La responsabilità negli incidenti di caccia
22 Novembre 2016
Premessa
L'attività venatoria, per via dell'impiego delle armi lunghe da fuoco e, sovente, per l'inesperienza, concitazione, impreparazione, esagitazione o per mera accidentale fatalità, può portare conseguenze nefaste per il cacciatore stesso, per i suoi compagni di caccia, per gli ausiliari (i cani) o per terze persone. L'arma può cadere e sparare perché la cinghia che l'assicurava in spalla si è logorata in maniera subdola, oppure perché sbadatamente riposta nel fodero ancora carica per via di una distraente telefonata. Può anche darsi che un ramo s'inserisca nella guardia del grilletto spingendolo in modo da far partire il colpo e così un bottone della giacca. Il sentiero, il prato, possono essere bagnati o possono nascondere un sasso o una buca e l'arma, carica, può esplodere un in colpo a seguito della caduta del cacciatore.Anche un difetto di fabbrica, di manutenzione o di impiego dell'arma possono portare all'innesco accidentale della cartuccia e quindi allo sparo accidentale. Andando oltre può accadere che il selvatico atteso s'involi, o si allontani, offrendo una traiettoria di tiro non assicurata da ostacoli naturali, e occupata da altre persone o da animali. Può accadere che il tiro sia incerto, gravemente indirizzato verso un'ombra o un rumore. A volte un tiro immaginato sicuro, verso uno sfondo di vegetazione arbustiva, diviene mortale per via del fatto che qualcuno dei partecipanti all'attività venatoria si è spostato di sua iniziativa senza comunicazione alcuna in un posto dove era in atto un'azione concitata di caccia. A dirla così la caccia sembrerebbe si debba chiudere e vietare perché pericolosissima; in realtà i dati europei sugli incidenti di caccia sono assolutamente più che tranquillizzanti. Infatti la caccia, nel resto degli altri Paesi europei, sembra essere molto più responsabile e professionale. Anche la licenza è conseguita dopo un lungo e severo percorso formativo che contempla persino il giusto ed esperienziato impiego delle armi. Inoltre, per lo specifico svolgimento di alcune forme di caccia sono implementate le misure di sicurezza oggettive: tiro da postazioni sopraelevate in modo da avere sempre un angolo positivo d'incidenza della palla con il suolo; non sono ammesse forme di caccia collettiva con postazioni movibili, a volte è vietato l'impiego di alcune armi (a ripetizione semiautomatica) o munizioni (palla unica nella canna liscia o piombo spezzato per la caccia agli ungulati: i c.d. “pallettoni”) e, in particolare, il cacciatore è particolarmente e strettamente legato ad un determinato territorio, che ben può conoscere e di cui diviene in qualche modo responsabile. Al cospetto di una così allarmante premessa, deve valutarsi se la caccia possa essere annoverata fra le attività pericolose di cui all'art. 2050 c.c. Com'è noto, la disposizione in parola, dopo la scelta normativa di non accedere al meccanismo della responsabilità oggettiva, ha inteso invertire l'onere della prova della colpa, accollando all'autore del danno la prova «di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno», con ciò inasprendo il normale obbligo di diligenza. Per esimersi dalla responsabilità non basta provare di essersi comportato come l'uomo avveduto di media prudenza, ma bisogna dimostrare di aver spinto la propria diligenza quasi all'estremo limite, attuando tutte quelle azioni e misure in grado di arrestare il pericolo. Milita in tal senso una netta giurisprudenza, fra cui Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2003 n. 12109; Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2013 n. 25058; Trib. Cagliari, 27 aprile 1985. Incidenter tantum, il fatto che la caccia debba annoverarsi fra le attività pericolose di cui all'art. 2050 c.c. è stato condiviso anche da C. cost., 19 febbraio 1992 n. 79. E a tal proposito la Consulta ha rimarcato la previsione normativa del regime di assicurazione obbligatoria di cui all'art. 12 comma 8 l. n. 157/1992 (il comma 10 della medesima disposizione legittima il danneggiato all'azione diretta nei riguardi della compagnia assicuratrice). La semplice circostanza per cui l'attività venatoria corrisponde uno svago, o comunque abbia una finalità ludica (la caccia non può essere intesa come uno sport) non impedisce diversamente l'ascrizione fra le attività pericolose «per la natura dei mezzi adoperati», anche volgendo lo sguardo alla giurisprudenza sedimentatasi sulla norma in parola. Quest'ultima, invero, individua come "pericolose" le attività consistenti nello svolgimento, nell'organizzazione e nella gestione di pratiche sportive e ricreative rischiose per gli utenti e per i terzi”.
Casistica giurisprudenziale
Uno sguardo alle (rare) decisioni edite consente immediatamente di profilare i termini dell'accertamento giudiziale nei canoni della particolare diligenza che il cacciatore deve impiegare durante l'attività venatoria.
È il caso di Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12109. Il fatto storico è così succintamente riassunto: «D. B. F. conveniva davanti al Tribunale di Latina N. R., assumendo di essere stato da lui ferito ad un occhio con una fucilata, il 13 dicembre 1980 [!], durante una battuta di caccia. Il convenuto eccepiva che l'evento era dovuto alla colpa esclusiva o per lo meno concorrente del danneggiato, il quale non aveva opportunamente segnalato la propria presenza all'altro cacciatore». La statuizione valutativa della Suprema corte, in pratica quasi una massima, è così strutturata: «poiché non sono ammissibili, ai sensi dell'art. 16 Cost., restrizioni della libertà di circolazione delle persone nelle campagne e nei luoghi in cui sia in atto l'esercizio della caccia, nel caso di ferimento di taluno per effetto di un colpo di fucile sparato da un cacciatore senza il previo accertamento di una sufficiente libertà e sicurezza del campo di tiro, come accertato nella fattispecie, non è configurabile una colpa concorrente del danneggiato con quella del feritore per il solo fatto che il primo si sia avvalso del pari diritto di esercitare la caccia nella stessa località del secondo o anche a breve distanza da lui». Del pari, si legge, che la decisione della Corte di appello di Roma aveva già stigmatizzato come «anche dalla costruzione dell'incidente emerge evidente, in concreto, il comportamento colposo del N., consistito nell'aver esploso un colpo ad altezza d'uomo, senza curarsi della presenza nei pressi del compagno di battuta, da poco allontanatosi, tanto da essere ancora a portata di voce. Soggiunge che nessun riscontro ha trovato l'assunto difensivo di un inatteso cambio di direzione del D. B., peraltro prevedibile e tale da non esonerare il N. dall'osservanza della prudenza richiesta dall'uso dell'arma, specie in un luogo che non consentiva una completa visione dell'ambiente circostante». Gli elementi in gioco sono definiti: l'impiego dell'arma da fuoco, l'altezza della traiettoria di sparo, la completa visuale del possibile punto d'impatto del proiettile (della rosata di pallini, nel caso in parola, trattandosi di munizionamento c.d. “spezzato”). Difficile, stante l'onere ex art. 2050 c.c. di provare «di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno», l'evasione della responsabilità in caso di non ben definita libertà e visuale del punto di ultimo impatto del colpo esploso e, quindi, di libertà della traiettoria. Inutile soggiungere che si tratta dell'incidente più diffuso, soprattutto nelle forme di caccia che, su terreno orizzontale, comportano spari “ad altezza d'uomo”.
Profili di colpa
Sicuramente, le molteplici forme dell'esercizio venatorio rispecchiano altrettanti profili di colpa singolarmente ricostruibili. Sul punto può preliminarmente porsi la generale prudenza e cautela correlata al maneggio e alla manutenzione delle armi impiegate per l'esercizio venatorio. Posto che l'arma sicura è sempre quella scarica, un primo profilo di colpa può collocarsi sulla manutenzione dell'arma. Le pressioni di esercizio (delle polveri in combustione che spingono i proiettili ad alta velocità lungo la canna) e la complessità meccanica delle armi da fuoco impongono una manutenzione scrupolosa. Inceppamenti, cedimenti strutturali, ossidazioni, ruggine, ostruzioni della canna possono essere difetti in grado di cagionare incidenti anche gravi. All'atto dell'intrapresa dell'azione di caccia (e al momento della sua cessazione) si pone un ulteriore momento di responsabilità, legato al caricamento e allo scaricamento dell'arma. Attività che è pericolosa nel momento in cui la cartuccia viene camerata (nella c.d. “camera di cartuccia”) ed il percussore (che determina l'accensione della polvere per mezzo della percussione della capsula d'innesco) armato (cioè pronto allo scatto per via di una molla compressa e trattenuto da un fermo). La serenità dell'operazione e il mantenere la volata (la parte terminale della canna) in condizione per cui un'esplosione accidentale del colpo non investa o raggiunga terze persone o cose devono essere regole primarie, se parametrate con gli stretti margini di difesa dell'art. 2050 c.c. In “atteggiamento” di caccia, i profili di colpa possono raddoppiarsi. Perché l'arma è imbracciata carica e urti, cadute o qualcosa che vi s'impigli (nello spazio fra il grilletto ed il ponticello di guardia) possono provocare la partenza accidentale del colpo. In questo caso la diligenza minima strutturale sarà sempre quella di porre l'arma in sicura (con la precisazione che non tutte le sicure sono “sicure” in caso di caduta o forte urto dell'arma) nel percorrere terreni impervi, scivolosi, nel compiere salti, nell'attraversare fossati o macchie di vegetazione. E poiché probabilmente sarà esploso almeno un colpo in direzione del selvatico, con tutte le implicazioni in ordine alla traiettoria, alla sua visibilità e libertà da persone o cose fino al punto in cui i proiettili per il venir meno dell'energia cinetica esauriranno la loro corsa e si arresteranno sul terreno (si veda a tal proposito la fattispecie affrontata da Cass. pen. sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 16978). Le condotte appena notate devono essere quantomeno stigmatizzate come doverose di adozione nei termini della «prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno» (art. 2050 c.c.) per potersi escludere la responsabilità. La prova liberatoria, dunque, dovrà passare per una piena valutazione tecnica delle migliori prassi di diligenza venatoria impiegabili, dovendosi diversamente declinare in favore della ponderazione aggravata di responsabilità. Il fatto del danneggiato
Un approfondimento a parte meriterebbe, quantomeno in punto di diritto, il concorso di responsabilità del danneggiato, in grado o meno di escludere la responsabilità o di mitigarla nei termini dell'art. 1227 c.c. (cfr. Cass. civ., sez. III, 8 maggio 2003, n. 6988). Certamente la peculiarità dell'azione venatoria restringe molto il campo applicativo. Probabilmente l'unica ipotesi può essere ricondotta a quelle forme di caccia collettiva dove i posti sono assegnati, la zona attentamente tabellata e l'azione di caccia annunciata con emissioni sonore d'inizio e di fine, e allorché uno dei partecipanti si sia mosso dallo stabile ed individuato punto di appostamento per invadere arbitrariamente il terreno dell'azione di caccia dove era previsto il transito probabile dei proiettili e l'assenza di chicchessia. In pratica assumendo come sicuramente e doverosamente libera da persone un'area precisa, circondata da punti di sparo fissi e non soltanto all'occasione assegnati. Del resto, per Cass. civ., 29 aprile 1991, n. 4710 la presunzione di responsabilità dell'art. 2050 c.c. per le attività pericolose può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, per cui anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere, in modo certo, il nesso causale tra l'attività pericolosa e l'evento e non già quando costituisce elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l'insorgenza a causa dell'inidoneità delle misure preventive adottate. Il limite della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose risiede nell'intervento di un fattore esterno, il caso fortuito, il quale attiene non già ad un comportamento del responsabile ma alle modalità di causazione del danno, che può consistere anche nel fatto dello stesso danneggiato recante i caratteri dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità; e, quando il comportamento colposo del danneggiato non è idoneo da solo ad interrompere il nesso eziologico tra la condotta del danneggiante ed il danno, esso può, tuttavia, integrare un concorso colposo ai sensi dell'art. 1227 c.c. con conseguente diminuzione del risarcimento dovuto dal danneggiante in relazione all'incidenza della colpa del danneggiato (così Cass. civ., 8 maggio 2003, n. 6988). Beninteso, se il meccanismo di cui all'art. 2050 c.c. impone al danneggiato unicamente di comprovare la natura pericolosa dell'attività, giacché per l'accertamento della responsabilità può limitarsi a denunziare il danno ed il nesso di causalità, il concorso di colpa del danneggiato essere adeguatamente provato (Cass. civ., sez. III, 18 settembre 1980, n. 5307).
In conclusione
L'ascrizione della caccia fra le attività pericolose ex art. 2050 c.c. semplifica ed agevola la costruzione dei profili di responsabilità. Le difficoltà sorgono nell'intento di delineare una possibile difesa del danneggiante, ovvero nell'ipotesi del dover valutare il fatto del danneggiato come in grado di interrompere il nesso di causalità, ovvero di ridurre l'entità del risarcimento per concorso colposo. Ogni valutazione, purtuttavia, deve essere compiuta nelle specifiche peculiarità delle discipline o delle casistiche venatorie che vengono in evidenza. La ricostruzione dei momenti della caccia in “fasi” (dalla cura al caricamento dell'arma, dall'intrapresa della ricerca del selvatico allo sparo di colpi a questo indirizzati) consente di distinguere i singoli momenti di responsabilità per parametri abbastanza tipicamente individuati. La miglior gestione giudiziale di ogni incidente di caccia passa per l'approfondita conoscenza di siffatti particolari.
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