Game over! Il danno da perdita della vita non è risarcibile

Maurizio Hazan
29 Luglio 2015

Avvolta da un certo pathos ed accompagnata da fremiti di dubbio, l'attesa che ha preceduto la pronuncia delle Sezioni Unite è durata più a lungo di quanto, alla vigilia, si potesse immaginare. Certo, la questione che la Corte era chiamata a risolvere (attinente alla risarcibilità, o meno, del danno da perdita della vita) toccava un tema nevralgico e complesso, la cui soluzione implicava l'adesione ad opzioni ermeneutiche ed ideali di assoluto momento, sul piano etico prima ancora che strettamente logico/giuridico.
Un segno dei tempi

Avvolta da un certo pathos ed accompagnata da fremiti di dubbio, l'attesa che ha preceduto la pronuncia delle Sezioni Unite è durata più a lungo di quanto, alla vigilia, si potesse immaginare.

Certo, la questione che la Corte era chiamata a risolvere (attinente alla risarcibilità, o meno, del danno da perdita della vita) toccava un tema nevralgico e complesso, la cui soluzione implicava l'adesione ad opzioni ermeneutiche ed ideali di assoluto momento, sul piano etico prima ancora che strettamente logico/giuridico.

Ma perché aspettare tanto?

Perché lasciar così a lungo gli interpreti ed i vari stakeholders in mezzo al guado di una così insidiosa incertezza operativa?

La placida ponderazione con cui la Cassazione ha inteso affrontare il tema – del tutto incurante dei segnali di impazienza che provenivano dai settori più direttamente coinvolti, assicurazioni obbligatorie in primis – poteva lasciar supporre l'elaborazione di una trama motivazionale di largo impianto, ben sedimentata e posta al servizio di una decisione in qualche modo innovativa, quale che fosse la scelta finale adottata.

Nulla di tutto ciò è, invece, avvenuto.

Tagliente e concisa, la sent. n. 15350 del 22 luglio 2015 si è, infatti, limitata a cassare con forza ogni slancio riformista, facendo proprio quell'orientamento di netta chiusura (all'autonoma risarcibilità del danno da “morte immediata”) che la Suprema Corte aveva, da più di qualche decennio, sposato e condiviso senza incertezze di sorta.

Nessuna svolta epocale, anzi.

Si comprende, dunque, perché, in prima lettura, la tanto agognata pronunzia suscita un senso di vaga delusione, quasi di non appagamento.

Andando però oltre alle suggestioni più immediate si può coglierne, senza incertezze, la straordinaria importanza, anche prospettica: pur senza innovare alcunché la sentenza in commento assume, infatti, il valore di piccola summa e di autentica pietra miliare all'interno del complesso e faticoso processo di armonizzazione e ri-definizione degli assetti e delle coordinate del moderno sistema della responsabilità e del risarcimento.

Ed invero, nell'argomentare le ragioni del proprio rigetto, le Sezioni Unite hanno compiuto una vera e propria scelta di campo tra le due diverse vocazioni che da tempo animano il più generale dibattito sulla natura e sulla funzione della responsabilità civile. Il tutto sposando senza incertezze una concezione della responsabilità strettamente correlata alle esigenze della miglior allocazione dei danni «secondo i principi dell'analisi economica del diritto».

Non può, d'altra parte, non ricordarsi come la deflagrante apertura al nuovo “danno da perdita della vita” era stata propugnata, per la prima volta in termini espliciti, da un'altra decisione paradigmatica, la nota sentenza “Scarano” (Cass. n. 1361/2014, in Ri.Da.Re.si veda La lucida agonia del danno tanatologico in attesa delle Sezioni Unite, di Damiano Spera), autentico manifesto di un pensiero giuridico antropocentrico teso a non deflettere in alcun modo dagli obiettivi della più piena tutela dei valori della persona. Così quella sentenza, muovendo da una ben affrescata ricostruzione storica della vicenda del danno non patrimoniale, si era fatta interprete di una coscienza sociale che, respingendo ogni approccio “pan-economico”, avrebbe avvertito «l'insopprimibile esigenza di non lasciare priva di ristoro la lesione di valori costituzionalmente garantiti», tra i quali in primis il diritto alla vita.

Si trattava, dunque, di comprendere se tale rivoluzionaria impostazione fosse o meno condivisibile e se potesse veramente affermarsi sino a sconfessare il ben diverso orientamento che ammette – e forse postula – la possibilità di condizionare la (misura della) tutela della persona a logiche più ampie di sistema e di riallocamento (sociale e mutualistico) dei costi e dei rischi. Orientamento che permea talune tra le più recenti esperienze normative e giurisprudenziali - soprattutto nell'ambito dei sistemi di responsabilità obbligatoriamente assicurati, quali quello della Rc auto e della responsabilità sanitaria (si considerino, tra l'altro, Corte Cost. n. 235/2014, Cass. civ. n. 12408/2011 e sul piano normativo, art. 32, commi 3-ter e 3-quater, D.L. del 24 gennaio 2012 n.1 e il c.d. Decreto Balduzzi D.L., 13 settembre 2012, n. 158 s.m.i.) – e si pone in rapporto di evidente antinomia con la stessa idea di poter risarcire il danno da morte immediata.

La risposta delle Sezioni Unite avrebbe dunque potuto, alternativamente:

  1. accogliere la linea eversiva tracciata dalla sentenza “Scarano” e segnare un punto di svolta – o meglio, di controtendenza – rispetto al trend evolutivo di quest'ultima decade;
  2. ripudiare quella sollecitazione, rimanendo ancorata alla concezione - oggi dominante - di un sistema della responsabilità civile economicamente orientato e influenzato dalla ricerca di un equilibrio tra le esigenze generali di sostenibilità e quelle di riparazione e redistribuzione delle perdite tra i consociati.

Nel seguire, senza incertezze e con mano ferma, quest'ultima via, la sentenza Cass. n. 15350/2015 riveste dunque valore esemplare, chiudendo il cerchio di quel percorso di razionalizzazione del settore avviato dalle sentenze gemelle del 2008 e sancendo la necessità di presidiarne il buon funzionamento, al di là di slanci teorici e di utopistici proclami.

Non solo. Al ripudio del “danno da perdita della vita” si accompagna, con altrettanta eloquenza, il rifiuto di valorizzare qualsiasi finalità (anche solo latamente) punitiva del risarcimento civilistico: il che sembra tradire l'intenzione di porre un altro argine e di stoppare ogni tentativo - recentemente rifiorito, a fronte dei noti vincoli tabellari, specie in ambito assicurativo - di dilatare le poste risarcibili attraverso la valorizzazione della gravità della condotta, anche a prescindere dall'entità effettiva delle conseguenze risarcitorie.

Possiamo, dunque, senza imbarazzi affermare che le Sezioni Unite, pur senza portare veri e propri contributi di novità, hanno voluto in qualche modo “segnare” il nostro tempo, consacrando il presente momento storico ed imbastendo un paradigma ideale di riferimento con il quale il futuro formante giurisprudenziale dovrà inevitabilmente confrontarsi.

La parabola evolutiva della responsabilità civile – dopo aver conosciuto le spinte estensive e filo esistenzialiste di fine millennio – sembra dunque, oggi più che mai, aver invertito il proprio corso.

L'irrisarcibilità del danno da perdita della vita

Esaminando il quinto – centrale – motivo di ricorso (quello afferente al risarcimento del danno da morte immediata), la sentenza in commento affonda subito il colpo, senza tergiversare e venendo subito al cuore del problema.

Al riguardo la Suprema Corte afferma di voler accordare continuità al risalente e costante orientamento di legittimità che esclude la possibilità di invocare un diritto al risarcimento dei danno iure hereditatis nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni. Orientamento che, stigmatizzato dalle S.U. già quasi un secolo fa (Cass., sent., 22 dicembre 1925, n. 3475) aveva trovato pieno avallo nella sentenza della Corte cost. n. 372/1994 sino consolidarsi nella successiva – e sostanzialmente unanime – giurisprudenza della Cassazione.

La tesi di fondo si regge su più argomenti logico-giuridici sostanzialmente convergenti: «un diritto di risarcimento può sorgere in capo alla persona deceduta limitatamente ai danni verificatisi dal momento della lesione a quello della morte, e quindi non sorge in caso di morte immediata, la quale impedisce che la lesione si rifletta in una perdita a carico della persona offesa, ormai non più in vita (…) L'ostacolo a riconoscere ai congiunti un diritto di risarcimento in qualità di eredi non proviene dunque, dal carattere patrimoniale dei danni risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., bensì da un limite strutturale della responsabilità civile: limite afferente sia all'oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, sia alla liquidazione del danno, che non può riferirsi se non a perdite ». (Corte cost., 27 ottobre 1994, n. 372).

A voler, di poi, effettuare una più ampia ricognizione dei principi posti al servizio di tale orientamento si può attingere alla nota Cass., sent., 16 maggio 2003, n. 7632, in cui la Suprema Corte aveva affermato, tra l'altro, che «la lesione dell'integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza di tempo dall'evento lesivo, non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, trasferibile agli eredi». A nulla rileverebbe, del resto «la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno». Sarebbe, infine, inconcepibile «Per il bene della vita (…) una forma di risarcimento anche solo per equivalente (Cass. 14 febbraio 2000, n. 1633): infatti, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, é impossibile un risarcimento per equivalente, che operi quando tale persona abbia cessato di esistere». (Cass., 16 maggio 2003, n. 7632).

Tutti questi argomenti risultano fedelmente trasposti e ripresi nella sentenza in commento la quale, peraltro, finisce per attualizzarli calandoli con più convinzione nel contesto economico sociale del nostro tempo, anche al fine di superare le ragioni addotte a sostegno della sent. n. 1361/2014 «che ha effettuato un consapevole revirement, dando luogo al contrasto in relazione al quale è stato chiesto l'intervento di queste sezioni unite».

Le critiche alla sentenza “Scarano”

A detta delle Sezioni Unite le argomentazioni spese per ribaltare l'orientamento tradizionale, non convincono, in quanto (implicitamente) fondate su di una concezione del sistema della responsabilità civile da tempo superata e focalizzata sull'agire dell'autore dell'illecito e sulla funzione sanzionatoria e deterrente (analoga a quella penale) attribuita al risarcimento. Si tratta di un approccio oggi non più sostenibile, atteso che «l'attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l'area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretto a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno».

Immerso, dunque, in questo razionale bacino di riferimento, il danno da perdita della vita tradisce la propria impalpabile cifra ideale. E in quanto tale non riesce a trovar posto, se non su quel piano filosofico e meta giuridico che non può, e non deve secondo le Sezioni Unite, interessare l'interprete del diritto. In questo senso va letta la – forse – più energica tra le critiche mosse verso la “sentenza Scarano”, nella parte in cui questa dichiara di volersi ispirare a quella «coscienza sociale » che, nell'attuale momento storico, postulerebbe la necessità di risarcire la perdita della vita. Al riguardo le Sezioni Unite osservano che «la corrispondenza a un'indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l'attività dell'interprete del diritto positivo». Ed ancora: «secondo l'orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato). Come è stato osservato (Cass. n. 6754/2011), infatti, pretendere che la tutela risarcitoria “sia data ‘anche' al defunto corrisponde, a ben vedere, solo al contingente obiettivo di far conseguire più denaro ai congiunti».

A voler ben vedere quest'ultimo passo tradisce uno slancio motivazionale forse eccessivo e neppure necessitato: l'irrilevanza e l'inopportunità, sul piano sistematico, di ammettere il risarcimento del danno da morte immediata non sembra dover essere giustificata dal fatto che altrimenti gli eredi finirebbero per conseguire un (indebito) arricchimento; un tal modo di ragionare si scontra con la considerazione del fatto che una situazione non dissimile si verifica nei casi – ritenuti pacificamente ammissibili - in cui venga richiesto il risarcimento iure hereditario di un danno terminale o catastrofale (risarcimento che, anch'esso, potrebbe far conseguire più denaro ai congiunti o arricchire eredi magari indifferenti all'evento luttuoso o, peggio, addirittura ostili al defunto).

Altri sono invece i passaggi che, di assoluta pregnanza, vanno ad integrarsi con i principi da tempo declinati nelle celebri sentenze gemelle dell'11 novembre 2008, disegnando un nuovo e più aggiornato statuto del risarcimento del danno non patrimoniale, comprensivo della tematica afferente alla perdita della vita.

Può, dunque, essere opportuno stigmatizzarli, quasi a definire le linee guida a cui attenersi in futuro:

