in www.judicium.it;

GIORDANO, MASONI, VACCARI, Arbitrato deflattivo, mediazione, negoziazione assistita, Milano 2016, 119 – 123; 316 – 323.

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