La gestante non è informata sulle gravi malformazioni del feto: le Sezioni Unite negano il risarcimento del danno al figlio nato affetto da sindrome di Down
23 Dicembre 2015
Il caso. I genitori della neonata affetta da sindrome di Down citano in giudizio la Asl di Lucca ed il medico ospedaliero, per chiedere il risarcimento dei danni subiti in proprio e quali esercenti la potestà sulla figlia minore. Il Tribunale di Lucca e la Corte d'Appello di Firenze rigettano le domande. Proposto ricorso in Cassazione, la Sezione Terza civile, con ord. n. 3569/2015, rimetteva la decisione alle Sezioni Unite, per dirimere precedenti contrasti insorti tra le Sezioni semplici. Le questioni poste al vaglio delle Sezioni Unite sono le seguenti:
Sulla prima questione, relativa all'onere della prova, le Sezioni Unite premettono che, ai sensi dell'art. 6, L. n. 194/1978, l'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, è consentita solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della gestante o siano stati accertati rilevanti processi patologici del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. «L'impossibilità della scelta della madre, pur nel concorso delle condizioni di cui all'art. 6, imputabile a negligente carenza informativa da parte del medico curante, è fonte di responsabilità civile». Occorre tuttavia che l'interruzione sia legalmente consentita e che siano accertabili, mediante appropriati esami clinici, le rilevanti anomalie del nascituro ed il loro nesso eziologico per la salute fisica o psichica della donna. Deve essere, quindi, provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza in presenza di molteplici circostanze:
Al riguardo le Sezioni Unite osservano che tali presupposti devono necessariamente essere allegati e provati dalla donna ex art. 2697 c.c., con un riparto che appare del resto rispettoso del canone della vicinanza della prova. Tuttavia è altresì ammissibile il ricorso alla prova per presunzioni ex art. 2729 c.c., che consiste nell'inferenza di un fatto ignoto da un fatto noto, non solo sulla base di correlazioni statisticamente ricorrenti secondo l'id quod plerumque accidit, ma anche di circostanze contingenti (anche atipiche) emergenti dai dati istruttori raccolti: il ricorso al consulto medico proprio per conoscere le condizioni di salute del nascituro; le precarie condizioni psicofisiche della gestante eventualmente verificabili tramite C.T.U.; le pregresse manifestazioni di pensiero potenzialmente sintomatiche di una propensione abortiva in caso di grave malformazione del feto, ecc.. In definitiva le Sezioni Unite accolgono il ricorso avente ad oggetto l'onere della prova perché la Corte d'Appello di Firenze aveva omesso di prendere in considerazione la possibilità di una prova presuntiva, in concreto desumibile dai fatti allegati.
Sulla seconda questione, le Sezioni Unite prendono le mosse dal principio consacrato nell'art. 1 c.c.: «La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita». Sono quindi eccezionali le norme che riconoscono i diritti in favore del nascituro (concepito o non concepito), subordinati al momento della nascita. È dunque in astratto possibile ritenere l'ammissibilità dell'azione del minore volta al risarcimento di un danno che assume ingiusto, cagionatogli durante la gestazione, dal momento che non si configura come ostacolo insormontabile l'anteriorità alla nascita del fatto illecito, in quanto si può essere destinatari di tutela anche senza essere soggetti dotati di capacità giuridica. Si deve invece scrutinare il contenuto stesso del diritto che si assume leso ed il rapporto di causalità tra la condotta del medico e l'evento di danno. Si parte quindi dal concetto di danno conseguenza, consacrato dall'art. 1223 c.c.: il danno fatto valere dal nato malformato sarebbe correlato alla vita stessa del bambino e l'assenza di danno alla sua morte. Ciò si traduce in una contraddizione insuperabile: «la non vita non può essere un bene della vita»! Il supposto interesse a non nascere mette in scacco il concetto stesso di danno. Tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell'attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia, come indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del c.d. diritto alla felicità); l'ordinamento non riconosce il diritto alla non vita. Allo stesso modo non vale invocare il diritto di autodeterminazione della madre leso dalla mancata informazione sanitaria, ai fini di una propagazione intersoggettiva dell'effetto pregiudizievole, poiché in tal modo si finirebbe per estendere al nascituro una facoltà che è concessa dalla legge alla gestante. In quest'ottica viene meno anche il fondamento della tesi che àncora la sussistenza del credito risarcitorio ai c.d. doveri di protezione di cui sarebbe beneficiario il nascituro. Infatti la giustificata titolarità del credito risarcitorio ex contractu da parte del nato non supera ancora una volta l'ostacolo dell'inesistenza di un danno conseguenza, per effetto della mancata interruzione della gravidanza. Il contrario indirizzo favorevole alla riconoscibilità di una pretesa risarcitoria del nato malformato verso il medico, pur tendendo a soluzioni di giustizia sostanziale, finisce, in ultima analisi, con l'assegnare al risarcimento del danno una impropria funzione vicariale, suppletiva di misure di previdenza ed assistenza sociale.
(Per un approfondimento: F. Martini, Le Sezioni Unite definiscono la disciplina del danno da “nascita indesiderata” e M.Bona, Sezioni Unite n. 25767/2015 e danni da “wrongful birth”: quali punti fermi?, in Ri.Da.Re., ) |