  1. se è vero che la vita costituisce bene meritevole di tutela nell'interesse dell'intera collettività è altrettanto vero che tale tutela «giustifica e anzi impone (...) la sanzione penale»; una sanzione la cui rilevanza, nel caso di specie, relega al rango delle mere suggestioni l'argomento, tralatiziamente utilizzato dai fautori del “danno da morte”, secondo il quale in mancanza del suo risarcimento civilistico sarebbe più conveniente uccidere che ferire. Tanto più che «la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, Cass. n. 1704/1997, Cass. n. 3592/1997, Cass. n. 491/1999, Cass. n. 12253/2007, Cass. n. 6754/2011) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all'ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni “punitivi” (Cass. n. 1183/2007, Cass. n. 1781/2012), i quali si caratterizzano per un'ingiustificata sproporzione tra l'importo liquidato ed il danno effettivamente subìto».
  2. Neppure pare convincente, da un diverso angolo visuale, la tesi secondo la quale non risarcire la perdita della vita contrasterebbe con il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni; ciò a maggior ragione laddove si consideri come tale principio non abbia copertura costituzionale (Corte cost. n. 132/1985, n. 369/1996, n. 148/1999) «ed è quindi compatibile con l'esclusione del credito risarcitorio conseguente alla stessa struttura della responsabilità civile dalla quale deriva che il danno risarcibile non può che consistere che in una perdita che richiede l'esistenza di un soggetto che tale perdita subisce». Argomento, tale ultimo, che, seppur utile (nella misura in cui ribadisce il valore relativo del principio dell'integralità della riparazione), non sembra del tutto calzante al caso di specie, in cui non si discorre tanto del mancato ristoro di pregiudizi altrimenti risarcibili quanto della ontologica non configurabilità di un vero e proprio danno da perdita della vita.
  3. Merita di esser poi criticata, secondo la sentenza in commento, l'affermazione per la quale il risarcimento del danno da perdita della vita costituirebbe eccezione al principio cardinale della risarcibilità dei soli danni/conseguenza. In proposito le Sezioni Unite osservano che «l'ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il “bene salute” e il “bene vita” sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità».
  4. In ogni caso, «per rappresentare un danno risarcibile » un determinato pregiudizio deve esser riferito ad soggetto che sia legittimato a far valere il relativo credito risarcitorio. E nel caso di morte immediata, o seguita dopo un brevissimo tempo dalla lesione, l'irrisarcibilità deriva non dalla natura personalissima del diritto leso ma «dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo»

Insomma, ciascuno degli argomenti spesi dalla “sentenza Scarano” trova il suo contrario nel ragionamento delle Sezioni Unite. E ciò al netto della motivazione “epicurea” che la sentenza in esame fa propria, confermando quanto il tema controverso finisca per essere influenzato, più che dall'applicazione di stringenti principi di diritto, da una serie di riflessioni a preminente matrice filosofico/sociale (e sul punto ci sia concesso rinviare a quanto chi scrive ebbe occasione di sottolineare ne Il risarcimento del danno da morte, M.Hazan, D. Zorzit, Giuffré, 2009, Cap.I).

Epicuro e dintorni

A voler ben vedere il riferimento al filosofo di Samo amplia i termini della questione, consentendo di comprendere come – ponendosi sulla scia del pensiero occidentale in tema di morte - le teorie «conservative» in materia di (ir)risarcibilità del danno tanatologico riposino non, come potrebbe apparire a prima vista, sul mero sviluppo di categorie giuridiche logiche ed astratte, ma sulla presa d'atto (più o meno cosciente) dell'impossibilità di dare risposta ad un interrogativo non eludibile e necessitato: se, innanzi alla morte, abbia ancora senso parlare di danno, piuttosto che di mero passaggio da uno stato reale, ad un «non stato» virtuale, dai confini estranei alla nostra umana capacità di intendere, comprendere, ed ancor prima, sentire.

Rovello di ogni coscienza, l'impenetrabile sipario della vita conserva da sempre il suo segreto. Avaro di sé, sfugge ai sensi ed all'umana comprensione, lasciando la morte attrice senza volto di un dilemma esistenziale. Di più: l'idea che la morte ed il morire «non siano» - e, comunque, non siano necessariamente un disvalore – non appartiene soltanto ad Epicuro, essendo al contrario datata quanto l'umanità, o almeno quanto la storia del pensiero universale.

La morte e l'ingiustificata paura di essa, l'anima, la sua immortalità erano già perni centrali del pensiero socratico, come riportato da Platone: «Temere la morte, infatti, non è altro, cittadini, che credere di essere sapiente senza esserlo: è credere di sapere ciò che non si sa, perché nessuno sa se la morte non sia il maggiore di tutti i beni per l'uomo, ma tutti la temono come se sapessero con certezza che è il maggiore di tutti i mali. E non è ignoranza questa, anzi la più biasimevole, credere di sapere ciò che non si sa?».

Lo stesso angolo visuale è poi utilizzato da Seneca, profondamente permeato dall'idea epicurea secondo cui la morte non ci riguarderebbe affatto proprio perché è “nulla”:

«Lucilio, la morte è così poco temibile che proprio per merito suo non dobbiamo temere nulla. (…) La morte o ci consuma o ci spoglia; se ci libera dal peso del corpo, rimane la parte migliore di noi; se ci consuma, di noi non resta niente». (Seneca, Epistole Morali).

