Diffamazione a mezzo stampa
26 Gennaio 2017
Individuazione di criteri per la quantificazione del danno
In un momento in cui il ricorso alla giustizia civile in materia di diffamazione a mezzo stampa appare in continua crescita, non può non porsi il problema dell'individuazione dei criteri liquidativi del pregiudizio che ne consegue. Posto che il danno che ne deriva è quello da lesione della reputazione e che, in quanto relativo ai valori della persona presenta natura non patrimoniale, la pronuncia deve necessariamente ispirarsi ad equità. Se da un lato il Giudice è chiamato ad effettuare una valutazione adeguata e proporzionata, tenuto conto del caso specifico in tutti i suoi aspetti, dall'altro non può non garantire uniformità di trattamento rispetto a casi analoghi (Cass. civ., sez. III, 23 gennaio 2014, n. 1361 «È inidonea una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice e, quindi, in assenza di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni, sostanzialmente al suo mero arbitrio»). È evidente, pertanto, la difficoltà concreta di assicurare un contemperamento tra la discrezionalità rimessa al magistrato nel decidere e una certa concordanza tra soluzioni di ipotesi diffamatorie similmente lesive. Se una valutazione disancorata da qualsivoglia criterio vale a teoricamente assicurare un'adeguata personalizzazione del risarcimento, non altrettanto può dirsi circa la parità di trattamento e la prevedibilità della decisione (Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011, n. 12408, ove si sottolinea come la circostanza che lesioni della stessa entità, patite da persone della stessa età e con conseguenze identiche, siano liquidate in modo fortemente difforme non possa ritenersi una mera circostanza di fatto, ma integri una vera e propria “violazione della regola di equità”). Unico rimedio per superare l'impasse è quello di stabilire una serie concatenata di elementi cui dovrà essere ancorato l‘esame del contenzioso, pur facendo salva la soggettività del giudicante.
Ed in tal senso, non può non riconoscersi la grande utilità del lavoro effettuato dall'Osservatorio Milanese Danno alla Persona, gruppo 7, che con parsimonia e scrupolo d'analisi, ha classificato per punti i criteri da adottare per quantificare il danno:
Seguendo tali parametri di riferimento diviene possibile graduare l'intensità della diffamazione e, attribuito il giusto peso alla condotta lesiva, determinare la liquidazione sulla base di un valore indicativo (20.000 Euro per ipotesi di diffamazione di media gravità). Stabiliti questi importanti passaggi, non pare un'utopia l'ipotesi di un sistema tabellare che preveda una “forbice” variabile da un minimo ad un massimo, per ogni possibile caso, a seconda di come lo si classifichi: lievemente, mediamente o gravemente lesivo. Arginando l'entità del danno verrebbe fatto salvo, comunque, il potere di autodeterminazione del giudice sulla scelta della categoria in cui inserire il fatto lesivo e sul valore da attribuirgli e, al tempo stesso, verrebbe garantita l'omogeneità dei risarcimenti (Cass. civ. sez. III, 19 maggio 1999 n. 4852 «Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta dall'art. 1226 c.c.»). Prova della diffamazione
Lo studio compiuto dall'Osservatorio Milanese Danno alla Persona, gruppo 7, potrebbe essere approfondito, esaminando quante tra le domande proposte siano state accolte e quali siano stati i motivi degli eventuali rigetti. Verrebbe in tal modo chiarito quando la prova a carico dell'attore possa ritenersi raggiunta, posto che è pacifico che si versi in ipotesi di danno-conseguenza, con obbligo di allegazione da parte di chi domanda il risarcimento (Cass. civ., sez. VI, 24 settembre 2013, n. 21865; Cass. civ., sez. I, 11 ottobre 2013, n. 23194; per approfondimenti, vedi anche DAMIANO SPERA, Il Danno non patrimoniale esistenziale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza? in Ri.Da.Re.). Dalla prova del fatto lesivo della reputazione non deriva automaticamente quella del pregiudizio subito, che deve essere fornita dal danneggiato con ogni mezzo, ivi incluse le presunzioni semplici (Damiano Spera, pag. 12 “Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore”; vd. anche Cass. civ., n. 9834 del 2002; Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2012, n. 17490). È necessario che l'allegazione sia circostanziata, ossia che riguardi fatti precisi e specifici dell'ipotesi per cui è causa, non ammettendosi enunciazioni di carattere del tutto generico ed astratto, eventuale ed ipotetico (Cass. civ., sez. III, 13 maggio 2011, n. 10527; Cass. civ., 25 settembre 2012, n. 1655). Il principio dispositivo ed il relativo onere probatorio ammettono una deroga allorché si ricorra al fatto notorio, sempre che la “notorietà” sia intesa in senso fortemente rigoroso e del tutto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile (App. Roma, 26 aprile 2010; Cass. civ., n. 23978/2007). In sede civile è ammessa la formulazione di richiesta risarcitoria anche allorché la diffusione di un messaggio denigratorio presenti natura colposa e non integri, pertanto, la fattispecie di reato di cui all'art. 595 c.p. (Cass. civ., 19 ottobre 2007, n. 22020). Ciò non è indifferente ai fini della possibilità di ottenere la riparazione pecuniaria di cui all'art. 12, l. 47/1948, che ha carattere aggiuntivo e non sostitutivo rispetto al risarcimento del danno vero e proprio. Poiché la giurisprudenza considera indispensabile, a tal fine, che sussistano tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione, chi scrive ritiene che occorra la prova del dolo, anche se incidentalmente accertata. (Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2007, n. 17395). Sarebbe interessante che l'Osservatorio di Milano Danno alla Persona, gruppo 7, verificasse in quanti casi sia stata riconosciuta la riparazione pecuniaria de qua, ritenendo dimostrata l'intenzionalità della condotta lesiva, specificando, altresì, gli importi. Si potrebbero, in tal modo, individuare possibili “range” entro cui collocare detta voce in base alla gravità del comportamento diffamatorio.
Rimedi riparatori
Posto che non può riconoscersi al risarcimento del danno un'effettiva valenza riparatoria, laddove l'offesa abbia riguardato l'onore e la reputazione di una persona - valori non equiparabili a “merce di scambio” - occorre pensare ad altri rimedi aggiuntivi. Si legge spesso nelle pronunce, ivi incluse quelle raccolte dall'Osservatorio di Milano Danno alla Persona, gruppo 7, di condanne a provvedere alla pubblicazione della sentenza (ai sensi dell'art. 186 c.p. e art. 9 l. stampa). Pare a chi scrive che per riconoscersi al rimedio de quo una funzione compensativa, concreta e non solo teorica, sia necessario, da un lato, che la pubblicazione avvenga a breve distanza di tempo dai fatti e, dall'altro, che abbia lo stesso rilievo dato dal medium alla notizia diffamatoria (Cass. pen., Sez. Un., 21 maggio 1988-21 aprile 1989 n. 6168, e Cass. pen., sez. V, 30 maggio-24 agosto 2001, n. 31680, chiarisce che essa può essere accordata solo se sia effettivamente in grado di lenire il danno provocato dalla diffusione della notizia). Altro strumento utilizzabile ed operativo solo nell'ambito della diffamazione a mezzo stampa e delle trasmissioni radiotelevisive (art. 10, comma 2 e ss., l. 6 agosto 1990, n. 223) è quello della rettifica, allorché richiesta dal diffamato (art. 8, l. 47/1948, come modificato dall'art. 42 della l. 5 agosto 1981, n. 416). La rettifica non è rimessa alla discrezionale valutazione del direttore, ma deve avere corso in tutti i casi in cui ne ricorrano i presupposti, con i soli limiti stabiliti dalla legge; tale obbligo non viene meno neanche quando, al momento della pubblicazione, la notizia appariva rispondente al vero, anche se poi, grazie ai successivi accertamenti, essa si delinea in termini diversi da quelli precedentemente conosciuti (Cass. civ., sez. III, 24 novembre 2010, n. 23835). L'art. 8, comma 1, l. 47/1948, prevede, accanto all'obbligo di rettifica a carico del direttore, anche quello di inserire le “dichiarazioni” dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri. Chi scrive ritiene di dovere condividere l'orientamento di coloro che ravvisano l'opportunità di riconoscere normativamente, accanto all'obbligo di rettifica, un vero e proprio diritto di replica, ossia diritto di rispondere, puntualmente, alle accuse, alle censure, alle critiche ingiustamente ricevute. Posto che lo scopo degli Osservatori è anche quello di essere propositivi e di fare fronte alla necessità di colmare lacune legislative, potrebbe formularsi la proposta dell'utilizzo di tale strumento che, del resto, appare previsto dalla “Raccomandazione” n. 13 del 10 luglio 2003 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa (Principi relativi alle informazioni fornite attraverso i mezzi di comunicazione in rapporto a procedimenti penali).
FUMO M., L'onore dell'onore, in Critica liberale, agosto-settembre 2003, nn. 94-95, 162 ss; LOMBARDI M., Diffamazione e principi liberali, in Critica liberale, aprile 2003, 89 ss; MARTINELLI R., Sei anni di DDL, tra pluralismo, libertà di espressione e tutela dell'onore, in Dir. e Giustizia, 1/2004, 52 e ss; SPERA D., Il Danno non patrimoniale esistenziale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza? in Ri.Da.Re. |