La natura della responsabilità medica e sanitaria dopo il decreto Balduzzi
26 Marzo 2015
Il quadro normativo
L'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158 (in G.U. 13 settembre 2012 n. 214), recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute, nella versione originaria testualmente disponeva: «Fermo restando il disposto dell'articolo 2236 del codice civile, nell'accertamento della colpa lieve nell'attività dell'esercente le professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell'articolo 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell'osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale». La versione originaria della norma:
La norma, però, a seguito della conversione del D.l., con modificazioni, in L. 8 novembre 2012, n. 189, è stato completamente stravolto ed oggi recita: «L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo». La norma, così riscritta, ha una chiara ed inequivoca rilevanza penale, ma con un (ambiguo ed equivoco) riferimento civilistico: l'esercente la professione sanitaria che, nello svolgimento della sua attività, ha causato un danno al paziente ma ha osservato le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde in sede penale (per i fatti a lui imputati, lesioni colpose o omicidio colposo) per colpa lieve, fermo restando il suo obbligo, ai sensi dell'art. 2043 c.c., di risarcire il danno ingiusto. Le tre soluzioni fornite dagli interpreti
L'art. 3, 1° comma, D.L. 13 settembre 2012, n.158, nel testo definitivo, anche per la sua ambiguità ed equivocità, ha diviso gli interpreti.
L'adesione all'una o all'altra scuola di pensiero porta a conseguenze di non poco conto principalmente in tema di:
Una corretta interpretazione della norma, secondi i criteri utilizzabili dagli interpreti (e di cui subito si dirà), porta ritenere che le prime due scuole di pensiero non possono essere condivise mentre la terza appare la più corretta, ragionevole ed appagante I criteri di interpretazione della legge indicati dalle disposizioni sulla legge in generale
I criteri di interpretazione della legge sono indicati espressamente dall'art. 12 disposizioni sulla legge in generale (Preleggi) che dispone: «Nell'applicare la legge non si può attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dall'intenzione del legislatore». Tale norma stabilisce due criteri interpretativi della legge:
Tale norma, laddove prevede prima il criterio interpretativo letterale e poi quello logico, non privilegia il primo in danno del secondo in quanto:
La dottrina e la giurisprudenza, pertanto, hanno da tempo abbandonato il noto canone interpretativo meramente letterale scolpito nel brocardo «in claris non fit interpretatio» ed hanno esaltato l'interpretazione logica delle norme, privilegiando lo spirito o la ratio e l'intenzione del legislatore (Cass., 4 aprile 2014, n. 7981) al fine di «tendere, per quanto possibile, all'armonizzazione del sistema mediante il superamento delle sue distonie o criticità» (Cass., S.U., 20 luglio 2012, n. 12609). L'interpretazione letterale della disposizione di cui all'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158 porta a ritenere che la stessa:
La norma, infatti, a tal ultimo fine richiama l'art. 2043 c.c. - norma cardine ma non esclusiva della responsabilità risarcitoria da fatto illecito - ai soli fini di individuare un obbligo («obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile») e, cioè, quello di risarcire il danno ingiusto civile provocato anche con colpa lieve (e qui assume rilievo l'ingiustizia del danno prevista dall'art. 2043 c.c.) e non anche ai fini di individuare le norme civilistiche da applicare per l'accertamento della responsabilità (e non poteva fare diversamente atteso che la stessa norma si applica solo in caso di avvenuto accertamento, in sede penale, della responsabilità del professionista per colpa lieve). Il mero richiamo all'«obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile», non è in alcun modo sufficiente, pertanto, né ad escludere, in sede civile, l'applicazione della più onerosa responsabilità contrattuale a carico l'esercente la professione sanitaria, anche quello che svolge la sua attività quale dipendente o collaboratore di struttura pubblica, che segue le sue regole, né a ritenere che con esso sia stata abrogata tacitamente (o implicitamente) la responsabilità contrattuale, ex art. 1218 c.c.. La diversa (ed errata) interpretazione della norma fornita dai fautori delle prime due scuole di pensiero, porterebbe ad una sostanziale abrogazione tacita o implicita dell'art. 1218 c.c. nei confronti l'esercente la professione sanitaria. Ma ciò non solo è irragionevole ma non è consentito all'interprete in quanto ove tra una scelta ermeneutica che conduce ad una (impossibile per l'interprete) interpretatio abrogans dell'art. 1218 c.c. per gli esercenti la professione sanitaria ed una scelta ermeneutica che lascia alla predetta norma un ambito di validità per gli stessi esercenti, è da privilegiarsi, senza ombra di dubbio, la seconda scelta in quanto l'abrogazione delle norme è riservata al legislatore (che lo deve fare possibilmente in maniera espressa e, comunque, con scelta ragionevole) e non al giudice o all'interprete. Il legislatore, con la norma in esame (art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158), non ha in alcun modo inteso abrogare l'art. 1218 c.c. per gli esercenti la professione sanitaria. Deve ritenersi, pertanto, che da un punto di vista strettamente letterale la norma non ha in alcun modo previsto che la responsabilità civile dell'esercente la professione sanitaria sia esclusivamente extracontrattuale. L'interpretazione logica della disposizione di cui all'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158 - che tende a stabilire lo spirito o la ratio e l'intenzione del legislatore e, quindi, a rendere chiaro l'effettiva voluntas legis - porta a ritenere che il legislatore non abbia inteso in alcun modo introdurre una riforma così epocale in materia di responsabilità medica e sanitaria, riconducendo sia la responsabilità del medico (e figure affini) per l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di strutture sanitarie pubbliche (e private), sia delle strutture stesse sotto il solo regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1218 c.c.. I lavori preparatori, la relazione illustrativa al decreto legge, i vari passaggi parlamentari, infatti, nulla dicono in ordine alla genesi della norma e, soprattutto, che il richiamo «all'art. 2043 c.c.» sia stato inserito al fine di escludere la responsabilità contrattuale dell'esercente la professione sanitaria. Il titolo del D.L. indica che la finalità dell'intera normativa è quella di garantire ai cittadini «un più alto livello di tutela della salute». Tale finalità è confermata dalla premessa inziale del D.L. ove si legge che lo scopo e la finalità della normativa è quello di «garantire e promuovere…un più alto livello di tutela della salute…». Se questo è lo scopo e la finalità del D.l. non si comprende per quale ragione tale finalità debba essere perseguita attraverso una riduzione del livello di tutela risarcitoria dei pazienti-danneggiati con passaggio dalla responsabilità contrattuale dell'esercente la professione sanitaria a quella extracontrattuale. Il criterio storico
L'art. 1173 c.c. dispone che «le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico». La sistemazione delle fonti delle obbligazioni adottata dal codice civile del 1942, con la su richiamata norma, si basa su una tripartizione (contratto, fatto illecito e «ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico») proposta da Gaio nel Digesto giustinianeo (D 44.7.1. pr.: «obligationes aut ex contractu nascuntur aut ex maleficio, aut proprio quodam iure ex variis causarum figuris») che includeva nella terza categoria, di carattere residuale, tutte quelle che non erano riconducibili alle prime due. La dottrina, commentando la norma delle fonti delle obbligazioni del vigente codice civile, ha sostenuto che tra contratto e fatto illecito c'è una zona che può essere di pertinenza di tutti e di nessuno, una sorta di no man's land (F.D. Busnelli, Itinerari europei nella “terra di nessuno tra contratto e fatto illecito”: la responsabilità da informazioni inesatte, Contratto impr. 1991, 539 e segg.; conf., M. Franzoni, Il contatto sociale non vale solo per il medico, Resp. civ. prev. 2011, 9, 1693). In questa zona d'ombra tra contratto e fatto illecito si inserisce la teoria della responsabilità da contatto sociale - elaborata sul terreno civilistico dalla dottrina, sulla scorta di quella tedesca - che «si caratterizza come responsabilità per inadempimento senza obblighi di prestazione contrattualmente assunti, in fattispecie di danno di difficile inquadramento sistematico, ai confini tra contratto e torto» (Cass., 21 luglio 2011, n. 15992). La giurisprudenza di legittimità, in ordine al rapporto tra paziente e struttura sanitaria, ha costantemente affermato che esso è «un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c.» in virtù del quale la responsabilità della struttura sanitaria «prescinde dalla responsabilità o dall'eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all'esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno» (Cass, S.U., 11 gennaio 2008, n. 577 e succ. conformi; conf. Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972 e succ. conformi; Cass., S.U., 1 luglio 2002, n. 9556). Sempre la giurisprudenza di legittimità, in ordine al rapporto tra paziente e medico dipendente o collaboratore della struttura sanitaria, da oltre tre lustri ha affermato che esso trova la sua fonte in un c.d. «rapporto contrattuale di fatto», in virtù del mero «contatto sociale» stabilitosi tra essi connotato dall'affidamento che il paziente pone nel medico, esercente una professione protetta; tale contatto sociale tra medico e paziente surroga, pertanto, la consensualità tipica dell'accordo negoziale ed è fonte di un vincolo contrattuale in tutto equivalente a quello nascente da un contratto di prestazione d'opera (Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 577 e succ. conformi; conf. Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972 e succ. conformi; il leading case in materia è rappresentato da Cass., 22 gennaio 1999, n. 589). Sempre la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto ed, in particolare, oltre alla paziente-gestante anche:
La giurisprudenza, di legittimità, di merito ed amministrativa, anche in altre materie ha fatto ricorso al contatto sociale, quale fonte di un vincolo contrattuale, ogni qualvolta l'ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento e ciò anche quando non discenda dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni (non già di contratto bensì) di semplice contratto sociale.
Storicamente, quindi, il rapporto che intercorre tra paziente, da un lato e medico e struttura sanitaria, dall'altro lato è sempre di natura contrattuale (c.detto contratto di spedalità o di assistenza sanitaria) quand'anche fondato sul solo contatto sociale ed estende i suoi effetti protettivi anche a soggetti terzi. In questo contesto storico (contrattuale) si inserisce l'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158. Il Ministro Balduzzi, in occasione della seduta del 30 ottobre 2012, n. 825 avanti l'Assemblea del Senato, in relazione all'art. 3, 1° comma, come modificato alla Camera in sede di conversione del D.l., ha dichiarato: «La norma che è attualmente presente nel decreto legge, non stravolge la disciplina della responsabilità, non deresponsabilizza l'esercente la professione sanitaria». L'intenzione del Legislatore, pertanto, desumibile anche da tale dichiarazione resa dallo stesso Ministro dal quale il D.L. ha mutuato il nome, è quella di non stravolgere le regole o la disciplina della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria: responsabilità contrattuale era prima, responsabilità contrattuale è rimasta ora. Il criterio sistematico
Rilievi di ordine sistematico, tratti dall'analisi di altre specifiche norme comunitarie (oggi unioniste) e nazionali, confortano tale conclusione. Il criterio sistematico, infatti, è quello che consente di coordinare in maniera organica e coerente le norme presenti nell'ordinamento, anche se apparente contrastanti. L'esigenza fondamentale di coerenza nel sistema normativo, nel quale si considera un solo unico legislatore, costituisce un rimedio contro gli errori o le aberrazioni di un singolo comando (A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, 22^ ed., Padova, 1977). A livello normativo comunitario (oggi unionista) e nazionale il rapporto che intercorre tra paziente, da un lato e medico e struttura sanitaria, dall'altro lato è un rapporto giuridico di servizio ove il medico-professionista e la struttura-professionista prestano la loro attività e forniscono il trattamento sanitario richiesto e dall'altro il malato-utente-consumatore lo riceve, perché ha diritto alla tutela della sua salute, bene primario, costituzionalmente tutelato. Nozione di servizio: la nozione di servizio, cui bisogna fare riferimento per tale qualificazione, è quella data dalla normativa comunitaria, secondo cui in esso confluisce tutto ciò che non è un bene. L'art. 60 del trattato CEE, in particolare, parifica le professioni intellettuali alle attività industriali, commerciali ed artigiane, tutte rientranti nell'ampia categoria del servizio (conf., in dottrina, M. Liguori, La responsabilità medica: dalla teoria alla pratica processuale, Rimini, 2011, 196 e segg.; M. Liguori, La responsabilità civile medica, storia, evoluzione e prospettive, Sub Iudice, 116 e segg., Firenze, 1998, 59 e ss. e www.melchiorregioia.it). L'art. 2 della proposta di direttiva (avant projet) della Commissione Europea, sulla responsabilità del prestatore di servizi, presentata il 9 novembre 1990, definisce il «servizio, ai fini dell'applicazione della presente direttiva» come «ogni prestazione eseguita a titolo professionale o di servizio pubblico e in modo indipendente, a titolo oneroso o gratuito, e il cui oggetto diretto ed esclusivo non sia la fabbricazione di beni o il trasferimento di diritti reali o intellettuali». L'art. 3 della medesima proposta di direttiva (avant projet) della Commissione Europea definisce il prestatore di servizi come «ogni persona fisica o giuridica, di diritto privato o pubblico, che nell'ambito delle sue attività professionali o di servizi pubblici fornisce una prestazione contemplata nell'art. 2». Nell'ambito della definizione del prestatore di servizi fornita dal legislatore comunitario rientrano, di conseguenza, anche coloro che esercitano professioni intellettuali in generale e quella medica in particolare. Definizione del consumatore ed utente: la definizione di consumatore ed utente è data in primis dalla normativa comunitaria ed in secundis dalla normativa italiana che l'ha recepita. La normativa comunitaria ha così definito il consumatore: «si intende: per "consumatore", la persona fisica che, per le transazioni disciplinate dalla presente direttiva, agisce per scopi che possono considerarsi estranei alla sua attività professionale» (art. 1, Dir. Consiglio delle Comunità Europee, 22 dicembre 1986, n. 102, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati Membri in materia di credito al consumo). Tale definizione, negli anni, è rimasta sostanzialmente invariata a livello prima di Comunità Europea e poi di Unione Europea (v. art. 2, Dir. Consiglio, 5 aprile 1993, n. 13, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori e, di recente, dall'art. 2 Dir. UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, 3 aprile 2014, n. 40, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco e dei prodotti correlati e che abroga la direttiva 2001/37/CE). La normativa italiana, che ha recepito quella comunitaria (oggi unionista), ha così definito il consumatore: «una persona fisica (consumatore) che agisce, in tale rispetto, per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta» (art. 18, L. 19 febbraio 1992, n. 142). Tale definizione, negli anni, in un primo momento è rimasta sostanzialmente invariata (v. art. 25, L. 6 febbraio 1996, n. 52 che ha introdotto gli artt. 1469-bis e ss. c.c.) ed in un secondo momento implementata con l'equiparazione del consumatore all'utente (v. art. 2, lett. a, L. 30 luglio 1998, n. 281, oggi abrogato e confluito nell'art. 3, 1° comma, lett. a, D.lgs. 6 luglio 2005, n. 206, Cod.cons.). Utente, nell'accezione comune del termine, è colui che usufruisce di un bene o di un servizio pubblico o privato. Si tratta, pertanto, di una specifica categoria di consumatore che soddisfa il proprio bisogno:
Nel contesto economico si tende a distinguere l'utente dal cliente sulla base della presenza o meno della possibilità di scelta del fornitore. Utente sarebbe, così, colui che usufruisce del servizio erogato in condizioni di monopolio. Ma non sembra che questa più restrittiva nozione sia quella adottata dal legislatore italiano. Di certo, comunque, è utente anche colui che si serve di un servizio pubblico quali quello di erogazione dell'acqua, del gas, quello di trasporto o sanitario. Non sembra, infatti, possibile negare che l'utilizzazione di un servizio pubblico a scopo personale o familiare sia atto di consumo (M. Fantacchiotti, Il Foro del Consumatore nel contratto di spedalità, Il valore dell'uomo, 2010, 1, 18; F. Rinaldi, L'allargamento della nozione di consumatore, una questione di uguaglianza?, Nuova giur. civ. comm., 2009, 39 e ss.). Definizione di professionista: la definizione di professionista è data anch'essa in primis dalla normativa comunitaria ed in secundis dalla normativa italiana che l'ha recepita. La normativa comunitaria ha così definito il professionista: «si intende per:… "professionista": qualsiasi persona fisica o giuridica che, nei contratti oggetto della presente direttiva, agisce nel quadro della sua attività professionale, sia essa pubblica o privata» (art. 2, Dir. Consiglio, 5 aprile 1993, n. 13, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori). Tale definizione, negli anni, è rimasta sostanzialmente invariata a livello prima di Comunità Europea e poi di Unione Europea (v. art. 6 Reg. CE, 17 giugno 2008, n. 593 del Parlamento europeo e del Consiglio, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, Roma I). La normativa italiana, che ha recepito quella comunitaria (oggi unionista), ha così definito il professionista: «il professionista è la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto…» stipulato con il consumatore (art. 25, L. 6 febbraio 1996, n. 52 che ha introdotto gli artt. 1469-bis e ss c.c.). Anche tale definizione, negli anni, è rimasta sostanzialmente invariata (v. art. 3, 1° comma, lett. c, D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, Cod. cons. e art. 2, lett. c, D.lgs. 2 agosto 2007, n. 145). Le normative europee e nazionali su indicate, che forniscono le chiare ed inequivoche definizioni di utente-consumatore e professionista, sono chiaramente volte a dare maggior tutela, nei rapporti giuridici di servizio che si instaurano tra essi, alla parte più debole (l'utente-consumatore). Tale maggior tutela della parte più debole è confermato anche:
A nulla osta per l'applicabilità della disciplina del Codice del Consumo, anche ai rapporti tra malato-utente da un lato e medico-struttura sanitaria dall'altro che esso non sia espressamente previsto e disciplinato dal Codice stesso. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha affermato, per quanto concerne contratti diversi da quelli presi in considerazione dal Codice di consumo, che «le specifiche previsioni relative ad alcune categorie di contratti contenute nel codice di consumo rispondono all'esigenza di apprestare una più forte tutela al consumatore in situazioni di particolare debolezza in cui egli si trova nel concludere dati contratti, ma certamente non limitano l'applicabilità della normativa di tutela del consumatore alle sole categorie di contratti previste dal Codice del Consumo. La disposizione di tutela del consumatore dettata dall'art. 33, comma 2, lett. u), del Cod. cons. si applica infatti al contratto tra consumatore e professionista e ad ogni contratto, nessuno escluso, che abbia ad oggetto, per quanto interessa qui, un servizio offerto dal professionista, di cui il consumatore è ammesso a fruire su base contrattuale» (Cass. 26 febbraio 2009, n. 4745; conf. Cass. 24 novembre 2008, n. 27911). Sempre la giurisprudenza di legittimità, per quanto concerne, in particolare, il contratto avente ad oggetto prestazioni proprie della professione medica, ha affermato che: «il contratto di prestazione d'opera professionale concluso tra paziente e medico rientra nell'ambito della disciplina dei contratti del consumatore, anche se il contratto non sia stato concluso per iscritto e il paziente abbia scelto di avvalersi dell'attività di un medico esercente in un luogo diverso dalla sua residenza; ne consegue che, ai fini della determinazione della competenza per territorio, il paziente poteva proporre la domanda davanti al foro della propria residenza, ai sensi dell'art. 1469-bis, commi 1 e 3, n. 19, c.c., prima dell'entrata in vigore del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (c.d. Codice del Consumo) e, successivamente, può formularla dinanzi allo stesso giudice ai sensi dell'art. 33, commi 1 e 2, lett. u, del medesimo d.lg. (Fattispecie relativa a regolamento di competenza in tema di azione risarcitoria per i danni conseguenti all'inesatta esecuzione da parte del medico di prestazioni odontoiatriche rese in favore di minore)» (Cass., 20 marzo 2010, n. 6824; conf. Cass., 27 febbraio 2009, n. 4914; Cass., 2 gennaio 2009, n. 20). Deve ritenersi, pertanto, seguendo le indicazioni della normativa comunitaria (oggi unionista), dei principi e criteri direttivi indicati dall'art. 7, lett. a, L. 29 luglio 2003, n. 229 (legge delega), recepiti dal D.lgs. delegato (il Codice del Consumo) - che, come su esposto, sono applicabili per coerenza anche ad altri rapporti non espressamene da esso disciplinati - che l'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158 non muta (né potrebbe validamente mutare) la natura contrattuale del rapporto bilaterale o trilaterale di cura tra paziente-utente e medico e/o struttura sanitaria-professionisti e ciò anche al fine di assicurare un elevato livello di tutela anche risarcitoria ai malati-utenti-danneggiati che possono continuare ad usufruire della disciplina, ad essi più favorevole, della responsabilità contrattuale dell'esercente la professione sanitaria. L'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione di cui all'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158 porta al medesimo risultato su prospettato. E' noto che, in materia di interpretazione della legge, se sono possibili in astratto varie e diverse interpretazioni, l'interprete deve scegliere quella che non si ponga in contrasto con la Costituzione e deve privilegiare, pertanto, quella ad essa più conforme. La legge è soggetta al rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento. L'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158, in quanto finalizzata al contenimento della spesa pubblica, dovrebbe riguardare solo gli esercenti la professione sanitaria che siano strutture pubbliche e loro dipendenti o collaboratori, con esclusione di tutti gli altri. Applicare solo a tali soggetti (dipendenti o collaboratori di strutture sanitarie pubbliche) la disciplina della responsabilità extracontrattuale - esonerandoli così dal dover tenere la diligenza del debitore qualificato di cui all'art. 1176, 2° comma, c.c. - introdurrebbe un regime normativo peculiare assolutamente discriminatorio ed irragionevolmente difforme da quello applicabile non solo a tutti gli altri esercenti la professione sanitaria, ma anche a tutti gli altri soggetti esercenti altre professioni e della cui costituzionalità sarebbe lecito dubitare.
L'interpretazione della disposizione di cui all'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158, secondo il canone del c.detto legislatore consapevole (pur utilizzato dai sostenitori e fautori della seconda scuola di pensiero riportata nel terzo paragrafo del presente lavoro), porta al medesimo risultato su prospettato. Tale canone interpretativo (del c.detto legislatore consapevole), che presuppone un Parlamento attento alle norme che emana, è stato sovente utilizzato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di interpretazione di norme giuridiche (Cass., S.U., 18 maggio 2011, n. 10864; conf. Cass., 21 giugno 2012, n. 10301; Cass. 5 agosto 2010, n. 18156; Cass. 24 agosto 2007, n. 17958). Secondo tale canone interpretativo il legislatore consapevole, se avesse voluto effettivamente introdurre una riforma così epocale in materia di responsabilità sanitaria, riconducendo la responsabilità del medico (e figure affini), per l'attività prestata quale dipendente o collaboratore di strutture sanitarie pubbliche (e private) sotto il solo regime della responsabilità extracontrattuale, escludendo l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 1218 c.c., cancellando così lustri di elaborazione giurisprudenziale:
La giurisprudenza di legittimità, che già si è imbattuta varie volte nella nuova disciplina, è giunta alla conclusione, qui propugnata, che l'art. 3, 1° comma, D.l. 13 settembre 2012, n. 158 nulla ha mutato in ambito di responsabilità civile medica e sanitaria in quanto la materia segue le sue regole consolidate anche e soprattutto per la responsabilità contrattuale e da contatto sociale del medico e della struttura sanitaria. La giurisprudenza di legittimità, in particolare, sullo specifico punto ha affermato che «la norma del D.l. n. 158 del 2012, art. 3, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 189/2012, quando dispone nel primo inciso che “l'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve” e, quindi, soggiunge che “in tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.”, poiché omette di precisare in che termini si riferisca all'esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell'inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c., dev'essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato di escludere l'irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità extracontrattuale civilistica» (Cass. 17 aprile 2014, n. 8940; conf. Cass., 24 dicembre 2014, n. 27391; Cass. 19 febbraio 2013, n. 4030; conf., per quanto concerne la giurisprudenza di merito più recente, (Trib. Palermo, sez. I civ., 26 novembre 2014, n. 5828, giud. unico dott. Lo Forte, Diritto & Giustizia, 2014; Trib. Napoli, sez. VI civ., 21 novembre 2014, n. 15467, giud. unico dott. Spina, Cascone/A.S.L. Napoli 5; Trib. Milano, sez. V civ., 18 novembre 2014, n. 13574, giud. unico dott. Borrelli, www.ridare.it; Trib. Napoli, sez. XII civ., 5 giugno 2014, n. 8334, giud. unico dott. Caccese,Mirra/Clinica Mediterranea). Conclusioni
In definitiva deve ritenersi, per tutto quanto fin qui esposto, che:
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