Il danno da perdita della vita: ritorno al passato

28 Luglio 2015

Le aspettative coltivate dagli interpreti, con riguardo alla lungamente attesa pronuncia delle Sezioni Unite in materia di risarcibilità del danno da perdita della vita, si sono rivelate mal riposte: tale sentenza si limita a sancire la conferma del sistema perseguito dalla giurisprudenza maggioritaria, senza operare alcun chiarimento relativamente alle molte ambiguità che l'applicazione di tale orientamento comporta.
L'atteggiamento riduzionistico delle Sezioni Unite

La lunga attesa che ha preceduto il deposito della pronuncia n. 15350/2015 delle Sezioni Unite aveva animato le aspettative degli interpreti, presso i quali si è diffusa l'idea che i giudici di legittimità si sarebbero pronunciati con una nuova “sentenza-trattato”: destinata a marcare un'ulteriore tappa – dopo quella segnata delle pronunce di San Martino del 2008 - nel complesso processo evolutivo riguardante il sistema risarcitorio del danno non patrimoniale. Si trattava, in effetti, di assumere posizione a fronte del tentativo di revirement operato dalla Suprema Corte nel gennaio 2014 (Cass. civ., 23 gennaio 2014, n. 1361, rel. Scarano), con una sentenza la quale, attraverso una mole alquanto consistente di pagine, ha affrontato il problema della risarcibilità del danno da perdita della vita, collocandolo nel più ampio quadro della tutela aquiliana dei pregiudizi non economici.

La risposta pervenuta da parte delle Sezioni Unite è ben lontana dalle attese. I giudici di legittimità hanno scelto, infatti, di risolvere la questione adottando un atteggiamento fortemente riduzionistico. E ciò non soltanto perché la pronuncia si limita a trattare la questione della perdita della vita, omettendo di calare la stessa nella trama più generale del sistema risarcitorio; anche tale profilo specifico risulta, in effetti, affrontato soltanto in maniera parziale, dal momento che il problema del danno da morte viene scisso su due versanti separati, distinguendo il caso del decesso immeditato rispetto a quello intervenuto dopo un certo intervallo di tempo. Secondo le Sezioni Unite «esulano quindi dal tema che formerà oggetto della presente decisione le questioni relative al risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni». Una separazione del genere, in realtà, non può essere condivisa: ciò per il semplice fatto che l'intera partita della tutela risarcitoria del diritto alla vita è stata giocata, in questi anni, intorno al dato della ricorrenza di un certo lasso di tempo tra lesione e morte. L'elaborazione, da parte della giurisprudenza, di figure specifiche di danno legate a tale situazione è apparsa, perciò, finalizzata a far pesare, a livello risarcitorio, l'avvenuto decesso. Sarebbe stato, quindi, opportuno affrontare la questione su un piano complessivo, al fine di dimostrare la ragionevolezza di un orientamento che non tutela la vittima deceduta in ogni caso, ma soltanto ove la morte non sia immediata.

La volontà di minimizzazione, da parte dei giudici di legittimità, si manifesta anche in quei passaggi dove – nel riconoscere che non sussiste contrasto giurisprudenziale in seno alla Suprema Corte con riguardo ai casi di decesso non immediato - si sottolinea che l'unica distinzione riguarda la qualificazione del danno da risarcire: che viene indicato ora come “danno biologico terminale”, ora come “danno catastrofale”. Le Sezioni Unite ritengono che una simile diversità si rifletta esclusivamente a livello terminologico, dal momento che dalla stessa «non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano della liquidazione dei danni». Tali rassicuranti conclusioni non rispecchiano però la realtà, considerato che la qualificazione del danno solleva questioni concrete non di poco momento: se – da un lato – la ricorrenza del danno biologico appare, infatti, legata ad un decorso temporale che permetta di accertare il consolidamento di una patologia – dall'altro lato – la sussistenza di un danno morale risulta legata alla verifica circa il permanere di uno stato di coscienza in capo alla vittima poi deceduta. È ben evidente, dunque, come una diversa descrizione del pregiudizio sia destinata a rivestire notevoli implicazioni pratiche sul piano della tutela.

