Il caso. Su ricorso del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio venivano emesse a carico dei legali rappresentanti di una società, anche ai sensi dell'art. 18, L. n. 349/1986, due ingiunzioni di pagamento aventi ad oggetto le somme dovute a titolo di risarcimento del danno ambientale, provocato dall'immissione di prodotti verniciati in una canaletta adiacente la fabbrica ove la società svolgeva la propria attività. Gli ingiunti presentavano rituali opposizioni che venivano accolte dal Tribunale adito, secondo il quale il Ministero non aveva assolto l'onere probatorio sulla permanenza del danno ambientale dopo il risarcimento in forma specifica già operato dagli opponenti, che avevano riportato la canaletta nelle condizioni originarie.
Il Ministero proponeva appello contro le sentenze, ma la Corte territoriale confermava le pronunce di primo grado, ritenendo comprovata la riduzione in pristino sulla base della c.t.u., e dunque escludendo il pericolo di inquinamento idrico e ambientale e di perdite temporanee. Ricorreva così in Cassazione il Ministero e il giudizio di legittimità veniva definito con la sent. n. 16806, depositata il 13 agosto 2015.
La Suprema Corte ha ritenuto che, anche in ragione del recepimento della Dir. 2004/35/CE, debba considerarsi espunta dall'ordinamento italiano la risarcibilità per equivalente del danno ambientale e dunque debbano considerarsi legittimi solo gli interventi di recupero o riparazione (suddivisi in primaria, complementare e compensativa), valutati alla luce dei numerosi e differenziati interessi coinvolti (generali e particolari, ma mai soltanto economici o patrimoniali in senso stretto), facenti capo ad una collettività potenzialmente indeterminabile ex ante.
Si deve così escludere qualsiasi danno ambientale residuale economicamente quantificabile e dunque risarcibile (in forma specifica o per equivalente), ogniqualvolta, a fronte della riduzione in pristino, non emerga la necessità di far eseguire ulteriori interventi sul territorio inquinato o danneggiato, e in caso di inerzia dei danneggianti, questi potranno essere condannati solo al rimborso dei costi dei predetti interventi.
In conformità ai principi comunitari richiamati, la Cassazione ha statuito che il Giudice della domanda di risarcimento del danno ambientale ancora pendente alla data di entrata in vigore della L. 6 agosto 2013, n. 97, dovendosi ritenere esclusa la liquidazione per equivalente, può pronunciarsi sulla domanda in applicazione del nuovo testo dell'art. 311, D. lgs. 152/2006, come modificato dall'art. 5-bis, comma 1, lett. b), D. l. n. 135/2009 e poi dall'art. 25, L. n. 97/2013, individuando le misure di riparazione primaria, complementare e compensativa, e in caso di omessa o imperfetta loro esecuzione
,
determinarne il costo e condannare i
soggetti obbligati al rimborso dello stesso.
Infatti, anche qualora l'evento-danno si sia verificato in un tempo risalente, la tutela dell'ambiente deve essere valutata al momento della pronuncia, e possono dunque essere applicati gli strumenti riparatori vigenti a quella data.