Condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a titolo di responsabilità processuale aggravata: la proposta dell'Osservatorio di Milano

Cesare Trapuzzano
27 Gennaio 2017

La prevalente funzione sanzionatoria della condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, che il giudice della causa civile può disporre, in ogni caso, anche d'ufficio, all'esito della liquidazione delle spese di lite, a carico della parte soccombente e in favore della parte vincitrice, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., porta con sé due precipitati: da un lato, la necessità di ricondurre detta condanna, nonostante la formula lacunosa della disposizione, ad un giudizio minimo di rimproverabilità, ossia all'integrazione di una condotta abusiva sul piano processuale che sia addebitabile a mala fede o quantomeno a colpa grave; dall'altro, l'esigenza di contingentare la relativa liquidazione, ancorandone la quantificazione proporzionale in concreto a parametri orientativi elaborati dalla prassi applicativa, che potrebbero essere rappresentati in astratto dalla misura dei compensi di lite, dall'indennizzo liquidabile per l'irragionevole durata del processo, dal valore della controversia, dall'entità della somma capitale oggetto della condanna principale, individuando quale di tali indici si adatti meglio al raggiungimento del fine che la norma si prefigge.
Inquadramento

La formulazione lessicale dell'art. 96, comma 3, c.p.c., come introdotto dall'art. 45, comma 12, della l.18 giugno 2009, n. 69, pone delicate questioni interpretative, sia sul piano strutturale, con riferimento all'enucleazione degli elementi costitutivi della fattispecie ivi descritta, sia sul piano funzionale, con riguardo all'identificazione della finalità della condanna irrogata in applicazione di tale norma, sia, in ultimo, sul piano liquidativo, in ordine agli indici orientativi per la quantificazione della somma equitativamente determinata, in difetto di alcuna cornice edittale stabilita dalla disposizione. Le problematiche innanzi esposte devono trovare risoluzione muovendo innanzitutto dal dato letterale della disposizione, che testualmente consente, in ogni caso, al giudice di liquidare, anche d'ufficio, una somma equitativamente determinata in esito alla regolamentazione delle spese di lite nei confronti della parte soccombente e in favore della parte vincitrice, senza nulla aggiungere, né quanto ai presupposti oggettivi e ai requisiti di addebitabilità di tale scelta, né quanto ai criteri di contenimento dell'ammontare a tale titolo fissato. La soluzione di tali questioni deve essere ricercata anche seguendo un'interpretazione logica della disposizione, in chiave comparativa con la lettera dei due commi precedenti, i quali testualmente fanno riferimento al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata, ove ricorra la mala fede o la colpa grave del soccombente nell'agire o nel resistere in giudizio, su istanza della controparte, con possibile liquidazione del danno anche d'ufficio. Ulteriori dati significativi possono rintracciarsi nella previsione di cui al comma 4 dell'art. 385 c.p.c., che regolava, appunto con una formula analoga, la responsabilità del soccombente nel giudizio di legittimità, comma che è stato abrogato dalla stessa legge che ha introdotto il comma 3 dell'art. 96. Spunti rilevanti in ordine agli aspetti indicati provengono altresì dalle analisi della dottrina e della giurisprudenza, oltre che dalla pronuncia della C. cost., 23 giugno 2016, n. 152 ha affrontato e risolto il nodo relativo al profilo teleologico dell'istituto, in sintonia con le riflessioni già rassegnate sia dalla dottrina maggioritaria sia dalla giurisprudenza di merito e di legittimità prevalenti.