Ed ancora si racconta che François Rabelais, nel congedarsi da coloro che lo assistevano al capezzale, avesse detto «vado ad incontrare il grande forse».

Quel “grande forse” che, da qualsiasi prospettiva, ed a qualsiasi latitudine lo si voglia esaminare, rimane - dunque - il mistero di ieri, di oggi e di sempre .

Una ragione in più per non accordargli, di per sé, quel valore risarcitorio che – barattando vita per moneta – finirebbe, dopo tutto, per avvilirla. Questo è il primo limite, non logico ma ontologico, a cui il modello generale della responsabilità civile, fondato sul principio della certezza del diritto, non sembra potersi adattare.

L'ultima frontiera: i danni terminali e il silenzio delle Sezioni Unite

Era lecito attendersi che nell'affrontare – ed escludere - il danno da perdita della vita le Sezioni Unite finissero per intervenire anche su quelle altre voci di pregiudizio a cui l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha invece accordato tutela, (si vedano, ex multis, Cass. civ., sez. III, sent., n. 13198/2015, idem nn. 23183/2014, 7126/2013, 22896/2012) forse al fine di compensare, in guisa di veri e propri rimedi palliativi, l'irrisarcibilità del danno da morte immediata.

Ci riferiamo, naturalmente, alla categoria dei così detti danni terminali, già pienamente avallata dalle sentenze gemelle del 2008, secondo le quali in caso di morte, il risarcimento del danno biologico per la perdita della salute può essere riconosciuto solo se, e in quanto, il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile; ferma restando l'ammissibilità del risarcimento, «a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo…. sofferenze che, non essendo suscettibili di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non possono che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione». (Cass., S.U., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975).

Secondo tale impostazione, oggi un poco semplicisticamente fatta propria dalla sentenza in commento, la partita risarcitoria andrebbe a giocarsi attorno a poche e vaghissime coordinate operative, tutte rimesse alla sensibilità – e quindi alla valutazione discrezionalmente equitativa – del Giudicante: da un lato il fattore tempo, da valutarsi, come sarcasticamente osservato dalla migliore dottrina, sul filo «dei secondi, dei minuti e delle ore tra la vita e la morte» (“Diritto alla vita e risarcimento iure successionis dei danni biologico e morale” M. Bona 1998, 152); dall'altro, la necessità di valutare il danno biologico maturato in capo al de cuius prima del suo decesso, svincolandosi dalle regole tabellari stabilite per le diverse e fisiologiche ipotesi di danno alla salute (patito dal soggetto rimasto in vita).

Quanto poi al «danno da lucida agonia», anch'esso prestava, e presta, il fianco a serrate critiche, vuoi per l'assenza di qualsiasi parametro liquidativo di riferimento vuoi per le evidenti difficoltà di prova di cui vengono onerati coloro i quali - gli eredi - dovrebbero dimostrare, per beneficiare del risarcimento loro riservato in via successoria, lo stato di lucida e drammatica consapevolezza in cui si sarebbe venuto a trovare il de cuius nell'attesa del decesso. Rimane, sullo sfondo, la difficoltà di convertire in moneta, in termini apprezzabili e non meramente simbolici (quando non addirittura risibili), il valore del danno da lucida agonia, mentre la scelta di selezionare le vittime risarcibili in base alla natura - vigile o meno - della loro partecipazione all'evento lesivo, rischia di condurre a conseguenze aberranti e discriminatorie (si veda, sul punto, Il risarcimento del danno da morte M. Hazan, D. Zorzit, Giuffré, 2009, Cap. VIII, Una casistica ragionata).

Orbene, a fronte di una così spiccata vaghezza categoriale, le Sezioni Unite hanno perso l'occasione per fornire un autentico contributo di chiarificazione e novità. E, si badi, se lo avessero fatto non sarebbero andate fuori tema. A nostro parere, invero, la stessa nozione di lucida agonia finisce per valorizzare indirettamente la perdita della vita, non in sé e per sé considerata ma in quanto consapevolmente percepita nell'intervallo di tempo intercorrente tra l'evento e il decesso.

Il che equivale a dire che, in assenza di convenzioni liquidative tabellate e ben riconosciute, la categoria del danno catastrofale potrebbe fungere da porta di servizio attraverso la quale far rientrare quel (presunto) danno – la perdita della vita – che pure le Sezioni Unite hanno energicamente sconfessato.

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