Appunti sulla nozione di danno morale, alla luce della sentenza n. 21058/2016

24 Gennaio 2017

Discutere oggi di danno morale, al fine di chiarire quale ruolo possa assumere il medico legale nel relativo accertamento è una questione assai complessa da affrontare, a causa delle incomprensioni che regnano al riguardo..
I confini del danno morale

Discutere oggi di danno morale, al fine di chiarire quale ruolo possa assumere il medico legale nel relativo accertamento è una questione assai complessa da affrontare, a causa delle incomprensioni che regnano al riguardo.

Non si tratta soltanto di segnalare le difficoltà che emergono, per quel che concerne l'inquadramento di tale fenomeno, nel dialogo tra medici legali e giuristi. Confusione e ambiguità regnano, prima ancora, a livello giuridico, considerato che il dibattito innescato dalle indicazioni formulate, in riferimento a tale pregiudizio, nelle celeberrime sentenze di San Martino non pare essere approdato ancor'oggi a traguardi condivisi.

Fino alle Sezioni Unite del novembre del 2008 (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26973; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26974; Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26975), non si registravano grossi dubbi sul piano definitorio in ordine alle nozione di danno morale, considerato che a tale concetto venivano ricondotte quelle compromissioni consistenti nel patema d'animo, inteso come sofferenza emotiva transeunte prodotta dall'illecito in capo alla vittima.

Il fatto che ripercussioni del genere siano destinate a manifestarsi nella sfera interiore del danneggiato ha spinto talora gli interpreti a descrivere un simile pregiudizio quale entità effimera, impalpabile, non percepibile e non misurabile: tale, quindi, da incarnare null'altro che una convenzione giuridica. Bisogna, in verità, constatare che gli stati d'animo negativi della persona sono fenomeni che si producono sul piano empirico, e come tali debbono essere presi in considerazione a livello giuridico. Si tratta di compromissioni riscontrabili a fronte di qualunque tipo di torto (sebbene, in passato, la relativa risarcibilità sia stata ristretta alla cerchia degli illeciti aventi rilevanza penale), il cui accertamento risultava pacificamente rimesso al giudice, senza alcuno spazio per l'intervento del medico legale.

I dubbi, con riguardo a quest'ultimo profilo, nascono sulla scorta delle affermazioni, formulate dalle Sezioni Unite, secondo cui la sofferenza soggettiva può essere liquidata autonomamente, quale danno morale, ove rimanga confinata a livello di turbamento dell'animo e dolore intimo.

Nel caso invece in cui si verifichino «degenerazioni patologiche della sofferenza», i giudici di legittimità sostengono che «si rientra nell'area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente». In questa seconda ipotesi, la Suprema Corte riconosce che il giudice dovrà «procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza».

Alla luce di simili indicazioni, si è fatta strada l'idea che, in presenza di una lesione alla salute, il danno morale sia destinato a perdere la propria identità, per confluire in quell'area biologica del pregiudizio in relazione alla quale centrale appare l'intervento tecnico del medico legale. Di qui gli interrogativi che si pongono con riguardo al ruolo di quest'ultimo ai fini dell'accertamento del danno morale.

Il rapporto con l'area biologica del pregiudizio

Per capire come inquadrare l'intervento tecnico del medico legale ai fini dell'accertamento del danno morale, è necessario operare una distinzione tra due casistiche che appaiono assai diverse l'una dall'altra:

  • quella in cui il danno morale è generato da un torto che, in prima battuta, incide su un interesse diverso dalla salute;
  • quella in cui l'illecito colpisce direttamente l'integrità psico-fisica della vittima.

Quando la sofferenza emotiva appare generata dalla violazione di un interesse diverso dalla salute, è fuor di dubbio che tale pregiudizio debba essere preso in considerazione, sul piano risarcitorio, in maniera autonoma.

A tale conclusione bisogna approdare anche laddove il turbamento emotivo assuma una consistenza tale da innescare un'ulteriore lesione in capo alla vittima, provocando una malattia di carattere psichico. In questo caso ci troviamo di fronte a un illecito avente valenza plurioffensiva, in seno al quale il danno morale viene a rivestire un duplice ruolo.

Da un lato, esso incarna una compromissione derivante dalla violazione di una situazione giuridica autonomamente rilevante, configurandosi quale danno-conseguenza.

Dall'altro lato, esso rappresenta la fonte di una lesione alla salute psichica della vittima (e quindi di un danno-evento) da cui sortiranno ulteriori ripercussioni negative, riconducibili essenzialmente alla componente biologica del pregiudizio.

È evidente che la liquidazione di quest'ulteriore danno dipenderà esclusivamente dalla consistenza assunta dalla malattia mentale: la quale, è bene evidenziare, si rivela del tutto indipendente dall'ordine di grandezza della sofferenza che l'ha originata.

Non appare percorribile, pertanto, l'idea che il danno biologico possa assumere valenza assorbente rispetto a quest'ultima: la componente morale del pregiudizio deve rimanere distinta, e come tale oggetto di autonoma liquidazione, in quanto generata dalla violazione di un interesse diverso dalla salute (per cui nessun ruolo potrà svolgere nel relativo accertamento il medico-legale).

Una diversa ipotesi ricorre, invece, quando il torto sia tale da incidere direttamente sull'integrità psico-fisica della vittima.

Doveroso è, anzi tutto, precisare che in una simile ipotesi sarebbe improprio parlare di un danno morale che degenera in danno biologico, visto che è piuttosto la lesione della salute a innescare (anche) sofferenze di carattere emotivo. In relazione a queste ultime, si tratta di tener conto di quelle affermazioni delle Sezioni Unite propense a ritenere che costituirebbe «duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale».

Senza voler entrare nell'annosa disputa generata da questo tipo di indicazioni con riguardo alla supposta perdita di autonomia del danno morale, ci limiteremo ad osservare che, ove sia in gioco la lesione della salute, il medico legale riveste senza dubbio una posizione privilegiata nell'accertamento della sofferenza (non solo di carattere fisico, ma anche) di tipo emotivo generata dalla menomazione psico-fisica.

La lesione della dignità come specifico profilo del danno morale

Considerato che, a fronte di un determinato livello percentuale di invalidità (cui corrisponde una varietà assai ampia di tipi di lesioni), ben diverso può essere l'impatto di carattere sofferenziale indotto dalla patologia; e spetta proprio al medico legale registrare la ricorrenza e l'intensità di tale fenomeno, da intendersi quale compromissione distinta dall'invalidità, benché alla stessa correlato.

Una constatazione di questo tipo apre le porte ad una riflessione di carattere più generale, da avviare a livello giuridico, con riguardo alla nozione di danno morale.

Si tratta, in particolare, di chiedersi se la componente morale del pregiudizio si presti tuttora ad essere considerata quale fenomeno unitario o se, piuttosto, le peculiarità che caratterizzano le sofferenze legate alla lesione alla salute facciano emergere la necessità di riconoscere l'esistenza di un profilo pregiudizievole che nulla ha in comune con il patema d'animo generato da altri tipi di illecito.

Tale interrogativo diviene ancor più pressante a fronte delle evoluzioni interpretative che, negli ultimi anni, sembrano rivolte verso un allargamento della nozione di danno morale: come conferma, in particolare, una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. civ., 19 ottobre 2016, n. 21058), propensa a evidenziare che tale pregiudizio «non è soltanto pretium doloris, ma anche la risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana». Di qui l'affermazione secondo cui «nel liquidare il danno morale il giudice deve dare allora motivatamente conto del relativo significato al riguardo considerato, e in particolare se lo abbia valutato non solo quale patema d'animo (o sofferenza interiore o perturbamento psichico), di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana».

Una prospettiva volta a valorizzare il ruolo della dignità in seno alla nozione di danno morale trova riscontro anche a livello normativo. Si rammenta come il d.P.R. n. 37/2009, nello stabilire i criteri per il calcolo dell'invalidità permanente dei soggetti rimasti vittime di infermità per cause di servizio riportate in missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, abbia affermato, all'art. 5, lett. c, che «la determinazione della percentuale del danno morale viene effettuata, caso per caso, tenendo conto dell'entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso».

Anche il d.P.R. n. 181/2009, che reca i criteri medico-legali per l'accertamento e la determinazione dell'invalidità e del danno biologico e morale a carico delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, a norma dell'art. 6 l. 3 agosto 2004, n. 206, definisce, all'art. 1, lett. b, quale danno morale «il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal fatto lesivo in sé considerato» e, all'art. 4, lett. c), dispone la determinazione della percentuale di danno morale in maniera autonoma rispetto a quella relativa al danno biologico, stabilendo che essa va effettuata «tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi ed in rapporto all'evento dannoso».

In conclusione

Il richiamo alla dignità, che la Suprema Corte ripropone nella sentenza Cass. civ., 19 ottobre 2016, n. 21058, confermando analoghe indicazioni già emerse in passato da parte dei giudici di legittimità, apre le porte all'idea circa l'esistenza di compromissioni morali distinte dalla sofferenza emotiva, senza che però venga definito con precisione il fenomeno da prendere in considerazione ai fini risarcitori. Limitarsi a parlare genericamente di lesione della dignità rischia, in effetti, di favorire un ritorno alla teoria del danno-evento, per evitare il quale sarà necessario individuare la dimensione peculiare del pregiudizio che risulta alla stessa correlata.

Poiché la dignità viene a riflettere il valore intrinseco e inestimabile di ciascun individuo, la relativa tutela vale a garantire il rispetto di ogni persona.

Una lesione della dignità è destinata ad emergere, perciò, a livello aquiliano ove l'illecito sia avvenuto con modalità tali da disconoscere, in capo alla vittima, il valore della stessa quale persona. In casi del genere il danno viene ad essere incarnato (oltre che dalla sofferenza soggettiva) dalla oggettiva mancanza di rispetto perpetrata nei confronti del danneggiato. Una tale compromissione emergerà esclusivamente a fronte di alcuni tipi di illecito (come accade nella fattispecie esaminata dalla sentenza n. 21058 (Cass. civ., 19 ottobre 2016, n. 21058), dove la vittima riporta bensì una modesta percentuale di invalidità, che tuttavia risulta conseguenza di un'aggressione violenta con arma da taglio da parte del danneggiante), e la relativa ricorrenza dovrà essere accertata dal giudice, alla stregua delle indicazioni che emergono al riguardo dalla coscienza sociale.

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