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09 Ottobre 2015

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Il diritto alla prova si concretizza nel potere di ciascuna parte di ricercare le fonti di prova, di chiedere l'ammissione del relativo mezzo, di partecipare alla sua assunzione e, quindi, di conseguire la valutazione del risultato nei termini fissati dalle regole della decisione.

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Il procedimento probatorio si sviluppa in tre fasi: quella dell'ammissione, dell'assunzione e della valutazione della prova. Prima di queste fasi, come già anticipato in precedenza, assume un certo rilievo l'attività di ricerca della prova che costituisce la premessa del procedimento probatorio.

Non vi sono dubbi sul fatto che il potere di ricercare prove spetta in primo luogo al pubblico ministero che, nella sua veste di dominus delle indagini preliminari, è chiamato all'esito delle indagini a sciogliere la riserva se esercitare l'azione penale o richiedere l'archiviazione del procedimento (art. 112 Cost.; art. 326 c.p.p.). Come noto, sull'organo inquirente grava l'onere della prova, vale a dire la dimostrazione della fondatezza dell'ipotesi accusatoria, fermo restando il suo dovere di raccogliere anche elementi “a favore della persona sottoposta alle indagini” come stabilito dall'art. 358 c.p.p.

Analogo potere di ricerca, volto in questo caso alla confutazione degli elementi di accusa, è assegnato alla difesa dell'indagato, su cui grava l'opposto onere di allegare fatti e circostanze raccolti anche mediante investigazioni difensive sin dalla fase delle indagini preliminari (art. 327-bis c.p.p.), così da convincere il giudice circa l'infondatezza dell'imputazione.

A ben vedere questo potere di ricerca assegnato alla difesa è espressione del più ampio “diritto di difendersi provando”, già in passato riconducibile al diritto di difesa (art. 24 Cost.) ed oggi inquadrabile nel diritto alla prova riconosciuto all'imputato dall'art. 111 Cost. nelle varie forme che connotano il contraddittorio “forte”; e cioè, in posizione di parità con l'accusa, nell'esercizio dei diritti a preparare la difesa al confronto con le persone che rendano dichiarazioni a suo carico ed all'introduzione nel processo di quelle a sua difesa e di acquisire ogni altro mezzo di prova a suo favore.

Un passaggio nodale verso il rafforzamento del ruolo difensivo in ambito investigativo è rappresentato, indiscutibilmente, dalla legge del 7 dicembre 2000, n. 397 che, da un lato, ha introdotto nel codice di rito l'art. 327-bis e gli artt. 391-bis e ss. e, dall'altro, ha soppresso l'inadeguato art. 38 delle disposizioni attuative. La norma abrogata aveva carattere programmatico ed era del tutto inadeguata a soddisfare alcuni fondamentali aspetti dell'attività investigativa, quali la regolamentazione delle forme, dei tempi, dei poteri del difensore e della valenza dei relativi atti. A ciò va aggiunto che l'evidente inadeguatezza del vecchio impianto normativo, con il tempo, andò addirittura peggiorando a causa di prassi regressive, che canalizzavano sul pubblico ministero, monopolista delle indagini, ogni risultato di tale attività e negavano qualsiasi apertura rispetto ai poteri di documentazione ed alle prospettive di utilizzabilità processuale delle dichiarazioni raccolte dalla difesa. Con la legge del 2000, invece, è stata fornita una più dettagliata disciplina dei poteri investigativi del difensore, colmando quelle grossolane lacune presenti nel vecchio art. 38 disp. att. Anzi, è possibile affermare che, con tale intervento normativo, il legislatore ha cercato di dotare la prova dichiarativa, individuata e raccolta dal difensore, della medesima dignità probatoria di quella individuata e raccolta dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria.

L'art. 190, comma 1, c.p.p., in piena armonia con i principi del giusto processo, attribuisce alle parti un vero e proprio diritto alla prova, manifestando una chiara propensione per il principio dispositivo.

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In realtà, dal capoverso dell'art. 190 c.p.p. traspare la natura “attenuata” di tale principio, laddove sono riconosciuti poteri probatori al giudice, seppur azionabili solo in via eccezionale e a determinate condizioni. Preme, tuttavia, precisare che a tale soggetto non è concesso di sostituirsi completamente alle parti ma solo di intervenire in funzione integrativa o di completamento di un percorso cognitivo da altri già chiaramente configurato. Così, al cospetto di un compendio probatorio lacunoso ed integrabile, il giudice non può applicare direttamente la regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio, ma deve intervenire esercitando i propri poteri officiosi. Al riguardo, la Corte Costituzionale ha escluso che nell'articolo 507 c.p.p. sia configurabile una reale deroga al principio dispositivo, posto che il potere probatorio ivi previsto può essere esercitato dal giudice sia d'ufficio che su istanza di parte (Corte Cost., 26 febbraio 2010, n. 73).