Elementi costitutivi della fattispecie

Secondo il consolidato orientamento dottrinario e giurisprudenziale, la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata, a carico della parte soccombente e a vantaggio della parte vincitrice del giudizio, postula la ricorrenza di elementi minimali, sia sul piano oggettivo sia sul piano soggettivo, affinché la fattispecie delineata dalla norma possa ritenersi integrata. Sotto il profilo oggettivo, costituisce dato comunemente recepito quello secondo cui, perché il giudice possa procedere, anche d'ufficio, alla liquidazione di una somma ulteriore rispetto alla rifusione dei compensi di lite, è necessario che il soccombente abbia posto in essere una condotta, attiva od omissiva, processualmente rilevante, concretantesi nella realizzazione di un abuso dello strumento giudiziale, sotto l'aspetto dell'an, ossia per aver intrapreso un'azione giudiziaria manifestamente infondata, che non avrebbe dovuto introdurre, ovvero per aver indebitamente resistito ad un'azione giudiziaria manifestamente fondata, alla quale non avrebbe dovuto opporsi, determinando un'interferenza illegittima sul funzionamento della macchina giudiziaria, ma anche sotto l'aspetto del quomodo, ossia per avere selezionato modalità di difesa non adeguate, quanto ai termini di radicamento della pretesa giudiziale attivata ovvero con riguardo all'assetto delle deduzioni svolte per resistere alla domanda giudiziale spiegata. Sul piano giuridico siffatti contegni assunti nel processo denotano un impiego strumentale dei mezzi che l'ordinamento appresta per la tutela dei propri diritti nonché un aggravamento illegittimo dell'efficienza del processo in chiave general-preventiva. In questa prospettiva il comportamento che integra la fattispecie si connota per la sua portata temeraria, dilatoria o emulativa e, sotto questo aspetto, determina un uso abusivo del processo, quale dinamica contingente che l'introduzione della norma mira a prevenire nell'intento di realizzare un obiettivo di natura pubblicistica, ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost., norme da cui può desumersi che la piena realizzazione del diritto di difesa, con la conseguente soddisfazione e tutela delle legittime pretese vantate dai consociati (rectius le situazioni giuridiche soggettive sostanziali riconosciute dall'ordinamento), presuppone l'accesso ad un mezzo, qual è appunto il processo, connotato dai corollari del buon andamento processuale e della ragionevole durata, scopi antitetici a quelli perseguiti dai soggetti che utilizzano il processo in una dimensione dilatoria e speculativa. Pertanto, l'art. 96, comma 3, c.p.c. è direttamente funzionale al raggiungimento di un'esigenza deflattiva o deterrente o dissuasiva, oggi avvertita più che mai alla stregua dell'enorme mole di arretrato pendente, cioè volta a calibrare l'uso del processo, evitando il ricorso al giudizio in termini avventati, casuali, scorretti, superficiali, smodati. Così si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, secondo cui la parte che non abbia adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione e comunque abbia agito senza aver compiuto alcun serio sforzo interpretativo, deduttivo, argomentativo, per mettere in discussione con criteri e metodo di scientificità la giurisprudenza consolidata ed avvedersi della totale carenza di fondamento del ricorso, può essere condannata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (Cass. civ., 14 settembre 2016, n. 18057). Sotto il profilo soggettivo, benché la norma nulla disponga espressamente in proposito, un'interpretazione costituzionalmente orientata o adeguatrice impone di subordinare la condanna al pagamento di una somma determinata in via equitativa ad un giudizio di rimproverabilità subiettiva del soccombente. Altrimenti, si determinerebbe un'ipotesi di responsabilità oggettiva, contrastante con i principi costituzionali. Per l'effetto, si ritiene che gli elementi della mala fede o quantomeno della colpa grave, espressamente richiesti dal comma 1 dello stesso articolo per il risarcimento dei danni a titolo di responsabilità processuale aggravata, concorrano anche all'integrazione della fattispecie regolata dal comma 3. Gli ultimi arresti giurisprudenziali depongono in questo senso (Cass. civ., 30 novembre 2012, n. 21570; Cass. civ., 11 febbraio 2014, n. 3003; Cass. civ., 22 febbraio 2016, n. 3376; Cass. civ., 16 giugno 2016, n. 12413). Naturalmente la mala fede o colpa grave devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso e non singoli aspetti di essa, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé.