Il parametro della coscienza sociale

Le Sezioni Unite affrontano esclusivamente la questione del danno derivante da morte immediata, per sancire che in tal caso non può essere invocato un diritto al risarcimento iure hereditatis. Le ragioni che militano a favore della tutela – che non avevano trovato compiuta articolazione entro Cass., sent. n. 15760/2006, dove la Cassazione si era limitata a far cenno alla questione in termini di obiter – sono ampiamente esposte nella pronuncia Cass. n. 1361/2014, ma non vengono ritenute decisive al fine di rovesciare l'indirizzo tradizionale.

Viene criticata, anzi tutto, la considerazione - formulata dalla pronuncia Scarano - secondo cui «il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente all'effettivo sentire sociale nell'attuale momento storico». Si afferma, infatti, che il riferimento alla coscienza sociale non è «criterio che possa legittimamente guidare l'attività dell'interprete del diritto positivo». Vediamo così rinnegata la posizione espressa con riguardo a tale richiamo nelle celeberrime sentenze di San Martino: le quali introducono dei filtri al risarcimento, rappresentati dalla gravità della lesione e dalla serietà del danno, osservando che «entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico». Non si comprende, allora, come mai un criterio del genere possa fondare una limitazione risarcitoria, mentre il medesimo riferimento non si presti a essere utilizzato per giustificare un ampliamento della tutela.

Più specificamente, la pronuncia in commento sottolinea che – essendo, in caso di morte, tutelato il pregiudizio patito dai congiunti della vittima – «non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre ai congiunti per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi». Si dimentica, così, di tener conto che – ove la vittima sia priva di familiari stretti – verrebbe a mancare qualsiasi risarcimento; e si trascura, altresì, di considerare come un conflitto con il comune sentire derivi fondamentalmente non già dalla mancata tutela degli eredi, bensì dalla differenza di trattamento tra vittime di analogo esisto letale, in virtù della ricorrenza o meno di un (opinabile) intervallo di sopravvivenza.

Uno dei profili di contrasto con la coscienza sociale sarebbe dato – secondo quanto emerge nella sentenza Scarano – dal fatto che sarebbe più conveniente, sul piano risarcitorio, uccidere piuttosto che ferire una persona. Tale argomentazione viene respinta, dalle Sezioni Unite, secondo cui risulta «indimostrato che la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore». Una considerazione del genere omette, però, di focalizzarsi su quelli che sono i termini effettivi del confronto; i quali riguardano la vittima diretta della lesione, che si vede riconosciuto un risarcimento di massima entità in caso di lesione del 100% della salute, mentre nessun ristoro appare assicurato alla stessa ove il torto sfoci nel decesso.

La funzione riparatoria della responsabilità civile

Le Sezioni Unite si soffermano sul richiamo, operato nella sent. n. 1361/2014, di quella dottrina che pone in luce la necessità di considerare la vita come bene meritevole di tutela nell'interesse dell'intera collettività (v. Lipari, Danno tanatologico e categorie giuridiche, in Riv. crit. dir. priv., 2012, 523 ss.). I giudici di legittimità sottolineano come tale rilievo determini la necessità circa la previsione di una sanzione penale, «ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo». La sentenza evidenzia come non sia imposto da alcuna norma o principio costituzionale l'obbligo che la tutela penale sia accompagnata dal risarcimento, laddove manchi un soggetto cui la perdita sia riferibile. A sostegno di una simile conclusione viene richiamata la progressiva autonomia assunta della disciplina della responsabilità civile rispetto a quella penale, in virtù dell'affermazione della funzione reintegratoria e riparatoria assunto dalla tutela aquiliana, a scapito della finalità sanzionatoria e di deterrenza. A conferma di tale impianto soccorre – come rilevano le Sezioni Unite - il rifiuto da parte del nostro sistema dell'istituto dei danni puntivi, in quanto contrario all'ordine pubblico interno.

Tali considerazioni, senz'altro condivisibili, trascurano però di rilevare che anche Cass., sent. n. 1361/2014 si dichiara concorde con un simile inquadramento circa la funzione dell'istituto aquiliano. Ricordiamo, anzi, come quella pronuncia si soffermi a sottolineare che la risarcibilità della perdita della vita non verrebbe a smentire affatto la funzione riparatoria della r.c., posto che il revirement non è stato fondato per alcun verso su una riscoperta di finalità a carattere sanzionatorio, si trattava allora di verificare la fondatezza di una conclusione del genere.

L'eccezione al principio di irrisarcibilità del danno-evento

Le Sezioni Unite non dedicano particolare sforzo analitico a quella che rappresenta l'argomentazione centrale su cui si basa Cass., sent. n. 1361/2014: vale a dire l'affermazione, in via di eccezione, della risarcibilità del danno-evento. Tutte le energie vengono piuttosto convogliate per contrastare l'indicazione – sostenuta nella sentenza Scarano - secondo cui il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell'evento lesivo. A tale riguardo, le Sezioni Unite affermano che «l'anticipazione del momento della nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il ‘bene salute' e il ‘bene vita' sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità». Si tratta di una conclusione che desta forti perplessità, in quanto si fonda sull'idea che, nel momento dell'atto lesivo, a manifestarsi sarebbe una lesione alla salute, mentre la violazione del diritto alla vita si verificherebbe soltanto con l'avvenuto decesso. Questo sdoppiamento della lesione non sembra percorribile; ogni volta che la lesione innesca un processo destinato a culminare nel decesso ad essere leso è soltanto il diritto alla vita.

Quanto al principio della risarcibilità della perdita della vita come danno-evento, ci limitiamo a rilevare che la ricostruzione proposta nella sentenza Cass. n. 1361/2014 era tale da sollevare numerose perplessità. In effetti, assai fragile appare l'argine che la suddetta pronuncia mette in campo per limitare l'impatto di tale eccezione. Non si comprende, infatti, perché mai l'attribuzione di una somma che va ad incrementare il patrimonio della vittima assolverebbe qui una funzione compensativa, mentre ciò non accadrebbe in caso di lesione di altri diritti inviolabili. A maggior ragione, infatti, in quest'ultima ipotesi verrebbe in gioco la soddisfazione della vittima, in quanto la stessa si troverebbe a godere direttamente dell'incremento patrimoniale. Sul punto le Sezioni Unite omettono di soffermarsi, limitandosi ad accennare al problema in maniera sommaria, attraverso quelle righe in cui si rileva che «l'ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio».

La necessità di un esame più approfondito, da parte delle Sezioni Unite, emerge altresì dal confronto tra l'affermazione, da parte delle stesse, secondo cui il sistema di responsabilità civile richiede la necessità «ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto» e quei passaggi della sentenza Scarano in cui si sottolinea che dalla lesione del diritto alla vita conseguirebbe la perdita non già di qualcosa, bensì di tutto. Si trattava, quindi, di analizzare come debba essere inteso, in ambito non patrimoniale, il concetto di perdita: questione che non appare del tutto chiara, tenuto conto delle indicazioni formulate al riguardo da una recente pronuncia di legittimità. La sentenza Cass. n. 9320/2015 ha infatti rilevato che, in applicazione dell'art. 1223 c.c., la perdita subita dal danneggiato può consistere «nella diminuzione di valore di un bene patrimoniale o di un interesse non patrimoniale» ed è pervenuta a configurare, quali distinti pregiudizi, la perdita della serenità familiare e la perdita della salute. È evidente che, alla luce di una simile ricostruzione, anche la perdita della vita possa essere rappresentata quale danno-conseguenza.

La conferma dell'orientamento tradizionale da parte delle Sezioni Unite appare fondata non tanto sul mancato accertamento di una perdita, quanto piuttosto sulla mancanza di un soggetto cui la stessa possa essere ricollegata. Così emerge in quei passaggi ove si osserva: «nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito». Si rispolvera, in tal modo, un ragionamento che non risulta per alcun verso convincente. Nessuno dubita che, nel caso di un sinistro stradale che produca la morte istantanea della vittima alla guida della sua vettura, possano essere risarciti agli eredi i danni patrimoniali derivanti dalla distruzione dell'automobile; non si vede, perciò, perché un analogo schema non debba valere qualora venga configurata quale pregiudizio la perdita della vita.

In conclusione

Il nodo fondamentale riguardante la risarcibilità della perdita della vita risiede nella verifica circa la sussistenza o meno di una perdita, configurabile come danno-conseguenza a carico del soggetto deceduto. Su tale punto le Sezioni Unite non si soffermano con un'analisi compiuta, ma sembrano comunque propendere per una soluzione positiva, dal momento che non mancano di sottolineare il fatto che il principio di integrale risarcimento del danno non riveste caratura costituzionale: con ciò ammettendo di trovarsi di fronte a un caso di perdita per la quale non viene previsto alcun ristoro.

Lungi dall'approfondire tale questione, le Sezioni Unite hanno scelto di imboccare la strada meno auspicabile: quella volta a sancire un semplice ritorno al passato. Una soluzione del genere – priva di qualsiasi originalità - risulta assai deludente, considerato che un tema così delicato non può essere affrontato tramite un semplice rinvio a indicazioni vecchie di novant'anni; lo stesso richiamo della soluzione accolta dalla Consulta con la sentenza Corte cost. n. 372/1994 appare oggi obsoleto, considerato l'evoluzione che ha conosciuto la materia negli ultimi decenni. Viene ribadita l'applicazione di un sistema che – da un lato - appare fondamentalmente ambiguo, in quanto non opera una chiara distinzione tra danno da agonia e danno da perdita della vita, e – dall'altro lato – risulta assai discutibile, in quanto subordina la tutela della vittima deceduta al controverso concetto di “apprezzabilità” dell'intervallo di tempo di sopravvivenza. Anche in relazione a quest'ultimo profilo le considerazioni delle Sezioni Unite appaiono – del resto – estremamente semplicistiche, in quanto si limitano a sottolineare che il problema va risolto tramite un'operazione ermeneutica conforme a quelle che il giudice è abituato a fare; dimenticando che, nell'applicazione pratica, si finisce per pervenire a risultati estremamente variabili anche relativamente a tale profilo.

Guida all'approfondimento

La sentenza che ha dato origine al contrasto giurisprudenziale sul quale si sono pronunciate le Sezioni Unite (Cass. 23 gennaio 2014, n. 1361) compare in

- Resp. civ. prev., 492, con note di C. M. Bianca, La tutela risarcitoria del diritto alla vita: una parola nuova della Cassazione attesa da tempo;

- di P. Ziviz, Grandi speranze (per il danno non patrimoniale), ivi, 380 e di E. Bargelli, Danno non patrimoniale iure ereditario. Spunti per una riflessione critica, ivi, 723;

- in Foro it., 2014, 719, con note di A. Palmieri - R. Pardolesi, Di bianco o di nero: la “querelle” sul danno a morte, di Simone, Il danno per la perdita della vita: “die hard” 2.0., di Caso, Il bene della vita e la struttura della responsabilità civile e di C. Medici, Danno da morte, responsabilità civile e ingegneria sociale;

- in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 396, con note di A. Gorgoni, Il danno da perdita della vita: un nuovo orientamento della Cassazione, di P. Cendon – N. Sapone, Verso una nuova stazione (esistenzialista) del diritto privato, ivi, II, 247, di Galasso, Il danno tanatologico, ivi, II, 257, di Ponzanelli, Alcune considerazioni sulla decisione “Scarano”, ivi, II, 264, di Pucella, Coscienza sociale e tutela risarcitoria del valore-persona: sul ristoro del danno da morte, ivi, II, 269;

- in Giur. it., 2014, 813, con nota di Valore; in Danno Resp., 2014, 363, con note di Ponzanelli, Foffa, Pardolesi-Simone, di Procida Mirabelli, di Lauro, Il danno da perdita della vita e il “nuovo statuto” dei danni risarcibili, ivi, 686 e di Simone, Il danno da perdita della vita: logica, retorica e sentire sociale, ivi, 794

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