È piuttosto evidente che il principio dispositivo è finalizzato a salvaguardare la “terzietà del giudice” intesa non solo come divieto di svolgere contemporaneamente o successivamente le funzioni di giudice e di parte ma anche come neutralità metodologica nella ricostruzione del fatto.

Ricapitolando, quindi, diritto alla prova significa anche diritto a vedere ammessa e correttamente assunta la prova. Sulle parti grava un “onere formale” consistente nel dovere di introdurre elementi di prova idonei a convincere il giudice circa la fondatezza della propria tesi. In caso di inerzia probatoria, però, il giudice può recuperare ex art. 507 c.p.p. la prova di cui non è sia chiesta l'ammissione laddove assolutamente necessaria. Non bisogna confondere tale onere con quello “sostanziale della prova” che grava – in virtù della presunzione di non colpevolezza – sulla pubblica accusa qualora all'esito del processo il giudice non ritenga provata l'esistenza del fatto di reato.

La titolarità del diritto alla prova è attribuita alle parti e non ai soggetti eventuali (come la persona offesa). Sull'argomento, si è pronunciata anche la Corte costituzionale che ha chiarito che la mancata assimilazione dei poteri della persona offesa a quelli dell'indagato e del pubblico ministero non viola né il diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost., né il principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. in quanto risponde all'esigenza di trattare in “maniera adeguatamente diseguale situazioni diseguali” oltre che alla “discrezionalità del legislatore nel modulare la configurazione della tutela della persona offesa in vista delle necessità proprie del processo penale e delle esigenze di speditezza di quest'ultimo” (Corte cost., 10 ottobre 2008, n. 339).

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Come rilevato in dottrina, il diritto delle parti alla prova fa leva su due diverse previsioni costituzionali: l'obbligo di esercizio dell'azione penale, imposto al pubblico ministero dall'art. 112 Cost. e l'inviolabile diritto di difesa, garantito alla parte privata in ogni stato e grado del procedimento dall'art. 24 Cost. (Dell'Anno, Officialità per la prova e neutralità della giurisdizione, Torino, 2008).

Nell'alveo del diritto alla prova va senza dubbio ricompreso anche quello alla “prova contraria”, intesa come quella che tende a negare l'esistenza del fatto affermato dalla prova principale, che si iscrive a pieno titolo nella definizione del procedimento probatorio. Esso concerne sia le prove ammesse su richiesta di una parte, sia quelle disposte officiosamente dal giudice. L'esercizio del diritto alla prova contraria può concretizzarsi anche con l'indicazione di un mezzo di prova diverso da quello oggetto di contestazione e prescinde dal vaglio di pertinenza, in quanto attiene ai medesimi fatti di cui alla prova principale, mentre non sfugge al giudizio di rilevanza, che in tal caso discende direttamente dalla idoneità della prova richiesta ad incidere sul grado di rappresentatività probatoria dell'opposta prova in confutazione. Il diritto alla prova contraria è riconosciuto solo alle parti necessarie del processo e, sul punto, la Corte delle leggi ha giustificato il diverso trattamento tra parti necessarie ed eventuali sulla base del fatto che anche l'imputato non ha diritto alla controprova sui fatti oggetto delle prove in ordine alla responsabilità civile, introdotte dalla parte civile (Corte Cost., 29 dicembre 1995, n. 532).

L'attuale assetto normativo prevede espressamente tale diritto sia in capo all'imputato che ha diritto all'ammissione “delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico”(art. 495, comma 2, c.p.p.); sia in capo al pubblico ministero che ha analogo diritto “in ordine alle prove a carico dell'imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico”.

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In linea con tale principio la giurisprudenza ha affermato che la parte che abbia omesso di depositare la lista dei testimoni nel termine di legge può chiedere la citazione a prova contraria dei testimoni, periti e consulenti tecnici, poiché il termine perentorio per il deposito della lista dei testimoni è stabilito, a pena di inammissibilità, dall'art. 468, comma 1, c.p.p. soltanto per la prova diretta e non anche per quella contraria. L'opposta soluzione vanificherebbe, infatti, il diritto alla controprova, il quale costituisce espressione fondamentale del diritto di difesa (Cass. pen., Sez. V, 2815/2013).

La prima fase del procedimento probatorio, quella cioè della ammissione dei mezzi di prova, è riservata alle parti e sulle loro richieste decide il giudice attenendosi ad alcuni specifici parametri.

Innanzitutto, il criterio prescelto dal legislatore per circoscrivere l'oggetto di prova è quello della “pertinenza”, inteso come interrelazione logica e funzionale tra il fatto giuridico oggetto di imputazione e i fatti oggetto di prova.

Alla nozione di pertinenza si affianca quella di “rilevanza” che concerne l'idoneità della prova (necessariamente pertinente) a fungere da strumento del giudizio; in quest'ottica, il concetto di rilevanza delimita non l'oggetto ma le fonti di prova, nel senso della loro capacità di confermare la verosimiglianza dei fatti addotti.

Le prove di cui si può chiedere l'ammissione, inoltre, non devono essere vietate dalla legge (come, ad esempio, l'escussione di un teste sottoposto ad ipnosi), né manifestamente superflue (si pensi, emblematicamente, alla richiesta di escutere un numero elevato di testimoni chiamati a riferire sulle medesime circostanze).

Nel corso dell'istruttoria dibattimentale, l'acquisizione progressiva degli elementi probatori introdotti dalle parti potrebbe far ritenere ex post talune prove già ammesse superflue (come nel caso di circostanza già provata) o irrilevanti (come nel caso in cui ci si avveda che il tema di prova non è pertinente con l'oggetto dell'imputazione). In questo caso, è consentito al giudice di revocare l'ammissione di prove superflue o irrilevanti nel chiaro intento di salvaguardare il principio di economia processuale. Analogamente, può ammettere prove che erano state escluse. Tutto ciò però può aver luogo solo dopo aver preventivamente stimolato un contraddittorio tra le parti (art. 495, comma 4, c.p.p.).

Giova, altresì, segnalare che la legge 397 del 2000 ha introdotto nell'articolo 495 c.p.p. il comma 4-bis che consente a ciascuna parte, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, di rinunziare all'assunzione delle prove ammesse a sua richiesta, previo consenso dell'altra parte. È stata, così, introdotta la “rinuncia alla prova” che costituisce una manifestazione normativa del diritto alla prova subordinata al consenso delle altre parti. Tale consenso è necessario in quanto la prova, una volta ammessa dal giudice nel processo, non è più ritenuta di proprietà della parte richiedente ma rientra nel patrimonio del processo.

Per quanto concerne la seconda fase del procedimento probatorio, occorre precisare che le modalità di assunzione o di acquisizione della prova sono dettate dal codice in relazione ai diversi mezzi di prova. Così, ad esempio, il documento viene acquisito mediante deposito mentre la testimonianza viene assunta attraverso una attività di escussione del teste.

L'assunzione della prova deve avvenire nel pieno rispetto del principio del contraddittorio che rappresenta il miglior modo per consentire un processo effettivamente e concretamente partecipato dai protagonisti. Tale regola è sancita al comma 4 dell'art. 111 Cost. secondo cui “la prova si forma in contraddittorio” tra le parti ma al comma successivo sono previste alcune eccezioni in virtù delle quali all'atto di indagine si affianca un altro elemento che consente di trasformarlo in prova (consenso, condotta illecita, irripetibilità).

Per una effettiva e concreta realizzazione del contraddittorio sono imprescindibili altri due principi: quello dell'oralità e quello dell'immediatezza. Il primo rappresenta le modalità mediante cui si sviluppa il metodo dialogico di formazione della prova e costituiscono eccezioni a tale principio le letture dibattimentali. Il secondo, contenuto nel capoverso dell'art. 525 c.p.p., consente ai soli giudici che hanno partecipato alla formazione della prova e allo sviluppo dialettico del processo di emettere la sentenza. Anche se il principio d'immediatezza non è espressamente richiamato nell'art. 111 Cost., esso costituisce un valore essenziale del giusto processo, costituendo categoria indispensabile del rapporto dialettico tra parti e giudice.

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Tale attività di assunzione assume un certo rilievo anche per un altro aspetto: impegna giudice e parti ad effettuare le prime valutazioni. Più precisamente, si intende affermare che la funzione valutativa – che trova il suo momento clou ad istruzione probatoria ultimata – è condizionata da giudizi già formati, o quantomeno orientati, dall'attività di assunzione.

Da quanto sin qui rilevato, si comprende che un dato probatorio può entrare in dibattimento solamente se ammesso e assunto nel pieno rispetto delle regole probatorie e che le prove costituiscono materiali su cui avviene la verifica dell'imputazione.

Lo step successivo è quello della valutazione dell'intero quadro probatorio, le cui regole sono fornite dall'art. 192 c.p.p. Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, è innegabile che la decisione risulta fortemente condizionata dal modo attraverso cui il dato probatorio si forma e dalla sua valutazione.

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Nonostante il legislatore non abbia operato alcun esplicito richiamo al principio del libero convincimento del giudice, tale principio governa l'intera area dedicata alle prove. Così, in un sistema processuale che ripudia le “prove legali”, la valutazione del giudice non conosce costrizioni, ma soltanto criteri guida nei casi espressamente previsti dai commi 2, 3 e 4 dell'art. 192 c.p.p.

Ciò che, invece, grava sul giudice è l'obbligo di motivare razionalmente i provvedimenti che emette e, quindi, di rendere ragione della razionalità dell'itinerario mentale percorso per giungere alla decisione, ponendo così le premesse per il controllo successivo sulle linee di formazione del suo convincimento. Ciò significa che il principio del libero convincimento non fornisce al giudice un potere sconfinato ed incontrollabile, dovendo tale soggetto sempre rispettare le norme che disciplinano la valutazione delle prove (art. 192 c.p.p.) e la motivazione della sentenza (art. 546, comma 1 lett. e), c.p.p.). Ne consegue che se la valutazione probatoria non è razionale e la ricostruzione del fatto non è conforme ai canoni della logica o non è aderente alle risultanze processuali, si offrono alle parti “motivi” su cui fondare ed argomentare l'impugnazione della sentenza.

Non va, poi, trascurato che la fase della valutazione è una attività intellettuale svolta dall'organo giudicante, soggetto indiscutibilmente influenzato dalla sua cultura, dalla sua sensibilità morale e politica, dalle sue ideologie, dall'educazione e da altri fattori significativi.

In altre parole, quindi, il giudice è libero di convincersi ma è obbligato a motivare razionalmente le proprie decisioni. In questo modo, non possono trovare ingresso nel nostro ordinamento né il verdetto immotivato né il riconoscimento senza limiti del principio del libero, arbitrario, soggettivo e insindacabile convincimento. Insomma, la motivazione diventa la linea di confine del libero convincimento e dovrebbe impedire al giudice di fuggire dalla propria razionalità.

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Inoltre, l'art. 192 c.p.p. non si limita a fissare gli snodi principali del congegno decisorio rimesso al giudice, ma traccia al suo interno l'iter delle acquisizioni probatorie che possono essere ritualmente poste a fondamento della decisione.

Così, la valutazione probatoria non è solo considerata nel suo aspetto “statico” – di un giudizio guidato – ma piuttosto nella sua vocazione “dinamica” di un percorso che il giudice deve compiere per pervenire, nel giusto processo, ad una giusta decisione. Non può considerarsi soddisfatto questo “onere di motivazione” se il giudice si limita ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi di prova senza pervenire a quella valutazione unitaria che è principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni dettati dalla norma stessa; in questa prospettiva, il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme, non in modo parcellizzato ed avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una ricostruzione logica, armonica e consonante che permetta di attingere la verità processuale. (Cass. pen., Sez. un., 33748/2005). A ciò va aggiunto che il libero convincimento – nella sua accezione più garantista – si realizza sulla base delle prove formate nel rispetto della legge processuale.

È molto importante inoltre che, in sede decisionale, il giudice tenga sempre conto delle regole sancite nella Carta costituzionale e nel codice: la presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.), oggi trasformata in presunzione di innocenza; il diritto al contraddittorio, essenziale per confutare le tesi delle altre parti del processo; l'obbligo di motivare adeguatamente e razionalmente la sentenza emessa (art. 111, comma 6, Cost.); l'obbligo di mandare assolto l'imputato qualora la colpevolezza non risulti provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533, comma 1, c.p.p. modificato dalla legge n. 46/2006); il rispetto del principio di immediatezza secondo cui “alla deliberazione concorrono, a pena di nullità, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”.

Tornando all'art. 192 c.p.p., i criteri adottati dal giudice devono essere indicati in sentenza in quanto, così facendo, si garantisce la pubblicità del ragionamento e la controllabilità della coerenza argomentativa e della congruità sostanziale, vale a dire la sua ragionevolezza. Tra questi criteri rientrano le leggi scientifiche e le massime di esperienza.

Le prime vengono, ormai, sempre più utilizzate nell'accertamento del fatto ed in particolar modo del nesso di causalità che lega la condotta all'evento; il giudice spesso si affida a soggetti che posseggono conoscenze specialistiche in una determinata disciplina ed è per questa ragione che oggi nelle aule di giustizia si ricorre sempre più spesso al contributo del perito e del consulente tecnico. Se è corretto affermare che il contraddittorio generalmente inteso è il miglior metodo di ricostruzione del fatto, il contraddittorio tra gli esperti, sempre nell'ambito del processo, costituisce la pratica attuazione del fondamentale strumento euristico della spiegazione e della falsificazione. Le leggi scientifiche sono quelle che esprimono una relazione certa o statisticamente significativa tra due fatti della natura ed hanno le caratteristiche della generalità, della sperimentabilità e della controllabilità.

Le massime di esperienza, invece, sono formulabili da ogni persona sana di mente e di media cultura e fondano un ragionamento dalla struttura tipica del sillogismo, dialettico e teorico, del quale costituiscono la premessa maggiore (la premessa minore è la circostanza indiziante), di natura probabilistica, basata sull'id quod plerumque accidit. Poiché la premessa è soltanto probabile, anche la conclusione del ragionamento del giudice è più o meno probabile.

Anche se il giudice ha un potere di valutare liberamente le prove, la possibilità di evitare efficacemente la inammissibile caduta nell'arbitrio, fonda certamente sulla individuazione di una fonte normativa che determini in maniera trasparente e chiaramente percepibile dall'interprete lo standard probatorio minimo richiesto per la emanazione di una sentenza di condanna e, conseguentemente, per il superamento della presunzione costituzionale di non colpevolezza che necessariamente, attribuendo al pubblico ministero l'onere della prova, impronta la decisione giurisdizionale in ogni caso di dubbio, imponendo in tale ipotesi una pronuncia liberatoria. È stata, difatti, introdotta nel nostro ordinamento dalla legge n. 46 del 2006 (legge Pecorella) la regola che correla appunto l'emanazione di una sentenza di condanna quando la responsabilità dell'imputato è dimostrata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ciò significa che è chiesto al giudice di verificare scrupolosamente la fondatezza dell'accusa mossa all'imputato prima di condannarlo.

Analogamente, il legislatore all'art. 192, commi 2, 3 e 4, c.p.p. sancisce una sorta di esclusione del materiale conoscitivo in mancanza di taluni presupposti: quelli della gravità, precisione e concordanza per gli indizi e quelli dei “riscontri esterni”, vale a dire di ulteriori elementi che ne confermino l'attendibilità, per le dichiarazioni di imputati di reati connessi o collegati.

Con riferimento al riscontro, giova segnalare che esso deve essere capace di confermare, dall'interno, la credibilità della fonte e, dall'esterno, la sua attendibilità rispetto al fatto ed alla posizione specifica del soggetto cui si riferisce. Tali riscontri devono, cioè, confermare la credibilità intrinseca ed avere una rilevanza estrinseca ed individualizzante.

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Preme assolutamente chiarire che in questi casi al giudice non è assolutamente imposto come valutare la prova ma solo cosa deve valutare.

Infine, più complessa sembra essere la valutazione della prova scientifica, dal momento che il giudice potrebbe imbattersi in un duplice pericolo: rimettersi completamente al dictum dell'esperto di turno finendo con il sottrarsi alla propria funzione giurisdizionale oppure assume la veste di peritus peritorum pur essendo, nella maggior parte dei casi, privo delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche richieste per esprimere determinate valutazioni. occorre, sin da ora, chiarire che le regole di valutazione sono le medesime previste per qualsiasi altra prova. Tutto ruota intorno alla “motivazione razionale” tale da scongiurare un verdetto arbitrario ed incontrollabile.

In particolare, può discostarsi dalle conclusioni dell'esperto perché egli è chiamato a valutare, ancor prima che il risultato della perizia, il metodo con il quale l'esperto vi è pervenuto e, di conseguenza, il compito del giudice non è tanto analizzare nel merito ciò che l'esperto asserisce, quanto capire su quale base egli perviene a tale asserto. Questa costituisce una peculiarità propria del sistema processuale di stampo accusatorio. Pertanto, in un sistema così strutturato, il giudice deve operare una scelta tra le diverse e contrastanti tesi del perito e dei consulenti tecnici, dandone “adeguatamente” conto in motivazione. Nel far ciò, preme assolutamente rilevarlo, è chiamato a valutare la reale capacità dell'esperto ad espletare l'incarico ricevuto, senza creare corsie preferenziali per l'operato del perito – che è da lui stesso nominato – rispetto all'operato dei consulenti tecnici di parte. In quest'ottica, infatti, il confronto delle tesi fornite dagli esperti deve avvenire assicurando ai massimi livelli il principio del contraddittorio come previsto dall'art. 111 Cost. Così facendo, il contraddittorio trasforma il processo da strumento di potere a strumento di sapere.

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