Funzione della previsione

La giurisprudenza di legittimità, nonché la prevalente giurisprudenza di merito, ritengono che la previsione introdotta dalla l. n. 69 del 2009 non possa essere ricondotta ad una finalità compensativa o risarcitoria, ma realizzi uno scopo sanzionatorio, conseguente ad una valutazione di meritevolezza del comportamento del soccombente sub specie di eccesso dello strumento processuale, indipendentemente dall'esistenza di un nocumento procurato alla controparte e dalla proposizione di una sua istanza conforme. È stata così introdotta una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell'avversario (Cass. civ., 30 luglio 2010, n. 17902; Cass. civ., 11 febbraio 2014, n. 3003). Sicché la norma mira a contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione. Tali conclusioni sono avvalorate dal riferimento della norma al pagamento di una somma determinata in via equitativa, anziché al risarcimento dei danni, come previsto dai commi 1 e 2 dello stesso articolo, nonché dalla possibilità riconosciuta dalla stessa norma di disporre la condanna a prescindere dall'esistenza di una conforme istanza di parte, ossia anche d'ufficio. Questa ricostruzione è stata da ultimo avallata dalla Consulta (C. Cost., 23 giugno 2016, n. 152), che ha inserito la previsione nell'alveo delle condanne afflittive, di cui altri esempi si rinvengono nell'ordinamento giuridico. Si pensi, fra le altre disposizioni, alla norma sulle misure coercitive indirette che possono essere disposte ove siano violati obblighi di consegna o rilascio ovvero di fare o non fare, di cui all'art. 614-bis c.p.c. (come modificato, da ultimo, dall'art. 13, comma 1, lett. cc ter, del d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. con mod. in l. 6 agosto 2015, n. 132), alle sanzioni (ammonimento, risarcimento, sanzione amministrativa) che il giudice può irrogare nel caso di violazione delle prescrizioni in tema di separazione (e, in specie, nel caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento), di cui all'art. 709-ter, comma 2, c.p.c., alle sanzioni speciali previste in materia di editoria, proprietà industriale e intellettuale e, infine, alle sanzioni pecuniarie di natura civilistica che il giudice competente sull'azione risarcitoria può irrogare per gli illeciti civili depenalizzati di cui al d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (Cass. pen., Sez. Un. 7 novembre 2016, n. 46688). A questo proposito, con ordinanza, la Cassazione (Cass. civ., 16 maggio 2016 n.9978) ha rimesso alle Sezioni Unite la questione relativa all'ammissibilità nel nostro ordinamento della figura dei punitive damages, escludendo quindi che si profili a priori la contrarietà all'ordine pubblico delle sentenze straniere (e, in specie, del diritto nord-americano) che prevedano danni punitivi, ai fini dell'exequatur, a norma degli artt. 16, 64 e 65 della l. 218 del 31 maggio 1995, come invece si riteneva in passato (Cass. civ., 19 gennaio 2007, n. 1183; Cass. civ., 8 febbraio 2012, n. 1781). Tanto premesso, la Corte costituzionale, pur ritenendo che la norma in oggetto sia funzionale al perseguimento di uno scopo afflittivo, a salvaguardia dell'interesse pubblico al buon funzionamento del processo e a prevenzione dei contegni abusivi di natura processuale atti a compromettere l'efficienza processuale, ha escluso l'irragionevolezza della previsione nella parte in cui dispone che la condanna pecuniaria a carico del soccombente sia appannaggio della controparte e non dell'erario. In conseguenza, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze, che richiedeva una pronuncia sostitutiva della previsione normativa, nella parte in cui stabilisce che il beneficiario della condanna sia la parte vincitrice, anziché lo Stato, con riferimento ai parametri degli artt. 3, 24 e 111 Cost. Al riguardo, si è affermato che rientra nella discrezionalità del legislatore il perseguimento del fine pubblicistico anzidetto mediante l'irrogazione di una pena pecuniaria, rimessa al giudice civile della causa intentata, che può provvedervi anche d'ufficio, il cui introito vada a vantaggio del patrimonio della parte vincitrice e non entri nelle casse dell'erario, poiché tale scelta mantiene comunque una sua logica. Per un verso, garantisce l'effettività della riscossione, poiché la parte privata, a favore della quale il pagamento della somma è disposto, è in grado di curarne più efficacemente l'esecuzione con minori oneri e aggravi. Per altro verso, l'individuazione del beneficiario della condanna nella parte vincitrice consente il raggiungimento di una concorrente finalità indennitaria, oltre che sanzionatoria, nell'ipotesi in cui detta parte vincitrice, in conseguenza della condotta abusiva posta in essere dalla parte soccombente, abbia subito un pregiudizio, di cui sia arduo dimostrare l'an e il quantum.

Indici per la quantificazione della sanzione

La norma non fissa alcuna cornice edittale. Si pone, dunque, il problema di individuare dei parametri orientativi per la quantificazione della somma dovuta a tale titolo, di cui si prevede esclusivamente una valutazione equitativa, allo scopo di evitare che la liquidazione spettante al giudice nel caso concreto si traduca in un vero e proprio arbitrio. Al riguardo, i precedenti sull'argomento hanno seguito sostanzialmente i seguenti percorsi. Una prima opinione ha ritenuto, facendo riferimento al testo abrogato del precedente comma 4 dell'art. 385 c.p.c., che la somma dovuta a tale titolo debba essere quantificata in proporzione ai compensi di lite, a partire da un minimo di un mezzo fino al massimo del doppio. Un secondo divisamento ha sostenuto che la liquidazione debba avvenire in proporzione ai parametri per l'indennizzo stabiliti dalla legge Pinto per i processi la cui durata sia irragionevole. Infine, un ultimo orientamento ha affermato che la quantificazione debba avvenire in proporzione all'entità della sorte capitale oggetto della condanna principale ovvero del valore della domanda giudiziale. Appare maggiormente convincente la prima tesi, come proposto dall'Osservatorio istituito presso il Tribunale di Milano, che consente di confinare la liquidazione entro i limiti dello scopo che la norma si prefigge. Anche la giurisprudenza di legittimità aderisce a tale conclusione. Sul punto, ha, infatti, sostenuto che, in tema di responsabilità aggravata, il comma 3 dell'art. 96 c.p.c., aggiunto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, disponendo che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una «somma equitativamente determinata», non fissa alcun limite quantitativo, né massimo, né minimo, al contrario del comma 4 dell'art. 385 c.p.c., che, prima dell'abrogazione ad opera della medesima legge, stabiliva, per il giudizio di cassazione, il limite massimo del doppio dei massimi tariffari. Pertanto, la determinazione giudiziale deve solo osservare il criterio equitativo, potendo essere calibrata anche sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, con l'unico limite della ragionevolezza (Cass. civ., 30 novembre 2012, n. 21570). Su questa linea si muove anche la delega al Governo, recante disposizioni per l'efficienza del processo civile, di cui all'atto del Senato n. 2284, in corso di esame in commissione permanente in sede referente dal 9 novembre 2016, che - tra le modifiche al codice di rito - prevede appunto l'inserimento di una cornice edittale della condanna di cui all'art. 96, comma 3, parametrata ai compensi di lite, e segnatamente stabilisce il pagamento, a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede, di una somma, in favore della controparte, determinata tra il doppio e il quintuplo delle spese legali liquidate. Il medesimo disegno di legge-delega prevede altresì l'introduzione di una condanna integrativa a favore delle casse dell'erario e precisamente la condanna, anche d'ufficio, della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave al pagamento di una sanzione pecuniaria in favore della Cassa delle ammende, di importo determinato, tenendo conto del valore della controversia, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per l'introduzione del giudizio. Pertanto, allo stato, appare congrua la liquidazione del danno presunto da abuso del processo, adoperando il parametro delle spese di lite (ossia il compenso defensionale ex d.m. Giustizia n. 55 del 10 marzo 2014), con liquidazione pari ad una volta il compenso, riducibile ad ½ ed aumentabile sino al doppio del compenso defensionale, come risulta dalle pronunce di merito prevalenti (vedi l'analisi svolta sul punto dall'Osservatorio ambrosiano). Entro questa forbice il giudice può muoversi discrezionalmente, sulla scorta di indici quali il valore della causa, l'intensità dell'elemento soggettivo dell'abuso, il numero delle parti, la durata del processo e l'impegno difensivo della parte danneggiata dall'abuso, in assonanza con il disposto dell'art. 132 c.p. quanto alla determinazione della pena del reato commesso.

