Legge Gelli: azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa
27 Giugno 2017
La ratio della norma
L'art. 9 si presenta come uno degli snodi più innovativi e rivoluzionari della intera disciplina della responsabilità sanitaria come ideata e riscritta dalla legge in argomento. L'articolo appare immediatamente applicabile nel senso che non presenta rinvii disciplinari a norme attuative amministrative, come avviene per larga parte della legge, e presenta profili procedurali, oltre che sostanziali, di applicazione cogente immediata. Nell'ottica protettiva e delimitativa della responsabilità dell'operatore sanitario, che ispira la gran parte delle finalità dell'intero impianto normato, l'articolo pone importanti limiti all'azione di rivalsa verso l'esercente la professione sanitaria, disciplinando tanto il contesto pubblico quanto quello privato. Per una norma di così ampia portata innovativa, deve essere posta in risalto quella che possiamo definire la “ratio legis", vale a dire la prima ispirazione che regge l'impianto della regolamentazione innovativa voluta dal legislatore con riferimento all'azione di recupero delle somme versate per il ristoro dei danni procurati in sede di attività sanitaria, nei confronti del materiale esecutore dell'errore clinico: l'operatore sanitario, il medico. Non è, infatti, fatto mistero della circostanza che buona parte dell'impianto normativo tenda a disciplinare la responsabilità del sanitario in un'ottica di “alleggerimento" della sua posizione giuridica e sostanziale, nonché processuale, nei confronti tanto della vittima dell'errore clinico, quanto dei soggetti istituzionali che sono chiamati in prima battuta a coprire il profilo finanziario dell'obbligo risarcitorio (l'azienda sanitaria, l'assicuratore, l'erario). Si tratta di una scelta del legislatore, resa palese fin dagli atti di accompagnamento ai lavori parlamentari e che, nel contesto specifico dell'azione che si intende qui regolamentare, si risolve nella introduzione, del tutto nuova, di una serie di limiti giuridici all'azione ordinaria di rivalsa, che fino ad ora non incontrava alcuna delimitazione di sorta trovando spesso ingresso nel medesimo giudizio promosso dal danneggiato principale. È stato già esaurientemente osservato che a prescindere dal nomen utilizzato spesso in giurisprudenza (regresso) o da quello previsto nella nuova legge (rivalsa) è certo, dunque, che la struttura sanitaria, che abbia risarcito integralmente il paziente in forza del suo obbligo, sia per fatto proprio sia per fatto del suo ausiliario, avrà poi diritto di recuperare dal medico suo collaboratore l'intero risarcimento pagato, in caso di colpa esclusiva del medico, o parte di esso, in proporzione alla misura della diversa attribuzione di responsabilità a quello e a se stessa (E. MANDRIOLI, La diversa natura della responsabilità sanitaria: della struttura e del medico, in Ridare.it). Di fatto, tanto la struttura, quanto la Corte dei conti avanti al quale l'operatore sia chiamato per rispondere di responsabilità amministrativa, quanto, infine, l'assicuratore che abbia risarcito il danno in forza di un contratto che lo obbligasse alla garanzia, acquisiscono un titolo per agire nei confronti dell'operatore sanitario responsabile, derivato dall'assolvimento della propria obbligazione che può essere tanto legata al fatto in sé (la struttura risponde ex art. 1218 c.c. nei confronti del paziente), quanto per l'obbligo appunto previsto dal contratto assicurativo. Potranno esistere situazioni nelle quali l'azione di rivalsa comporterà la condanna dell'operatore sanitario a rifondere integralmente il danno provocato dal proprio errore (con le eccezioni relative ai limiti economici previste dai commi 5 e 6 dell'art. 9, di cui si dirà), ovvero ipotesi in cui la rivalsa incontri un limite di natura sostanziale sotto un profilo strettamente giuridico, perché la responsabilità del sanitario concorre, ad esempio, con quella dell'azienda in proprio. Nella realtà processuale odierna, come detto, spesso il medesimo giudizio era chiamato a regolare tanto l'oggetto relativo all'azione risarcitoria primaria intentata dal paziente ovvero dai suoi congiunti, quanto, contemporaneamente, l'azione di rivalsa o regresso che validamente potesse essere esercitata nel medesimo processo, stante l'ammissibilità del cumulo di azioni. L'art. 9 riscrive, dunque, integralmente la disciplina giuridica dell'azione di rivalsa com'è conosciuta sino ad oggi, ponendo importanti regole per il futuro. I legittimati attivi e passivi
Una prima analisi deve essere compiuta con riferimento ai soggetti che la legge ritiene titolari della nuova disciplina di rivalsa e con riguardo a coloro che, di contro, sono soggetti passivi dell'azione stessa. La disciplina regolamenta, sotto il primo profilo, il diritto all'azione vincolando a quanto previsto dalla norma tanto la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica e privata, quanto l'impresa di assicurazione che abbia indennizzato il sinistro, quanto, infine, la Corte dei conti che eserciti, attraverso l'azione del pubblico ministero, il giudizio per responsabilità amministrativa. È il caso di rilevare fin da subito, che al terzo periodo del comma 5 (chiamato a regolamentare il tetto economico all'azione di rivalsa per il caso di condanna della struttura sanitaria pubblica) è fatto espresso richiamo, con riguardo a tale limite patrimoniale di qui si dirà, non solo all'azione esercitata in sede amministrativa, ma anche alla «surrogazione di cui all'art. 1916, comma 1, del codice civile». Questo passaggio rende palese l'intendimento del legislatore di concedere l'esercizio dell'azione di rivalsa in capo all'assicuratore che abbia coperto la quota di danno erariale, indennizzando il sinistro in luogo dell'azienda sanitaria o sociosanitaria pubblica, evento questo tutt'altro che pacifico in giurisprudenza e che pare oggi trovare un rilevante imprimatur normativo. Quanto, infine, ai legittimati passivi dell'azione di rivalsa, il comma 1 dell'art. 9 dispone che l'azione possa essere esercitata nei confronti dell'esercente la professione sanitaria, senza alcuna distinzione tra libero professionista o dipendente strutturato, salvo quanto si dirà a proposito dei termini economici che costituiscono il tetto massimo di esposizione patrimoniale valido per la seconda categoria dei soggetti qui indicata. Venendo dunque l'analisi dettagliata dei limiti posti dalla novella all'azione di rivalsa, gli stessi possono essere catalogati e riassunti in tre categorie:
Quanto al primo limite, lo stesso è disciplinato dal comma 1 dell'art. 9 a mente del quale «l'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave». La norma, per certi aspetti, non presenta particolari profili di novità, atteso il fatto che la stessa avrà presumibilmente un impatto di continuità con la attuale disciplina tanto pubblicistica che privatistica. Nella disciplina della azione di rivalsa della Procura presso la Corte dei Conti verso il medico dipendente della azienda sanitaria pubblica, infatti, la “colpa grave” costituisce già ora margine di determinazione della perseguibilità del sanitario. Nel contesto strettamente civilistico, invece, nel corso degli anni la giurisprudenza ordinaria ha affinato un concetto di “colpa” allineandolo ad un parametro generale che evidenzi una deroga di qualunque natura rispetto alle linee guida comportamentali ed alla prassi clinica più affermata, nel senso che – in un'ottica di grande severità di giudizio dell'operato del singolo professionista – la giurisprudenza si è attestata su profili di colpa sempre presente in caso di negligenza ed imperizia, svuotando di fatto di senso pratico la distinzione tra colpa grave e colpa lieve. In quest'ottica dunque, il comma 1 non pare costituire filtro o argine all'azione di responsabilità contro il medico, rispetto alla odierna realtà di diritto sostanziale perché, di fatto, la condotta del sanitario sotto il profilo tecnico, nonché sotto quello causale, verrà comunque valutata dalla giurisprudenza di merito con la inevitabile comparazione (secondo lo sviluppo logico giuridico del giudizio controfattuale o ex post) con la presumibile condotta corretta del sanitario stesso, praticabile in un contesto di allineamento alle linee guida ovvero alle buone pratiche clinico sanitarie. Si vuol dire con ciò che, mentre la giurisprudenza amministrativa ha da tempo enucleato i profili di censura dell'operatore sanitario nell'ottica di individuare, quale condizione di procedibilità, gli estremi della “colpa grave”, nel giudizio ordinario che verrà incardinato con l'obiettivo di chiamare l'operatore sanitario a rispondere della propria condotta e del danno ingenerato, difficilmente si potrà ricercare elementi tecnici distintivi del paradigma del concetto di “colpa grave” come è consuetudine appunto radicata presso la giustizia amministrativa.
Ben più articolato si presenta, per il vero, il limite temporale che la legge pone all'azione di rivalsa in parola. Dispone, infatti, il comma 2 dell'art. 9 che «se l'esercente la professione sanitaria non è stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno, l'azione di rivalsa nei confronti di quest'ultimo può essere esercitata soltanto successivamente al risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale ed è esercitata, a pena di decadenza, entro un anno dall'avvenuto pagamento». Si tratta, all'evidenza, di un doppio regime dell'imitativo dell'azione sotto il profilo cronologico. Da un lato, infatti, l'azione potrà essere esercitata solo successivamente all'avvenuto pagamento del danno, sia esso avvenuto per titolo giudiziale o stragiudiziale. Dall'altro lato, una volta determinato tale “dies a quo", l'azione dovrà essere esercitata, a pena di decadenza, entro un anno da tale pagamento. La delimitazione cronologica appare in parte macchinosa ed in parte poco chiara. Numerosi sono i profili di criticità che ci apprestiamo ad evidenziare. Innanzitutto, l'incipit del comma 2 pone come condizione di applicabilità il fatto che l'azione sia stata promossa dal terzo danneggiato contro la sola struttura, e non anche (come possibile e frequente) nei confronti di quest'ultima ed anche dell'operatore sanitario. In questa seconda ipotesi, dunque, la delimitazione cronologica dell'azione di rivalsa non varrà e la stessa domanda, subordinata all'accoglimento di quella principale del paziente danneggiato, potrà ben essere svolta nel medesimo procedimento. Così delimitata in prima battuta l'ipotesi di intervento della regolazione in parola, un primo passaggio critico sul piano interpretativo lo si rinviene laddove la norma prevede, appunto, che l'operatore sanitario non sia stato parte del giudizio promosso dal paziente, ovvero che lo stesso non abbia partecipato alla “procedura stragiudiziale di risarcimento del danno". È questo un passaggio eccessivamente generico, se non proprio criptico, perché non dà conto di quale possa essere la partecipazione dell'operatore sanitario alla attività stragiudiziale, cioè se lo stesso debba essere, ad esempio, convenuto in una procedura di mediazione, ovvero basti semplicemente il suo astratto coinvolgimento nella trattativa stragiudiziale. Potrà avvenire, infatti, che il paziente chieda il ristoro del danno tanto all'assicuratore della struttura quanto allo stesso operatore sanitario coinvolto e che quest'ultimo, per ragioni proprie, pur partecipando formalmente alla trattativa, di fatto ne rimanga estraneo tanto nel profilo dell'accertamento della responsabilità e del danno, quanto, soprattutto, nel contesto del materiale pagamento del risarcimento spettante alla vittima conclamata. Questa partecipazione formale ma non effettiva alla “procedura stragiudiziale" andrà dunque intesa come avverarsi della condizione che delimita cronologicamente l'azione di rivalsa, ovvero quest'ultima potrà essere esercitata anche oltre l'anno dall'avvenuto pagamento, in ragione del fatto che il medico sia stato parte, benché marginale, nella trattativa stessa? La criticità sintattica ed ermeneutica di questo passaggio risulta, a nostro giudizio, palese e fonte di possibili conflitti interpretativi futuri. L'ultima parte del periodo contenuto nel comma 2 dell'art. 9 pone dunque il doppio limite suddetto riferito al dies a quo da intendersi quello dell'avvenuto pagamento e, per altra parte, al limite massimo entro il quale l'azione dovrà essere esercitata a pena di decadenza (un anno).
Per altro non è dato sapere se il titolo giudiziale, dopo il quale diventa procedibile l'azione di rivalsa, sia da intendersi o meno definitivo (cioè passato in giudicato). Nel silenzio della norma, si dovrà intendere per “titolo” anche quello provvisorio e quindi ancora soggetto a modifica per esempio in sede di appello. Potrebbe dunque accadere che una domanda di condanna della struttura accolta in primo grado venga ribaltata in appello con conseguenze prevedibili sulla azione autonoma e separata di regresso verso il medico nel frattempo intentata dalla azienda che abbia pagato il danno sulla base della condanna esecutiva di primo grado. Il limite temporale all'azione deve essere inteso come valente sia per l'azienda che agisca in proprio, che per l'assicuratore che abbia pagato in tutto o in parte il danno alla vittima. Potrà così accadere – in una delle tante ipotesi presenti nella casistica giudiziale – che l'assicuratore della struttura, dopo aver pagato il danno, divenga titolare di una molteplicità di azioni recuperatorie non sempre omogenee. L'assicuratore solvens potrà dunque trovarsi ad agire contro il medico (o i medici) responsabili nei limiti di legge; contro altri co-assicuratori nell'ipotesi di applicazione del riparto ex art. 1910 c.c.; nonché, infine ed eventualmente, contro l'azienda stessa per la quota di scoperto di polizza non opponibile al danneggiato ex art. 12 della legge. Nella condizione processuale tipica precedente alla legge, invece, tutte le possibili azioni connesse alla principale istanza risarcitoria potevano essere, senza preclusioni di sorta, esercitate nel medesimo procedimento. In tali (non remoti) casi, dunque, la procedura civile da illecito sanitario potrà essere – senza apparente ragione ed utilità – canalizzata in un rivolo disordinato di sotto-procedimenti non omogenei e spesso confliggenti. Con buona pace e pregiudizio dei principi di economia e celerità processuale. I commi 5 e 6 dell'art. 9 disciplinano le diverse ipotesi dell'azione di rivalsa esercitata a seguito dell'accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della sola struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata. Entrambe le disposizioni sono applicabili anche all'azione che dovesse esercitare l'assicuratore dell'azienda tenuto a garantire la responsabilità di quest'ultima. Ferma la giurisdizione della Corte dei conti, su impulso della procura competente, per l'ipotesi di azione di responsabilità amministrativa, il comma 5 richiama la normativa già valida oggi con riguardo all'azione conseguente ad un danno erariale conclamato. Tanto l'azione disciplinata dal comma 5 dell'art. 9 (a seguito di pagamento avvenuto su azione promossa contro la struttura pubblica), quanto nell'ipotesi disciplinata dal comma 6 (per l'ipotesi di azione contro l'azienda privata), il terzo limite previsto dalla novella è anch'esso di rilevante importanza, perché attiene alla esposizione finanziari massima che si potrà imporre al soggetto passivo dell'azione stessa. Tale limite consiste nel triplo della retribuzione lorda annua o del corrispettivo convenzionale conseguiti e prossimali all'esercizio ove si verificò l'evento di danno. Un mero errore di trascrizione (che le cronache parlamentari annunciano di prossima risoluzione con l'emanazione di apposita correzione) ha posto il meccanismo di calcolo come moltiplicatore per il suo stesso triplo (in luogo del semplice moltiplicatore per tre), così generando di fatto un margine talmente alto da essere per nulla efficace rispetto alla originale soluzione normativa voluta dal legislatore. In ogni caso, una volta emendato l'errore, il limite si presenterà di non poco conto sul piano patrimoniale ed anche su quello assuntivo della riduzione concreta del rischio per l'assicuratore che vorrà contrarre le polizze per la responsabilità professionale dei singoli operatori sanitari. Il comma 6 prevede che tale limite non valga per gli esercenti la professione sanitaria che svolgano la propria professione al di fuori di una struttura ovvero che comunque agiscano in regime libero-professionale (art. 10, comma 2). Osservazioni
L'intenzione della norma era certamente quella di delimitare una pratica recuperatoria delle somme erogate a ristoro dei danni sanitari, che costituiva, tanto nel comparto pubblico, quanto in quello privato, al tempo stesso uno strumento di distribuzione del carico finanziario delle conseguenze di danno generate in ambito sanitario, ma anche un appesantimento della posizione del clinico spesso mal tollerata dalla categoria. Ciò sia dal punto di vista della delimitazione della esposizione pubblica verso l'erario, sia per quella di contenuto privato, e che attiene alla azione svolta da aziende non pubbliche o da assicuratori ex art. 1916 c.c. La macchinosa procedura pone in premessa le condizione per un doppio binario giudiziale che sarà in futuro condizionato solo dalla libera scelta del paziente. La norma che pone il limite cronologico all'azione, sarà infatti valida solo per l'ipotesi in cui il danneggiato decida di avviare la causa e la controversia solamente contro l'azienda (pubblica o privata), mentre alcuna delimitazione varrà per il caso in cui lo stesso agisca nei confronti tanto della struttura che dell'operatore. Quanto al limite della esposizione patrimoniale (commi 5 e 6) lo stesso varrà comunque a prescindere dalla genesi dell'azione risarcitoria, sia essa esclusiva contro la struttura o cumulata con quella svolta contro il sanitario strutturato, convenuto in solido. |