S.U. 2015: prosegue la saga sul danno non patrimoniale

30 Luglio 2015

La decisione in commento fu assunta dalle Sezioni Unite in occasione della camera di consiglio del 17 giugno 2014. Per quali ragioni le Sezioni Unite hanno aspettato oltre un anno per il deposito delle motivazioni? Nell'attesa si era ipotizzata la seguente spiegazione: le Sezioni Unite sarebbero rimaste in stand-by in vista della pronuncia della Consulta sull'art. 139 Cod. Ass. e poi, intervenuta questa, ci avrebbero consegnato un nuovo vademecum sul danno non patrimoniale.Nulla di tutto ciò: dopo un anno è pervenuto lo scontatissimo rigetto della risarcibilità iure successionis del cd. “danno da perdita della vita”.
Premessa: una pronuncia priva di sorprese

La decisione in commento fu assunta dalle Sezioni Unite in occasione della camera di consiglio del 17 giugno 2014.

Per quali ragioni le Sezioni Unite hanno aspettato oltre un anno per il deposito delle motivazioni?

Nell'attesa si era ipotizzata la seguente spiegazione: le Sezioni Unite sarebbero rimaste in stand-by in vista della pronuncia della Consulta sull'art. 139 Cod. Ass. (pervenuta con la deludente sentenza Corte cost., 16 ottobre 2014, n. 235) e poi, intervenuta questa, ci avrebbero consegnato un nuovo vademecum sul danno non patrimoniale.

Nulla di tutto ciò: dopo un anno è pervenuto lo scontatissimo rigetto della risarcibilità iure successionis del cd. “danno da perdita della vita” (nessun avrebbe scommesso un sol centesimo su una sentenza favorevole!) e non si registra alcun riferimento, manco fra parentesi, alla pronuncia della Consulta.

Il mancato richiamo alla sentenza Corte cost. n. 235/2014, a ben osservare, non è affatto un dato negativo, attese alcune statuizioni non particolarmente felici della decisione ora in disamina. Peraltro, si potrebbe anche ritenere eloquente il silenzio delle Sezioni Unite sul contributo della Consulta: forse che sia stato “cestinato” come si auspicava? (cfr. M. Bona, Corte costituzionale n. 235/2014: cestinatela!, in Ri.Da.Re.).

Sta di fatto come l'odierna sentenza delle Sezioni Unite, dunque, non sconvolga alcunché sul fronte del danno non patrimoniale in generale; sul punto risulta destinata a perdersi nell'immenso mare di decisioni che hanno trattato superficialmente il tema.

Passata questa calda estate ci ricorderemo di questa pronuncia soltanto per l'inequivocabile arresto sulla irrisarcibilità della “loss of life”.

Il diniego della trasmissibilità iure successionis del “danno da perdita della vita

Ho sempre sostenuto, con convinzione ed in buona compagnia (in primis Gennaro Giannini, Adriano De Cupis, Pier Giuseppe Monateri, Roberto Caso, Roberto Simone, Giovanni Battista Petti, Giuseppe Cricenti), la risarcibilità del danno da perdita della vita: P.G. Monateri e M. Bona, Il danno alla persona, Padova, 1998, 338 ss.; M. Bona, Diritto alla vita e risarcimento iure successionis dei danni biologico e morale: la soluzione della Cassazione, la risposta negativa alla risarcibilità della perdita della vita e la questione (irrisolta?) dei secondi, dei minuti e delle ore tra la vita e la morte, in Giur. it., 1998, 1589 ss.; M. Bona, Lesioni mortali e danni tanatologici non pecuniari: danni risarcibili, quantificazione e questioni aperte, in P.G. Monateri, M. Bona e U. Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano, 1999, 130 ss.; M. Bona, Il danno da perdita della vita: osservazioni a sostegno della risarcibilità, in Danno e resp., 1999, 623 ss.; M. Bona, E' risarcibile «iure successionis» il danno da perdita della vita? (Una risposta positiva), in Giur. it., 2000, 1200 ss.; M. Bona, Sofferenza esistenziale da agonia e «loss of life» de iure condendo: il nuovo approccio della Suprema corte, in Danno e resp., 2001, 822; M. Bona e P.G. Monateri, Il nuovo danno non patrimoniale, Milanofiori Assago, 2004, 403-412; M. Bona, La responsabilità civile per i danni da circolazione di veicoli, Milanofiori Assago, 2010, 521-539.