In conclusione

Il ricorso ad uno strumento processuale con portata deflattiva e deterrente, che consente al giudice di disporre la condanna al pagamento di una somma equitativamente determinata a carico della parte soccombente e a vantaggio della controparte, indipendentemente dalla conforme istanza dell'avente diritto, ossia anche d'ufficio, e senza che sia necessaria la dimostrazione - o comunque l'emersione dagli atti di causa - di un pregiudizio effettivamente patito, almeno in termini di precisa identificazione di un nocumento arrecato e della sua estensione quantitativa, impone una revisione, o quantomeno un aggiornamento, della tradizionale tesi giurisprudenziale che esclude in radice l'ammissibilità del nostro ordinamento giuridico della categoria dei danni punitivi, perché contrari all'ordine pubblico interno. Ciò non toglie però che la prospettazione di tale condanna, integrativa rispetto alla regolamentazione delle spese di lite, esiga una specifica delimitazione strutturale, funzionale e quantitativa, al fine di ricondurre il relativo potere giudiziale conferito dalla norma entro puntuali binari applicativi. Con riferimento all'aspetto strutturale, la condanna postula che il soccombente abbia adottato una condotta processuale, attiva od omissiva, abusiva, caratterizzata sul piano soggettivo, ossia riconducibile a mala fede o colpa grave. Il collegamento della condanna all'uso strumentale del processo, addebitabile alla parte soccombente, permette di raggiungere un obiettivo di effettività della tutela collocabile nell'alveo della responsabilità processuale aggravata, attesa la concreta difficoltà della dimostrazione del danno cui è subordinata la condanna prevista dai commi 1 e 2 della stessa disposizione. Ed invero, dall'analisi casistica emerge che, prima della novella, le condanne ai sensi dell'art. 96 c.p.c. sono state veramente esigue, poiché le relative domande si arenavano proprio per il difetto della dimostrazione del pregiudizio, finendo così con il compromettere gli obiettivi che la norma intendeva assolvere sulla carta. Sotto l'aspetto funzionale, la previsione mira a realizzare, non già il classico puro scopo reintegratorio, riparatorio o compensativo del risarcimento dei danni, ma più propriamente una funzione afflittiva o sanzionatoria, eventualmente associata ad una concorrente funzione indennitaria, per l'ipotesi in cui sia difficile, per la controparte che abbia patito un pregiudizio causalmente imputabile al contegno difensivo della parte soccombente, dimostrare l'integrazione e l'entità del danno. Anche la natura sanzionatoria dell'istituto concorre a realizzare il principio di effettività della tutela giudiziale, essendo chiaramente desumibile da siffatta natura l'intento di attribuire alla previsione introdotta dalla l. n. 69/2009 un ruolo dissuasivo e disincentivante del ricorso temerario, pretestuoso, avventato o improvvisato al processo. Con riguardo al profilo liquidativo, benché la norma nulla disponga espressamente in proposito, è necessario ancorare la determinazione della somma fissata in via equitativa a degli indici esterni con valenza solo orientativa, che, da un lato, consentano l'attuazione della portata dissuasiva della disposizione, evitando così quantificazioni irrisorie o meramente simboliche, e dall'altro impediscano lo sconfinamento dell'equità nel mero arbitrio, attraverso la disposizione, a tale titolo, di condanne manifestamente eccessive, come è stato puntualmente argomentato nei lavori conclusivi svolti dall'Osservatorio meneghino. Ed infatti, il diritto di azione è suscettibile di essere irragionevolmente leso da danni punitivi non proporzionati (Cass. civ., 19 aprile 2016, n. 7726). In merito, si ritiene che la liquidazione effettuata in proporzione al parametro delle spese di lite permetta di contemperare le due esigenze, come è stato confermato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito prevalenti che si sono espresse sul punto, dando credito a tale criterio di riferimento.

Guida all'approfondimento
F.D. BUSNELLI - E. D'ALESSANDRO, L'enigmatico ultimo comma dell'art. 96 c.p.c.: responsabilità aggravata o “condanna punitiva”?, in Danno e resp., 2012, 585 ss.; L. FRATA, L'art. 96, comma 3, cod. proc. civ. tra danni punitivi e deterrenza, in La nuova giur. civ. comm., 2012, I, 271 ss.; P. PORRECA, L'art. 96, 3° comma, c.p.c. tra ristoro e sanzione, in Foro it., 2010, I, 2242 ss.; G. SCARSELLI, Il nuovo art. 96, 3° comma, c.p.c.: consigli per l'uso, in Foro it., 2010, I, 2237 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Principio di effettività, tutela civile dei diritti e danni punitivi, in www.RiDaRe.it; C. TRAPUZZANO, La responsabilità processuale aggravata, Roma, 2014.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario