Danno non patrimoniale: risposte semplici ai soliti dilemmi
21 Aprile 2016
Premessa
In questo contributo si sostiene quanto segue:
Il danno non patrimoniale - quale categoria che racchiude tutti i pregiudizi (naturalisticamente intesi) che si contrappongono, in termini fenomenologici e giuridici, a quelli che ricadono nella categoria del danno patrimoniale - comprende tutte le alterazioni negative, soggettive ed oggettive, che una persona, innanzitutto a livello morale e/o biologico, subisce e/o patirà per effetto ed a seguito di un evento legittimante la sua tutela risarcitoria. Invero, qualsiasi elencazione delle conseguenze, che, sul piano fenomenologico, possono ricadere in questa categoria, non può che avere valenza soltanto esemplificativa: come già nel 1821 osservava Melchiorre Gioia, vengono in rilievo tanto le «alterazioni dell'animo» che quelle dell'«esistenza fisica» e dell'«esistenza morale», in breve tutto ciò che costituisce una «espropriazione di felicità», ossia «una distruzione di valori sociali». Questa impostazione è condivisa pure a livello internazionale: in commento al comma 2 dell'art. 7.4.2 («Risarcimento integrale») dei Principi dei contratti commerciali internazionali,predisposti dall'UNIDROIT, si precisa, con un'elencazione volutamente non esaustiva, che il danno non patrimoniale «può consistere nel dolore e sofferenza, nella perdita di agi della vita, nel pregiudizio estetico, ecc., come pure del danno derivante dalle lesioni all'onore o alla reputazione»; ancora più ampia è la definizione fornita dall'Avvocato Generale Nils Wahl in Petillo (Cgue, Sez. II, 23 gennaio 2014, C-371/12): la categoria «danno non patrimoniale» si riferisce «alle perdite che non hanno un rapporto con il patrimonio, la ricchezza, o il reddito di una persona e che, come tali, non possono essere quantificate in maniera oggettiva con riferimento ad un prezzo o ad un valore di mercato». Aggettivi indubbiamente efficaci per descrivere i pregiudizi sostanzianti il danno non patrimoniale sono quelli ormai arcinoti: “morali”, “biologici” ed “esistenziali”. Certamente, nel senso sopra indicato, lo è. Semmai non lo sono le sue varie sotto-categorie (o voci o componenti) di formazione legislativa e/o giurisprudenziale/dottrinale: innanzitutto, il danno biologico ed il danno morale. Uno dei macroscopici errori, in cui sono cadute le Sezioni Unite dell'11 novembre 2008 (come pure Corte cost., 16 ottobre 2014, n. 235), è proprio quello di avere falsamente rappresentato il danno biologico (invece che il danno non patrimoniale) alla stregua di una categoria omnicomprensiva, tra l'altro nonostante il legislatore del 2001 avesse inteso il danno biologico nel senso di non includere il danno morale (sicché è corretta quella giurisprudenza che ha superato la fallace idea del “danno biologico omnicomprensivo”; cfr. ancora da ultimo: Cass. civ., Sez. III, 13 gennaio 2016, n. 339, Cass. civ., Sez. III, 27 agosto 2015, n. 17209; Cass. civ., Sez. III, 30 luglio 2015 n. 16197; Cass. civ., Sez. III, 9 giugno 2015, n. 11851; queste pronunce hanno ribadito, anche in relazione agli artt. 138 e 139 Cod. Ass., la non continenza, non soltanto ontologica, nel sintagma “danno biologico” anche del danno morale; si condivide, pertanto, anche la posizione di A. Penta, Alla ricerca del giusto punto di equilibrio tra l'integrale risarcimento del danno ed il rischio di duplicazioni risarcitorie, in Ri.Da.Re.: «la considerazione delle sofferenze emotive non si presta ad essere recuperata in sede di mera personalizzazione del danno biologico»). Ciò posto, occorre, però, puntualizzare quanto segue: il danno non patrimoniale, così come innanzi inteso, cessa inesorabilmente di essere categoria omnicomprensiva nel momento in cui il legislatore e/o la giurisprudenza pongono in essere operazioni tali da privarlo, in concreto, di tale portata. Si pensi ai seguenti due esempi:
Va, altresì, rimarcata la possibilità che un medesimo fatto illecito od inadempimento incida su beni differenti (per esempio, integrità psicofisica e reputazione). In tali casi (soprattutto laddove per la riparazione convenzionale di determinati beni operino criteri specifici e magari pure con limiti alla personalizzazione del quantum di base) il danno non patrimoniale liquidato per una delle perdite subite dal danneggiato potrebbe risultare inidoneo a risarcirlo per le altre perdite. Orbene, per eventualità del genere il principio di onnicomprensività danno non patrimoniale non può ostare a liquidazioni separate. Per esempio, Cass. civ. Sez. III, 8 maggio 2015, n. 9320 (con relatore Rossetti), sottolineando la valenza giuridica della diversità, nel caso di uccisione del congiunto, corrente tra, da un lato, la «perdita della serenità derivante dal vincolo familiare» e, dall'altro, la «perdita della salute» alla luce del fatto che, per l'appunto, «salute e serenità familiare sono … beni oggettivamente diversi», ha ribadito che tali perdite devono liquidarsi separatamente «in applicazione del precetto di cui all'art. 1223 c.c., che impone una liquidazione parametrata alla “perdita subita”» e che una «liquidazione congiunta ed indistinta del risarcimento dei danno biologico e di quello da lutto, oltre a violare l'art. 1223 c.c., è viziata da un secondo errore di diritto, costituito dal fraintendimento della nozione di “unitarietà del danno non patrimoniale”, per come affermata da Sez. Un. 26972/2008», giacché «la nozione di “unitarietà” della liquidazione del danno non patrimoniale vuol dunque dire che lo stesso danno non può essere liquidato due volte sol perché lo si chiami con nomi diversi; ma non vuol certo dire che quando l'illecito produca perdite non patrimoniali eterogenee, la liquidazione dell'una assorba tutte le altre. E' l'omogeneità delle perdite concrete derivate dall'illecito che impone la liquidazione unitaria, e non la natura non patrimoniale dell'interesse leso». Non si condividono gli interpreti che asseriscono la valenza soltanto “descrittiva” delle sotto-categorie del danno non patrimoniale. Infatti, il legislatore le ha trasformate in categorie del diritto positivo, peraltro, sul fronte dei danni alla persona, ponendole alla base degli “speciali” criteri di quantificazione. Ciò è pacificamente comprovato dalle molteplici disposizioni che distinguono fra «danno biologico» e «danno morale», o, comunque, implicano, anche storicamente, tale differenziazione (da sempre rilevata pure a livello medico-legale). Ecco alcuni esempi:
Quindi, è giuridicamente errato, cioè manifestamente contra legem, ritenere che tali sotto-categorie abbiano soltanto una mera valenza descrittiva: esse, senza dubbio, hanno valenza normativa. Questo, per esempio, è anche il caso del danno non patrimoniale da vacanza rovinata, anch'esso normativamente distinto dal danno (non patrimoniale) alla persona. Pure l'autonomia concettuale del danno esistenziale trova un suo fondamento normativo: il suo spazio ontologico si ricava dal suo raffronto con gli ambiti operativi delle sottovoci legislative. Ciò rilevato, la distinzione tra sotto-categorie (voci o componenti):
Come giustamente puntualizzato da P. Ziviz, Danno non patrimoniale: nozione unitaria o composita?, in Ri.Da.Re.), il riferimento alle diverse sotto-categorie (o “voci”) del danno non patrimoniale non si pone in contrasto con l'unitarietà della categoria generale; semplicemente impedisce che nel nome dell'unitarietà si realizzino svuotamenti sostanziali dei pregiudizi risarcibili sotto il lemma “danno non patrimoniale”. Damiano Spera (Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?, in Ri.Da.Re.) ha sollevato il seguente dubbio: per tutte le ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale è sempre da comprovarsi, perlomeno in via presuntiva, una «sofferenza interiore» quale autentica «essenza» del danno in questione? La risposta a questo quesito dovrebbe risultare negativa: basti pensare che il danno non patrimoniale è ritenuto pacificamente risarcibile anche in capo alle persone giuridiche ed agli enti, cioè a favore di soggetti i quali, in tutta evidenza, non soffrono, non provano emozioni. Ciò posto, ad ogni modo nella stragrande maggioranza dei casi la prova di una sofferenza interiore non costituisce un problema: difatti, può senz'altro presumersi che le violazioni dell'integrità psicofisica (anche allorquando colpiscano parti del corpo già irrimediabilmente compromesse) così come le lesioni di altri beni (rapporti affettivi, abitudini di vita, immagine, onore, ecc.) offendano la dignità della persona e producano perturbamenti, frustrazioni ed altre situazioni di “sofferenza morale”; anche a voler ipotizzare l'esistenza di individui del tutto insensibili rispetto a compromissioni illecite della propria sfera personale, rimarrebbe come l'indifferenza per le disavventure subite non appartenga all'uomo comune. Il problema, invero, si pone con riferimento alle vittime in stato di incoscienza. Tuttavia, nel momento, in cui imprese e pubbliche amministrazioni possono conseguire il risarcimento del danno non patrimoniale per la lesione della loro reputazione, non si vede per quale ragione una persona fisica in stato di incoscienza non possa, al contrario, accedere ad una riparazione per la violazione del suo corpo e/o della sua dignità, o per altri eventi che alterino in negativo i suoi valori non patrimoniali pregressi. Del resto, per quanto concerne la liquidazione del danno biologico neppure il legislatore ha posto il requisito della consapevolezza, da parte della vittima, delle sue condizioni, viceversa essendo sufficiente, anche ai fini della valutazione medico-legale, la prova della compromissione, oggettivamente intesa, dell'integrità psicofisica con riverberi di carattere temporaneo e/o permanente sulla vita del danneggiato. Quanto ai pregiudizi morali risarcibili alla vittima incosciente in realtà tale condizione incide sul diverso versante della personalizzazione del danno non patrimoniale (cfr. Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015, n. 10246), peraltro non potendosi escludere, sul piano scientifico, che una vittima in stato di coma non abbia a soffrire interiormente (cfr. Cass. civ., sez. III, 27 novembre 2006, n. 25124; Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549; Cass. civ., sez. III, 1° dicembre 2003, n. 18305; Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003). Come già approfondito (M. Bona, Il diritto al risarcimento integrale dei danni alla persona: il suo fondamento costituzionale nella giurisprudenza della Consulta, in Ri.Da.Re.), univoca e consolidata giurisprudenza della Consulta smentisce sia Corte Cost. n. 235/2014 che Cass., Sez.Un. n. 15350/2015, laddove hanno cercato di negare il fondamento costituzionale del diritto al risarcimento integrale per i danni alla persona e da uccisione. Infatti:
Ciò significa che il legislatore può senz'altro indicare criteri indicativi/orientativi (ovviamente tenendo conto degli standard giurisprudenziali), ma non già, a priori, fissare limiti invalicabili e/o azzerare il risarcimento di determinati pregiudizi. Chiaramente, poi, i limiti alla personalizzazione finiscono, altresì, per impedire quelle imprescindibili operazioni di differenziazione fra danneggiati imposte dall'art. 3 Cost.. In questi ultimi decenni – da quando è stato finalmente superato il “vecchio” 2059 c.c. e si sono avute le prime tabelle per la liquidazione del danno biologico e dei danni morali da lutto – si sono vieppiù venute a registrare significative pressioni sulla magistratura per indurla a preoccuparsi molto di più dell'eventualità di “risarcire troppo” che del rischio di “risarcire poco”. Si è, quindi, sviluppato il “mito” (rectius, lo “spettro”) delle “duplicazioni risarcitorie”, con conseguenti tentativi di annacquare le distinte componenti del danno non patrimoniale e, talvolta, di azzerarne alcune. In realtà quello delle “duplicazioni risarcitorie” è un “falso mito”, funzionale ad operazioni filo-assicurative rivolte a conseguire ingiustificati ridimensionamenti delle liquidazioni. Le decisioni che in questi anni hanno ottusamente “duplicato” i risarcimenti sono statisticamente irrilevanti e del tutto eccezionali. La verità è che i magistrati sono sempre stati lungi dal lasciarsi andare al riconoscimento di risarcimenti esagerati. Nessuna “sbornia” liquidatrice è occorsa. Anzi, nel timore di apparire eccessivamente generosi, i magistrati hanno spesso preferito “contenersi”, finendo così con l'eccedere nel senso opposto. Dunque, il vero rischio è quello, opposto, della sottostima dei danni, tanto quelli non patrimoniali quanto quelli patrimoniali, che pure meriterebbero attenzione ed approfondimenti. |