Nondimeno, mi trovo oggi ad accogliere, per così dire, “positivamente” il rigetto delle Sezioni Unite.

Perché? La ragione è molto semplice: il riconoscimento della trasmissibilità iure successionis della “loss of life” avrebbe consegnato a diversi soggetti (assicurazioni in primis) un ulteriore motivo per sostenere, a proprio uso e consumo, la (falsa) necessità di ridurre drasticamente la tutela risarcitoria dei “vivi” (innanzitutto macrolesi e congiunti di questi e di deceduti).

Occorre essere realistici: in questa triste fase storica, connotata da policy of law al ribasso, si può soltanto sperare che al diniego di tutela risarcitoria della vita di chi è ormai trapassato segua perlomeno una difesa strenua del diritto ad un risarcimento integrale di chi si troverà ad affrontare l'esistenza con delle menomazioni, grandi o piccole che siano, o senza avere più al suo fianco una persona cara.

Certamente - duole constatarlo - la sentenza in commento, come già stigmatizzato da altri interpreti (Paolo Cendon e Patrizia Ziviz su www.personaedanno.it), non brilla neppure sul versante della tutela risarcitoria dei “vivi”.

Infatti, liquida la questione del danno esistenziale in un fugace passaggio finale, contraddetto da copiosa giurisprudenza della stessa Corte. Su questo versante ci si soffermerà infra al § La questione generale del danno non patrimoniale: nessun vademecum, soltanto confusione.

Inoltre, le Sezioni Unite affermano apoditticamente in due righe, come se nulla fosse, che sarebbe «noto che secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 132/1985, Corte cost. n. 369/1996, Corte cost. n. 148/1999) il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale».

Stupisce questa estrema leggerezza da parte delle Sezioni Unite su un tema così fondamentale.

Peraltro, le sentenze della Corte costituzionale citate dalle Sezioni Unite non si sospinsero affatto a negare copertura costituzionale al principio dell'integrale risarcimento dei danni: basti pensare che nel lontano 1985 la Consulta, sulla base dell'art. 2 Cost., affermò a chiare lettere l'illegittimità costituzionale di una disciplina di origine addirittura internazionale, negando ogni rilevanza giuridica alla tutela degli interessi economici dei vettori aerei. Sorprende che le Sezioni Unite non si siano date la pena di leggere tali pronunce nella loro interezza.

Perché poi ignorare (come già la Consulta del 2014) la storica sentenza Repetto c. Atm Genova (Corte cost., 14 luglio 1986, n. 184), ove, tra l'altro, si sancì che «dalla correlazione tra l'art. 32 Cost. e l'art. 2043 c.c., è posta (…) una norma che, per volontà della Costituzione, non può limitare in alcun modo il risarcimento del danno biologico»?

La piega che di questi tempi stanno prendendo alcune sentenze risulta allarmante: quando, per ridimensionare principi primari (come il diritto ad una tutela risarcitoria integrale), si trascurano precedenti fondamentali e se ne riportano altri incorrettamente, significa che il discorso giuridico è ormai viziato, indirizzato su una china scoscesa, destinato a produrre gravi incertezze sui fondamenti stesse dell'ordinamento.

Non è esattamente questa la tutela risarcitoria dei “vivi” che sarebbe legittimo attendersi da una pronuncia che, negando qualsiasi spazio al risarcimento del danno da soppressione del diritto alla vita, ci ricorda, citando la Lettera sulla felicità di Epicuro, quanto l'esistenza possa e debba significare quando si è in vita.

Ad ogni modo, a contraddire sul punto la sentenza in commento, sovviene il seguente imperativo principio affermato dalle pur retrograde Sezioni Unite dell'11 novembre 2008: «Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio» (principio giustificato dalle Sezioni Unite del 2008 proprio sulla base di una lettura in senso costituzionalmente conforme dell'art. 2059 e dell'art. 1223 c.c.).

Ciò riferito e pur accettandosi la soluzione rinvenuta dalla sentenza in commento, come ovvio non si condividono poi le argomentazioni addotte dalle Sezioni Unite per rigettare il danno da perdita della vita.

Trattasi di motivazioni lungi dall'essere inedite: sono le medesime che da sempre hanno accompagnato il rigetto della “loss of life”.

