Danno non patrimoniale: risposte semplici ai soliti dilemmi

21 Aprile 2016

Sulle controverse questioni trattate nel Focus del Direttore scientifico dr. Damiano Spera "Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?", Ridare ha deciso di aprire un "Forum" con la partecipazione di autorevoli giuristi cultori della materia. Il quinto intervento che pubblichiamo è a firma dell'avvocato Marco Bona.
Premessa

In questo contributo si sostiene quanto segue:

  • il novero dei contenuti del danno non patrimoniale è necessariamente aperto;
  • è una categoria omnicomprensiva, tranne allorquando per via legislativa e/o giurisprudenziale vengano frapposte limitazioni alla sua portata risarcitoria;
  • le sue sotto-categorie (danno biologico e danno morale innanzitutto) hanno valenza normativa (non solo descrittiva) e permettono di realizzare obiettivi fondamentali;
  • la prova di una “sofferenza interiore” non costituisce un requisito imprescindibile, semmai tale fattore incide in sede di personalizzazione;
  • il legislatore, perlomeno in relazione ai danni alla persona e da uccisione, non può soppiantare il principio, costituzionalmente fondato, della riparazione integrale.
Quali sono i contenuti del danno non patrimoniale?

Il danno non patrimoniale - quale categoria che racchiude tutti i pregiudizi (naturalisticamente intesi) che si contrappongono, in termini fenomenologici e giuridici, a quelli che ricadono nella categoria del danno patrimoniale - comprende tutte le alterazioni negative, soggettive ed oggettive, che una persona, innanzitutto a livello morale e/o biologico, subisce e/o patirà per effetto ed a seguito di un evento legittimante la sua tutela risarcitoria.

Invero, qualsiasi elencazione delle conseguenze, che, sul piano fenomenologico, possono ricadere in questa categoria, non può che avere valenza soltanto esemplificativa: come già nel 1821 osservava Melchiorre Gioia, vengono in rilievo tanto le «alterazioni dell'animo» che quelle dell'«esistenza fisica» e dell'«esistenza morale», in breve tutto ciò che costituisce una «espropriazione di felicità», ossia «una distruzione di valori sociali».

Questa impostazione è condivisa pure a livello internazionale: in commento al comma 2 dell'art. 7.4.2 («Risarcimento integrale») dei Principi dei contratti commerciali internazionali,predisposti dall'UNIDROIT, si precisa, con un'elencazione volutamente non esaustiva, che il danno non patrimoniale «può consistere nel dolore e sofferenza, nella perdita di agi della vita, nel pregiudizio estetico, ecc., come pure del danno derivante dalle lesioni all'onore o alla reputazione»; ancora più ampia è la definizione fornita dall'Avvocato Generale Nils Wahl in Petillo (Cgue, Sez. II, 23 gennaio 2014, C-371/12): la categoria «danno non patrimoniale» si riferisce «alle perdite che non hanno un rapporto con il patrimonio, la ricchezza, o il reddito di una persona e che, come tali, non possono essere quantificate in maniera oggettiva con riferimento ad un prezzo o ad un valore di mercato».

Aggettivi indubbiamente efficaci per descrivere i pregiudizi sostanzianti il danno non patrimoniale sono quelli ormai arcinoti: “morali”, “biologici” ed “esistenziali”.

Il danno non patrimoniale è categoria omnicomprensiva?

Certamente, nel senso sopra indicato, lo è. Semmai non lo sono le sue varie sotto-categorie (o voci o componenti) di formazione legislativa e/o giurisprudenziale/dottrinale: innanzitutto, il danno biologico ed il danno morale.

Uno dei macroscopici errori, in cui sono cadute le Sezioni Unite dell'11 novembre 2008 (come pure Corte cost., 16 ottobre 2014, n. 235), è proprio quello di avere falsamente rappresentato il danno biologico (invece che il danno non patrimoniale) alla stregua di una categoria omnicomprensiva, tra l'altro nonostante il legislatore del 2001 avesse inteso il danno biologico nel senso di non includere il danno morale (sicché è corretta quella giurisprudenza che ha superato la fallace idea del “danno biologico omnicomprensivo”; cfr. ancora da ultimo: Cass. civ., Sez. III, 13 gennaio 2016, n. 339, Cass. civ., Sez. III, 27 agosto 2015, n. 17209; Cass. civ., Sez. III, 30 luglio 2015 n. 16197; Cass. civ., Sez. III, 9 giugno 2015, n. 11851; queste pronunce hanno ribadito, anche in relazione agli artt. 138 e 139 Cod. Ass., la non continenza, non soltanto ontologica, nel sintagma “danno biologico” anche del danno morale; si condivide, pertanto, anche la posizione di A. Penta, Alla ricerca del giusto punto di equilibrio tra l'integrale risarcimento del danno ed il rischio di duplicazioni risarcitorie, in Ri.Da.Re.: «la considerazione delle sofferenze emotive non si presta ad essere recuperata in sede di mera personalizzazione del danno biologico»).

Ciò posto, occorre, però, puntualizzare quanto segue: il danno non patrimoniale, così come innanzi inteso, cessa inesorabilmente di essere categoria omnicomprensiva nel momento in cui il legislatore e/o la giurisprudenza pongono in essere operazioni tali da privarlo, in concreto, di tale portata.

Si pensi ai seguenti due esempi:

  • “vecchio” art. 2059 c.c.: prima della svolta del 2003, allorquando intervenne l'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. (cfr. Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233, Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828), il danno non patrimoniale costituiva una categoria alquanto misera contrapposta, sia per contenuti che per condizioni di risarcibilità, in primis alle categorie, eppure anch'esse riferite a pregiudizi non pecuniari, del danno biologico e del danno esistenziale (suscettibili di riparazione, tanto ex art. 2043 che in seno alla rc da inadempimento, a prescindere dalla sussistenza o meno di una fattispecie di reato);
  • trasformazione delle tabelle monetarie di cui agli artt. 138 e 139 Cod. Ass. – concepite dal legislatore con riferimento ai soli danni biologici “statici” – in tabelle per la liquidazione del “danno non patrimoniale” (cioè di tutti i pregiudizi non pecuniari), tuttavia senza previ ed adeguati incrementi dei valori di base per contemplare anche i profili “morali” standard (questa la prospettiva con il “DDL concorrenza”); infatti, è del tutto evidente come in questa ipotesi i valori del danno non patrimoniale sarebbero falsamente omnicomprensivi (continuando, invece, in concreto a riferirsi al solo danno biologico “statico”); ossia si tratterebbe di un “falso” danno non patrimoniale omnicomprensivo.

Va, altresì, rimarcata la possibilità che un medesimo fatto illecito od inadempimento incida su beni differenti (per esempio, integrità psicofisica e reputazione). In tali casi (soprattutto laddove per la riparazione convenzionale di determinati beni operino criteri specifici e magari pure con limiti alla personalizzazione del quantum di base) il danno non patrimoniale liquidato per una delle perdite subite dal danneggiato potrebbe risultare inidoneo a risarcirlo per le altre perdite. Orbene, per eventualità del genere il principio di onnicomprensività danno non patrimoniale non può ostare a liquidazioni separate. Per esempio, Cass. civ. Sez. III, 8 maggio 2015, n. 9320 (con relatore Rossetti), sottolineando la valenza giuridica della diversità, nel caso di uccisione del congiunto, corrente tra, da un lato, la «perdita della serenità derivante dal vincolo familiare» e, dall'altro, la «perdita della salute» alla luce del fatto che, per l'appunto, «salute e serenità familiare sono … beni oggettivamente diversi», ha ribadito che tali perdite devono liquidarsi separatamente «in applicazione del precetto di cui all'art. 1223 c.c., che impone una liquidazione parametrata alla “perdita subita”» e che una «liquidazione congiunta ed indistinta del risarcimento dei danno biologico e di quello da lutto, oltre a violare l'art. 1223 c.c., è viziata da un secondo errore di diritto, costituito dal fraintendimento della nozione di “unitarietà del danno non patrimoniale”, per come affermata da Sez. Un. 26972/2008», giacché «la nozione di “unitarietà” della liquidazione del danno non patrimoniale vuol dunque dire che lo stesso danno non può essere liquidato due volte sol perché lo si chiami con nomi diversi; ma non vuol certo dire che quando l'illecito produca perdite non patrimoniali eterogenee, la liquidazione dell'una assorba tutte le altre. E' l'omogeneità delle perdite concrete derivate dall'illecito che impone la liquidazione unitaria, e non la natura non patrimoniale dell'interesse leso».

Quale valenza hanno le sotto-categorie?

Non si condividono gli interpreti che asseriscono la valenza soltanto “descrittiva” delle sotto-categorie del danno non patrimoniale. Infatti, il legislatore le ha trasformate in categorie del diritto positivo, peraltro, sul fronte dei danni alla persona, ponendole alla base degli “speciali” criteri di quantificazione.

Ciò è pacificamente comprovato dalle molteplici disposizioni che distinguono fra «danno biologico» e «danno morale», o, comunque, implicano, anche storicamente, tale differenziazione (da sempre rilevata pure a livello medico-legale).

Ecco alcuni esempi:

  • artt. 138 e 139 Cod. Ass.: queste norme e le tabelle ivi richiamate, per espressa volontà del legislatore del 2001, si riferiscono esclusivamente al «danno biologico»; del resto, le tabelle per le lesioni di lieve entità vennero predisposte da tale legislatore ribassando i parametri monetari di base recati dalle tabelle giurisprudenziali contemplanti il solo danno biologico “statico”; identica operazione si prospetta ora per le macrolesioni;
  • art. 13, decreto legislativo 23 febbraio 2000 n. 38, + d.m. 12 luglio 2000 (sistema indennitario Inail; rileva unicamente il danno biologico “statico”);
  • d.P.R. 3 marzo 2009 n. 37 e d.P.R. 30 ottobre 2009 n. 181: criteri per la liquidazione delle indennità rispettivamente a favore del personale impiegato nelle missioni militari all'estero e delle vittime del terrorismo (netta distinzione fra «danno biologico» e «danno morale»).

Quindi, è giuridicamente errato, cioè manifestamente contra legem, ritenere che tali sotto-categorie abbiano soltanto una mera valenza descrittiva: esse, senza dubbio, hanno valenza normativa.

Questo, per esempio, è anche il caso del danno non patrimoniale da vacanza rovinata, anch'esso normativamente distinto dal danno (non patrimoniale) alla persona.

Pure l'autonomia concettuale del danno esistenziale trova un suo fondamento normativo: il suo spazio ontologico si ricava dal suo raffronto con gli ambiti operativi delle sottovoci legislative.

Ciò rilevato, la distinzione tra sotto-categorie (voci o componenti):

  • serve a smascherare ed a contrastare “false rappresentazioni” legislative o giurisprudenziali del tipo “danno biologico fagocita danno morale”;
  • evita che la riparazione di determinati pregiudizi non pecuniari discendenti da violazioni di beni diversi da quelli, cui si riferiscono specifiche sotto-categorie (insieme ai limiti posti per la loro personalizzazione), venga azzerata tramite la liquidazione di danni per l'appunto differenti (per esempio: danno da vacanza rovinata e danno biologico);
  • è funzionale alla realizzazione del principio della liquidazione “analiticamente motivata”, per cui «la valutazione unitaria del danno non patrimoniale deve esprimere analiticamente l'iter logico ponderale delle poste (sinteticamente descritte e tipicizzate in relazione agli interessi o beni costituzionali … lesi)» (Cass. civ., Sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530); cioè agevola la verifica della legittimità delle liquidazioni.

Come giustamente puntualizzato da P. Ziviz, Danno non patrimoniale: nozione unitaria o composita?, in Ri.Da.Re.), il riferimento alle diverse sotto-categorie (o “voci”) del danno non patrimoniale non si pone in contrasto con l'unitarietà della categoria generale; semplicemente impedisce che nel nome dell'unitarietà si realizzino svuotamenti sostanziali dei pregiudizi risarcibili sotto il lemma “danno non patrimoniale”.

Occorre sempre la prova, anche solo in via presuntiva, di una “sofferenza interiore”?

Damiano Spera (Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?, in Ri.Da.Re.) ha sollevato il seguente dubbio: per tutte le ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale è sempre da comprovarsi, perlomeno in via presuntiva, una «sofferenza interiore» quale autentica «essenza» del danno in questione?

La risposta a questo quesito dovrebbe risultare negativa: basti pensare che il danno non patrimoniale è ritenuto pacificamente risarcibile anche in capo alle persone giuridiche ed agli enti, cioè a favore di soggetti i quali, in tutta evidenza, non soffrono, non provano emozioni.

Ciò posto, ad ogni modo nella stragrande maggioranza dei casi la prova di una sofferenza interiore non costituisce un problema: difatti, può senz'altro presumersi che le violazioni dell'integrità psicofisica (anche allorquando colpiscano parti del corpo già irrimediabilmente compromesse) così come le lesioni di altri beni (rapporti affettivi, abitudini di vita, immagine, onore, ecc.) offendano la dignità della persona e producano perturbamenti, frustrazioni ed altre situazioni di “sofferenza morale”; anche a voler ipotizzare l'esistenza di individui del tutto insensibili rispetto a compromissioni illecite della propria sfera personale, rimarrebbe come l'indifferenza per le disavventure subite non appartenga all'uomo comune.

Il problema, invero, si pone con riferimento alle vittime in stato di incoscienza.

Tuttavia, nel momento, in cui imprese e pubbliche amministrazioni possono conseguire il risarcimento del danno non patrimoniale per la lesione della loro reputazione, non si vede per quale ragione una persona fisica in stato di incoscienza non possa, al contrario, accedere ad una riparazione per la violazione del suo corpo e/o della sua dignità, o per altri eventi che alterino in negativo i suoi valori non patrimoniali pregressi.

Del resto, per quanto concerne la liquidazione del danno biologico neppure il legislatore ha posto il requisito della consapevolezza, da parte della vittima, delle sue condizioni, viceversa essendo sufficiente, anche ai fini della valutazione medico-legale, la prova della compromissione, oggettivamente intesa, dell'integrità psicofisica con riverberi di carattere temporaneo e/o permanente sulla vita del danneggiato.

Quanto ai pregiudizi morali risarcibili alla vittima incosciente in realtà tale condizione incide sul diverso versante della personalizzazione del danno non patrimoniale (cfr. Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015, n. 10246), peraltro non potendosi escludere, sul piano scientifico, che una vittima in stato di coma non abbia a soffrire interiormente (cfr. Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2006, n. 25124; Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549; Cass. civ., sez. III, 1° dicembre 2003, n. 18305; Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003).

Può il legislatore limitare il quantum del danno non patrimoniale?

Come già approfondito (M. Bona, Il diritto al risarcimento integrale dei danni alla persona: il suo fondamento costituzionale nella giurisprudenza della Consulta, in Ri.Da.Re.), univoca e consolidata giurisprudenza della Consulta smentisce sia Corte Cost. n. 235/2014 che Cass., Sez.Un. n. 15350/2015, laddove hanno cercato di negare il fondamento costituzionale del diritto al risarcimento integrale per i danni alla persona e da uccisione.

Infatti:

  • per la Consulta vige «il principio costituzionale della integrale e non limitabile tutela risarcitoria del diritto alla salute» (così Corte cost., 27 dicembre 1991, n. 485; cfr., inoltre: Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233; Corte cost., 6 novembre 2000, n. 470; Corte cost., 27 ottobre 1994, n. 372; Corte cost., 17 febbraio 1994, n. 37; Corte cost., 18 luglio 1991, n. 356; Corte cost., 6 giugno 1989, n. 319; Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184; Corte cost., 6 maggio 1985, n. 132; Corte cost., 26 luglio 1979, n. 87);
  • la Corte non ha mai legittimato ridimensionamenti della tutela risarcitoria per i danni alla persona e da uccisione né sulla base di un diniego di copertura costituzionale del diritto al risarcimento integrale, né per interessi economici imprenditoriali o riconducibili allo Stato; anzi, la Consulta ha escluso che nei predetti ambiti il legislatore ordinario possa intaccare tale diritto adducendo, per es., l'«esigenza di diminuire i costi della garanzia assicurativa» (Corte cost. n. 356/1991) o gli interessi economici di una determinata categoria (Corte cost. n. 132/1985) od una «scelta legislativa preoccupata dell'incidenza dei costi gestionali» dei gestori di assicurazioni sociali (Corte cost. n. 319/1989);
  • il diniego di tale diritto è rinvenibile soltanto in isolate pronunce intervenute in altri settori non assimilabili, sul piano dell'inviolabilità dei beni, al campo delle lesioni personali e dei danni da uccisione; inoltre, si è retto su un erroneo richiamo a Corte cost. n. 132/1985, che, all'opposto, ravvisò nell'art. 2 Cost. il diritto dei congiunti ad un risarcimento integrale; inoltre, queste sentenze hanno relegato la derogabilità alla restitutio in integrum a casi del tutto eccezionali; difatti, hanno escluso, pur in relazione alla tutela della proprietà (bene eppure sottoposto dalla stessa Costituzione a limitazioni ex lege), che il diritto ad una riparazione integrale possa venire derogato «al solo scopo di sopperire ad esigenze di bilancio» e «al di fuori di un contesto di riforme economiche o sociali» (Corte cost. n. 349/2007), riforme che devono consistere in «mutamenti radicali del sistema costituzionale di un paese», a questa ipotesi potendosi affiancare la realizzazione di opere di comprovata utilità pubblica; sempre questa giurisprudenza, laddove soddisfatti gli stretti requisiti posti per la configurazione di una deroga, ha ravvisato la sussistenza del corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti nell'ulteriore riconoscimento al danneggiato di una contropartita reale e diretta (per es., attribuzione di un indennizzo a prescindere dalla prova del pregiudizio subito - Corte cost. n. 71/2015 - e/o - Corte cost. n. 303/2011 - aggiunta all'indennizzo di una riparazione in forma specifica di particolare impatto);
  • interventi restrittivi del legislatore rispetto alla tutela della salute trovano una legittima giustificazione nella «solidarietà collettiva» soltanto con riferimento al diverso ambito degli indennizzi che lo Stato, ex artt. 2, 32 e 38 Cost., è tenuto ad effettuare a protezione di determinate categorie; viceversa la giustificazione solidaristica non opera per il risarcimento dei danni da violazione illecita dei diritti inviolabili.

Ciò significa che il legislatore può senz'altro indicare criteri indicativi/orientativi (ovviamente tenendo conto degli standard giurisprudenziali), ma non già, a priori, fissare limiti invalicabili e/o azzerare il risarcimento di determinati pregiudizi.

Chiaramente, poi, i limiti alla personalizzazione finiscono, altresì, per impedire quelle imprescindibili operazioni di differenziazione fra danneggiati imposte dall'art. 3 Cost..

In conclusione: il “falso mito” delle duplicazioni risarcitorie

In questi ultimi decenni – da quando è stato finalmente superato il “vecchio” 2059 c.c. e si sono avute le prime tabelle per la liquidazione del danno biologico e dei danni morali da lutto – si sono vieppiù venute a registrare significative pressioni sulla magistratura per indurla a preoccuparsi molto di più dell'eventualità di “risarcire troppo” che del rischio di “risarcire poco”. Si è, quindi, sviluppato il “mito” (rectius, lo “spettro”) delle “duplicazioni risarcitorie”, con conseguenti tentativi di annacquare le distinte componenti del danno non patrimoniale e, talvolta, di azzerarne alcune.

In realtà quello delle “duplicazioni risarcitorie” è un “falso mito”, funzionale ad operazioni filo-assicurative rivolte a conseguire ingiustificati ridimensionamenti delle liquidazioni.

Le decisioni che in questi anni hanno ottusamente “duplicato” i risarcimenti sono statisticamente irrilevanti e del tutto eccezionali. La verità è che i magistrati sono sempre stati lungi dal lasciarsi andare al riconoscimento di risarcimenti esagerati. Nessuna “sbornia” liquidatrice è occorsa. Anzi, nel timore di apparire eccessivamente generosi, i magistrati hanno spesso preferito “contenersi”, finendo così con l'eccedere nel senso opposto.

Dunque, il vero rischio è quello, opposto, della sottostima dei danni, tanto quelli non patrimoniali quanto quelli patrimoniali, che pure meriterebbero attenzione ed approfondimenti.

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