Lo si è già dimostrato in altra sede: esse non reggono sul piano della logica giuridica.

Al riguardo occorre premettere quanto segue.

Le Sezioni Unite, rispetto ad altre occasioni in cui la Cassazione e giudici del merito si sono occupati del tema, si sono concentrate molto sulla questione degli scopi della responsabilità civile, quasi come se fosse il cuore pulsante della doctrine a favore del danno da perdita della vita e della “sentenza Scarano”.

Invero, le teorie sulla “loss of life” si sono sì richiamate alle funzioni extra-compensative della responsabilità civile, ma del tutto marginalmente, ad abundantiam: come si approfondirà oltre, i punti nevralgici di queste teorie sono ben altri. Ciò è stato rilevato anche dalla “sentenza Scarano”.

Sta di fatto come al riguardo le Sezioni Unite, invero svilendola, abbiano incidentalmente depauperato la responsabilità civile della sua funzione sanzionatoria e di deterrenza.

In questa loro operazione ideologica incorrettamente hanno evocato l'analisi economica del diritto, che, nonostante le sue ambiguità e contrapposte correnti interne, invece ammette sin dai suoi albori scenari punitivi e di deterrence (cfr., amplius, R. Cooter, U. Mattei, P.G. monateri, R. Pardolesi, T. Ullen, Il mercato delle regole, Analisi economica del diritto civile, Bologna, 1999, 367-445).

Ad ogni modo rileva soprattutto come le Sezioni Unite non soltanto abbiano equivocato in ordine agli insegnamenti dell'analisi economica del diritto (non sempre, comunque, brillanti), ma risultino avere trascurato altre importanti indicazioni.

Infatti, l'attribuzione, in via generalizzata, di una funzione sanzionatoria-esemplare in capo alla responsabilità civile e, più nello specifico, al risarcimento del danno non patrimoniale è stata costantemente presente nell'evoluzione dei sistemi risarcitori, anche quelli di civil law, e pure del nostro.

In particolare, è sfuggito alle Sezioni Unite come in Italia tale funzione sia rinvenibile innanzitutto in seno all'art. 2059 c.c., ove il danno in questione fu espressamente concepito dal legislatore del 1942 non solo ai fini della «riparazione o compensazione indiretta di quegli effetti dell'illecito che non hanno natura patrimoniale», ma anche per fare fronte al «bisogno di una più energica repressione con carattere anche preventivo» (così la Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice civile, n. 803).

Lo stesso legislatore europeo, più di recente, ha prospettato la possibilità di un diniego dei danni punitivi soltanto qualora “eccessivi” secondo l'ordinamento del foro (cfr. il ‘considerando' 32 del Reg. CE n. 864/2007), il che oggi contraddice pure la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità citata dalle Sezioni Unite in materia di esecuzione delle sentenze straniere (in primis Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2012, Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183).

Inoltre, poiché, come previsto dall'art. 96 c.p.c., è senz'altro legittimo nel nostro ordinamento sanzionare, attraverso un vero e proprio danno punitivo e senza che rilevino eventuali danni-conseguenza, chi incorra in condotte processualmente censurabili (cfr. Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902), a maggior ragione ciò dovrebbe risultare possibile in relazione a comportamenti extraprocessuali direttamente lesivi di diritti fondamentali e tali da configurare gravi ed odiosi reati. È forse più grave comportarsi male al cospetto di un giudice oppure uccidere o ferire una persona?

Nondimeno, come si riferiva innanzi e come è stato puntualizzato anche dalla “sentenza Scarano”, non è sulla funzione della responsabilità civile che si reggeva e si gioca la doctrine della risarcibilità del danno da perdita della vita, bensì sul piano della logica giuridica connessa alla definizione di danno ed alle regole che presidiano la trasmissibilità di un diritto risarcitorio agli eredi del danneggiato.

Al riguardo le Sezioni Unite, per addivenire alla soluzione negativa, hanno per l'appunto affannosamente frullato un po' di tutto nel medesimo contenitore, pure evocando la falsa questione della “coscienza sociale”, che in realtà non è mai stata al centro delle tesi a sostegno della risarcibilità della “loss of life” (semmai, proprio la ripudiata “coscienza sociale”, nell'inedita veste, per così dire, di “sensibilità per i bilanci delle assicurazioni”, ha trovato ampio spazio nella sentenza Corte cost. n. 235/2014).

La logica giuridica, nello specifico, ci dimostra quanto segue:

  • ça va sans dire, la vita è un bene giuridico costituzionalmente protetto: il “diritto alla vita” trova la sua fonte giuridica primaria nell'art. 2 Cost. in base al quale la Repubblica Italiana non solo deve riconoscere il diritto inviolabile alla vita, ma deve pure garantirlo; la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo all'art. 3 statuisce che «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona»; parimenti l'art. 2 («Diritto alla vita»), comma 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea prevede che « Ogni individuo ha diritto alla vita »; ogni costituzione del globo protegge tale diritto;
  • essendo che, per espressa previsione di legge (art. 2043 c.c.), è al momento del fatto illecito che sorge il diritto al risarcimento del danno, quello per la lesione del diritto inviolabile alla vita nasce quando il suo titolare è ancora vivo (non si può uccidere un morto!!!): soltanto l'istante immediatamente successivo (o , in svariati casi, persino dopo qualche tempo) egli subirà l'estremo danno, ma in quel preciso momento la lesione del suo bene vita (la menomazione terminale della salute) si è già verificata ed il suo diritto al risarcimento è già pienamente trasmissibile; detto con altre parole, non può non riconoscersi che fra l'evento lesivo del bene vita (cioè la compromissione irreversibile dell'integrità fisica) e la morte esiste sempre uno iato temporale, sebbene minimo, che permette l'effettivo acquisitivo e quello devolutivo agli eredi, senza doversi scomodare la scienza medica; anzi, non può proprio sussistere alcuna questione circa il tempo che un diritto al risarcimento del danno impiega a maturare onde trasmettersi agli eredi, poiché fra “fatto storico” e “diritto” esiste sì una relazione logica, ma non già una relazione temporale: l'illecito provoca (in senso logico giuridico) sia il sorgere della pretesa risarcitoria che la scomparsa di quel soggetto come soggetto giuridico, e quindi provoca (in senso logico giuridico) il trapasso della pretesa risarcitoria agli eredi (così già P.G. Montaneri, La responsabilità civile, Torino, 1997, 509);
  • la perdita della vita, inoltre, è manifestamente un danno-conseguenza: per effetto dell'illecito la vittima perde tutto ciò che ha, la sua esistenza; che non sia più sulla terra per potersela godere è irrilevante, giacché la questione è se il credito risarcitorio si sia trasmesso agli eredi e, come si è riferito, tale traslazione si è sicuramente realizzata nel mondo del diritto.
  • infine, che il caro estinto non sia più sulla terra per potersi godere il risarcimento è irrilevante, cioè non priva la posta risarcitoria in questione della sua funzione compensativa; infatti, anche a circoscrivere la funzione della responsabilità civile a quella compensativa, rimane come questa funzione sia soddisfatta dal momento che la lesione della vita è a tutti gli effetti riparata attraverso l'incremento del patrimonio che si trasmette agli eredi; del resto, neppure le Sezioni Unite hanno posto in dubbio che gli eredi siano legittimati a riscuotere il risarcimento per i pregiudizi non patrimoniali terminali del de cuius (tanto il «danno biologico terminale» quanto il «danno catastrofale»); eppure per il morto anche questo risarcimento, per citare mutatis mutandis Epicuro, vale nulla.

Insomma, si è qui convinti che la sentenza in disamina abbia semplicemente rivestito di motivazioni non propriamente avvincenti e giuridicamente fondate una vera e propria scelta politica: quella di non allocare agli eredi delle vittime di illeciti un'ulteriore (cospicua) somma.

Il che, tra l'altro, rende ancora una volta molto singolare il nostro ordinamento, decisamente strabico: si nega ciò che il nostro legislatore ha eppure accordato in taluni casi, sovvenendo al riguardo la L. 21 dicembre 1999, n. 497, che attribuì agli «eredi legittimi» delle vittime della tragedia della funivia del Cermis del 3 febbraio 1998 tre miliardi e ottocento milioni di lire (Euro 1.960.000,00) per ogni persona deceduta.

Ciò rilevato, è definitivamente chiusa la partita sul danno da “loss of life”?

Come sopra osservato e come anche ritenuto da altri commentatori, le motivazioni addotte dalle Sezioni Unite non risultano convincenti. Tuttavia, almeno di questi tempi un qualsiasi avvocato attivista dotato di buon senso ci metterebbe una pietra sopra: tre gradi di giudizio per rimettere in discussione, con scarsissime (se non inesistenti) probabilità di successo, un principio così netto quale quello affermato dalle Sezioni Unite rappresentano un costo eccessivo per qualsiasi cittadino.

Magari non mancherà chi si avventurerà per questa irta strada. Gli si augura buon fortuna, di cuore. Viceversa da parte di chi scrive si saluta definitivamente una buona teoria, ciò senz'altro con piena delusione, ma anche con la speranza che la magistratura, eliminata un'importante posta risarcitoria dai bilanci (attivi!) delle assicurazioni, non ceda sulla tutela integrale dei “vivi” e non segua le Sezioni Unite sulla relativizzazione/decostituzionalizzazione del diritto ad un risarcimento integrale.

I residuali danni non patrimoniali risarcibili iure successionis: i punti fermi delle Sezioni Unite

È da evidenziarsi la seguente nota positiva: le Sezioni Unite hanno ribadito la sicura risarcibilità iure hereditatis dei «danni che si verificano nel periodo che va dal momento in cui sono provocate le lesioni a quello della morte conseguente alle lesioni stesse».

Sul punto la pronuncia ha rilevato delle «incertezze» circa la distinzione, operata a livello giurisprudenziale, tra il cd. «danno biologico terminale» ed il cd. «danno catastrofale ». Le Sezioni Unite, comunque, hanno ritenuto come da tali incertezze «non sembrano derivare differenze rilevanti sul piano concreto della liquidazione dei danni».

In realtà, risulta chiaro come gli orientamenti riportati dalle Sezioni Unite non si distinguano fra loro sul fronte dell'inquadramento giuridico del danno risarcibile iure successionis, bensì, molto semplicemente, si siano occupati di fattispecie differenti sul piano naturalistico delle conseguenze pregiudizievoli: il primo (quello del cd. “danno biologico terminale”) ha ad oggetto il caso in cui l'arco di tempo intercorso tra lesione e decesso permette l'individuazione di uno stato di invalidità biologica temporanea secondo le stesse logiche applicabili alla liquidazione del danno non patrimoniale temporaneo nei casi di sopravvivenza del danneggiato (trattasi di casi in cui la vittima primaria rimane in vita per più di un giorno); il secondo (quello del “danno catastrofale”, o anche del cd. “danno morale da lucida agonia”) si è occupato di casi in cui la vittima primaria è deceduta in uno spazio ristrettissimo di tempo (anche una sola mezz'ora), nondimeno affrontando la sua morte “lucidamente”, cioè realizzando la sua fine e soffrendo coscientemente.

Questi due scenari, a ben osservare, potrebbero trovare la sintesi in un'unica categoria risarcitoria, quella del “danno non patrimoniale terminale”, la cui liquidazione, a seconda della durata della sopravvivenza, sarà centrata sul “danno morale da lucida agonia” (casi di decesso nel giro di alcune ore dal sinistro) oppure, perdurando la transizione dalla vita alla morte per più tempo, su un novero più complesso di pregiudizi non pecuniari (biologici, morali ed esistenziali), dunque il primo profilo (quello morale) inserendosi in uno scenario risarcitorio più ampio quale componente di questo.

Questa sintesi, invero, è stata già suggerita pure dalla stessa Suprema corte (Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23183): «il danno terminale è comprensivo di un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso) cui può sommarsi una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico)».

Mentre nel primo caso, come anche confermato dalle Sezioni Unite, non potrà che impiegarsi il criterio equitativo puro (cfr., per esempio, Cass. civ., sez. III, 8 aprile 2010, n. 8360, che, per mezz'ora di intensa e lucida agonia della vittima primaria, ha direttamente individuato e liquidato il pregiudizio morale in Euro 90.000,00), per la seconda più articolata fattispecie potranno assumersi quale base di partenza i criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale da invalidità assoluta temporanea, ovviamente, però, tenendosi conto «del fatto che, se pure temporaneo, tale danno è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed esitare nella morte» (così, ancora, Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23183 e Cass. civ., sez. III, 8 luglio 2014, n. 15491).

In altri termini, nella seconda fattispecie (sopravvivenza per più giorni) «la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea”, tuttavia dovendosi escludere che “la liquidazione possa essere effettuata attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso» (così, ancora da ultimo, Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2015, n. 13198).

A quest'ultimo riguardo deve osservarsi come la Suprema corte abbia bollato la liquidazione di Euro 1.000,00 per tre giorni di sopravvivenza alla stregua di «una simbolica liquidazione» tale da non tenere conto dell'«enormità» di questo danno e, quindi, effettuata «in violazione di legge» (così Cass. civ., sez. III, 26 giugno 2015, n. 13198); viceversa ha ritenuto congrua la somma di Euro 2.500,00 pro die (Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23183).

Logicamente, come anche chiarito da Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015, n. 10246, la liquidazione della componente biologica del danno non patrimoniale terminale non richiede che la vittima sia consapevole del suo stato.

La questione generale del danno non patrimoniale: nessun vademecum, soltanto confusione

La Sezioni Unite, invece di redigere il vademecum che sembrava prospettarsi, si sono limitate ad affrontare di tutta fretta la specifica questione del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, dedicando a questa alcuni sbrigativi passaggi.

Non è possibile, invero, commentare appropriatamente questa parte della pronuncia, perché difettano diversi dati circa le richieste risarcitorie avanzate dai congiunti dell'automobilista deceduto (i genitori e due sorelle), le prove da questi addotte e le motivazioni esatte delle liquidazioni accordate al ribasso dai giudici del merito.

Nondimeno, può rilevarsi quanto segue.

Le Sezioni Unite, nel rigettare bruscamente i motivi di ricorso con i quali tali congiunti lamentavano l'omessa considerazione dei pregiudizi esistenziali, hanno rilevato quanto segue: «la corte territoriale, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, ha motivato, richiamando e condividendo quanto operato dal tribunale, la liquidazione unitaria del danno, avendo considerato, al momento della relativa quantificazione, tanto quello di tipo relazionale quanto la sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale, e quindi non ha omesso di valutare il relativo capo di domanda».

Stando così le cose, è molto probabile che la Corte di Appello di Torino avesse peccato per estrema superficialità: infatti, i congiunti della persona deceduta (i genitori e le sue due sorelle) nel 2003 erano stati risarciti dal Tribunale di Cuneo con importi decisamente modesti; peraltro, in tale epoca il giudice cuneese operava, come la Corte d'Appello, con tabelle centrate sui soli danni morali (quindi con la conseguenza che, per gli altri pregiudizi, si rendeva necessaria una congrua personalizzazione dei parametri tabellari); dunque, è del tutto presumibile che fondatamente i ricorrenti avessero lamentato in Cassazione la mancata considerazione dei pregiudizi esistenziali, ora invece inclusi, perlomeno relativamente a quelli “standard”, nelle versioni delle tabelle milanesi intervenute a partire dal 2009 (incrementate, per l'appunto, per riflettere in concreto la sopravvenuta unitarietà del danno non patrimoniale).

In breve, potremmo trovarci dinanzi ad una sentenza di legittimità, che, come purtroppo spesso avviene negli ultimi anni, liquida con eccessiva leggerezza la questione del risarcimento integrale, accontentandosi di leggere nella sentenza impugnata la dichiarazione da parte della corte territoriale di avere “considerato” tutti i pregiudizi non patrimoniali o della “considerazione” di questi da parte del giudice di primo grado.

Sennonché, in sede di legittimità l'enunciazione, da parte dei giudici del merito, dell'intervenuta “considerazione” di tutti i pregiudizi (sia quelli morali che quelli esistenziali) andrebbe sempre vagliata con scrupolo: altrimenti la declamata unitarietà del danno non patrimoniale rischia di divenire – come in realtà si verifica troppo frequentemente – il coperchio di un contenitore riempito a metà e, talvolta, con estrema avarizia.

Ciò premesso, sta di fatto come le Sezioni Unite abbiano atteso un anno per consegnarci un mero richiamo alle precedenti sentenze dell'11 novembre 2008 (nn. 26972, 26973, 26974 e 26975): «non sono configurabili, all'interno della categoria generale del danno non patrimoniale, cioè del danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, autonome sottocategorie di danno, perché se in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti-reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, mentre, se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all'art. 2059 c.c.».

Tale sunto di molteplici passaggi delle pronunce del 2008 non è brillante.

Evidentemente, infatti, le Sezioni Unite del 2015, nella fretta di consegnare la tanto attesa sentenza, hanno ivi mischiato insieme questioni relative alle tecniche per la liquidazione del danno non patrimoniale con problemi inerenti i presupposti della risarcibilità dei singoli pregiudizi non pecuniari.

Non solo: sono cadute in evidente contraddizione, avendo all'inizio della sentenza avvalorato l'impiego di sottocategorie a valenza descrittiva quali il danno biologico terminale ed il danno morale da lucida agonia.

Soprattutto le Sezioni Unite non hanno compreso un punto fondamentale: ammettere che in seno alla categoria unitaria del danno non patrimoniale si possano individuare, sul piano naturalistico delle conseguenze pregiudizievoli, sottocategorie o componenti o sottovoci descrittive di questo non significa in nessun modo dare luogo a duplicazioni risarcitorie, ma permettere (ed imporre!) ai giudici del merito di pervenire ad una liquidazione unitaria analiticamente motivata e, pertanto, tale da considerare in concreto tutte le diverse sfaccettature (biologiche, morali ed esistenziali) del danno non patrimoniale, così scongiurandosi che nel nome dell'unitarietà della categoria generale si addivenga a liquidazioni e motivazioni farlocche, come giustappunto potrebbe essersi verificato nella controversia affrontata dalla Corte.

Eppure la stessa Cassazione, proprio perorando i predetti obiettivi, ha in più occasioni sottolineato, anche dopo le sentenze del San Martino 2008, l'esigenza che in sede di motivazione il giudice del merito, pur nel contesto del danno non patrimoniale unitario, rispetti il principio della liquidazione in via analitica: «la valutazione unitaria del danno non patrimoniale deve esprimere analiticamente l'iter logico ponderale delle poste (sinteticamente descritte e tipicizzate in relazione agli interessi o beni costituzionali lesi) e non già una apodittica affermazione di procedere ad un criterio arbitrario di equità pura, non controllabile per la sua satisfattività» (Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2009, n. 13530); in altri termini, «pur se l'importo del risarcimento va quantificato in un'unica somma (come indicato da Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972, leading case in materia), il giudice deve dimostrare nella motivazione di avere tenuto conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale abbia assunto nel caso concreto” (Cass. civ., sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22909).

Non si starà qui a richiamare il numero impressionante di sentenze che dopo l'11 novembre 2008 con estrema convinzione hanno ribadito l'importanza delle sotto-categorie proprio ai fini della corretta liquidazione unitaria del danno non patrimoniale.

Basti qui ricordare che la «sopravvivenza descrittiva» delle componenti o sottocategorie del danno morale e del danno esistenziale è stata ribadita a viva forza ancora nel mese di giugno 2015 dalla Suprema corte, che, peraltro, ci ha ricordato, anche con riferimento alla nota questione degli artt. 138 e 139 Cod. Ass., che è lo stesso legislatore a legittimare la distinzione, in seno alla categoria generale, tra pregiudizi biologici, morali ed esistenziali (cfr. Cass. civ., sez. III, 9 giugno 2015, n. 11851).

Ci si domanda, allora, il perché dopo un così lungo parto le Sezioni Unite, pur necessariamente consapevoli degli orientamenti sviluppatisi in seno alla stessa Cassazione avverso la negazione di qualsiasi valenza delle sottocategorie, abbiano ritenuto di ignorare oltre sei anni di copiosa giurisprudenza di legittimità.

Che storia è mai questa?

Le Sezioni Unite rivestono un ruolo fondamentale: contribuire alla certezza del diritto, dipanare contrasti giurisprudenziali, prevenire orientamenti contrapposti in seno alle corti territoriali.

Invece, qui ci troviamo dinanzi ad uno scenario sconcertante: si richiama superficialmente un principio largamente superato e palesemente inefficiente (produce, infatti, sentenze a rischio di impugnazioni), senza darsi conto dei perché svariati giudici della stessa Cassazione (tra l'altro presenti nella camera di consiglio delle Sezioni Unite) avrebbero reiteratamente errato nell'attribuire valenza descrittiva alle sotto-categorie del danno non patrimoniale.

Logicamente una pronuncia siffatta è lungi dal poter risultare dirimente sui temi generali del danno non patrimoniale.

Insomma, continua tale e quale la saga del danno non patrimoniale e delle sue sotto-categorie, prosegue lo stato di confusione all'interno della Suprema corte.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario