La sentenza Cass. S.U. n. 15350/2015: pietra tombale sul danno tanatologico e crisi della funzione nomofilattica della Cassazione

31 Luglio 2015

Con la sentenza n. 15350/2015 le Sezioni Unite della Cassazione hanno negato la risarcibilità del danno da perdita della vita, c.d. "danno tanatologico". Le Sezioni Unite hanno “bocciato” la sentenza della Cassazione n. 1361 del 23 gennaio 2014 (c.d. sentenza “Scarano”), che aveva invece riconosciuto l'esistenza e la risarcibilità del danno tanatologico. Nella sentenza si confermano, invece, i principali punti di arresto delle sentenze di San Martino 2008: unitarietà del risarcimento del danno non patrimoniale, danno non patrimoniale come danno conseguenza, critica dell'autonoma categoria del “danno esistenziale”. Tuttavia le criticità del danno non patrimoniale sono imputabili anche alla profonda crisi che investe la funzione nomofilattica della Cassazione.
Perché un'attesa così lunga?

Con la sent. Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361 (c.d. “sentenza Scarano” dal nome dell'estensore) la Cassazione, in consapevole contrasto con tutti i precedenti orientamenti giurisprudenziali (dopo una lunga e direi esagerata dissertazione), affermava, tra gli altri, i seguenti principi di diritto:

  • «Il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis»;
  • «La perdita della vita deve ritenersi dunque di per sé ristorabile in favore della vittima che la subisce, irrilevanti al riguardo invero essendo sia il presupposto della permanenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento che il criterio dell'intensità della sofferenza della vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine»;
  • «Il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all'exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza».

Con ordinanza del 4 marzo 2014, n. 5056, la Sezione terza della Cassazione rimetteva alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto di giurisprudenza generatosi «sul tema del diritto della risarcibilità iure haereditario del danno da morte immediata».

Nella Camera di Consiglio del 17 giugno 2014 le Sezioni Unite della Cassazione decidevano sulla questioni di massima rimessa con la citata ordinanza.

Con sentenza Cass. n. 15350 del 22 luglio 2015, le Sezioni Unite hanno affermato che «Nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni si ritiene che non possa essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis».

Le Sezioni Unite intendono così dare continuità al risalente e costante orientamento che ha negato la risarcibilità del diritto alla vita sul presupposto che «l'ampia motivazione della sent. n. 1361/2014 (…) non contiene argomentazioni decisive per superare l'orientamento tradizionale, che d'altra parte, risulta essere conforme agli orientamenti della giurisprudenza europea con la sola eccezione di quella portoghese».

La Cassazione con una motivazione di “10 paginette” ha esaminato e risolto le questioni che qui interessano.

Perché la Cassazione ha impiegato circa 13 mesi per scrivere questa sintetica ma efficace motivazione?

In questa lunga attesa sono state formulate le ipotesi più disparate: la Cassazione dopo aver deciso di sconfessare la sentenza “Scarano” avrà mutato avviso? Ci sono state ulteriori Camere di consiglio? Sarà pubblicata una motivazione che disegnerà un nuovo statuto, insomma una “nuova sentenza di San Martino” sul danno non patrimoniale?

Anch'io, quindi, come Maurizio Hazan, (v. Game over! Il danno da perdita della vita non è risarcibile in Ri.Da.Re.), alla prima lettura della sentenza in esame ho provato un sentimento di delusione: tanta attesa per nulla!

Poi però mi sono ricreduto: la sentenza è estremamente importante in tutti i passaggi della motivazione, sebbene confermativi dell'indirizzo tradizionale prevalente.

Ed allora perché attendere tanto ed impiegare più di un mese per scrivere ciascuna paginetta della sentenza?

Credo che l'unica spiegazione plausibile sia stato un contrasto durissimo tra i componenti del Collegio sulla motivazione della sentenza. A mio avviso, le divisioni non hanno riguardato la negazione della risarcibilità del bene vita, credo condivisa dalla maggioranza (se non dalla totalità) dei membri del Collegio. Il contrasto potrebbe esservi stato circa le altre criticità e questioni aperte che gravitano intorno al danno non patrimoniale.

Probabilmente, dopo un interminabile stallo tra diverse soluzioni, ha prevalso l'unica possibile: motivazione minimale e deliberatamente non approfondita, rinviando ad un prossimo futuro lo scontro aspro tra le diverse correnti di pensiero presenti in Cassazione.

Ma quali che siano le ipotesi (più o meno fantasiose!) sul suo iter procedimentale, questa sentenza deve essere ormai valutata nella sua oggettività, senza alcun fuorviante pregiudizio.

Ebbene la sentenza ha il pregio di stigmatizzare con “rapidi colpi di fioretto” le varie soluzioni accolte. Dico subito che io le condivido integralmente, come del resto si evince dal mio Focus pubblicato in questa Rivista (v. La lucida agonia del danno tanatologico in attesa delle Sezioni Unite, in Ri.Da.Re.)

Le soluzioni accolte

1) Danno biologico terminale e danno catastrofale

La sentenza in esame prende atto che la questione rimessa alle Sezioni Unite «esula» dal tema del «risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni».

Tuttavia si limita ad aggiungere che la questione attiene alla risarcibilità del danno non patrimoniale, che la vittima acquisisce nel suo patrimonio e trasferisce agli eredi, allorché intercorra “un apprezzabile lasso di tempo” tra la lesione e la morte.

La sentenza svilisce l'importanza delle divergenze che emergono sul punto nelle diverse sentenze.

Anche in relazione ai differenti nomen iuris, rileva che trattasi di “mera sintesi descrittiva”.

In proposito ritengo che di danno biologico terminale possa parlarsi allorché intercorra un “apprezzabile” lasso di tempo che consenta il manifestarsi di “apprezzabili” compromissioni biologiche ed esistenziali nella residua breve vita della vittima.

Ribadisco altresì che, in assenza di lucida agonia, non si possa ravvisare alcun danno catastrofale.

In ogni caso, le Sezioni Unite, in assenza di tabelle normative e giurisprudenziali, rimettono al giudice di merito l'accertamento dei presupposti per individuare e liquidare il danno, con la condivisibile avvertenza che comunque «dovrà procedersi alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, con risultati sostanzialmente non lontani da quelli raggiungibili con l'utilizzazione del criterio equitativo puro utilizzato per la liquidazione del danno morale».

Questo principio di diritto deve quindi intendersi come la giusta critica alle affermazioni della sentenza “Scarano” secondo cui il presupposto del «lasso di tempo non trascurabile»o il criterio dell'intensità della sofferenza sarebbero soltanto meri escamotages interpretativi per superare le iniquità scaturenti proprio dalla negazione del risarcimento del danno da perdita della vita.

Va stigmatizzato, invece, che trattasi di pregiudizi affatto diversi e non si comprende come si possa continuare a confondere e mettere sullo stesso piano il danno non patrimoniale che la vittima subisce dopo l'incidente e quello che invece subisce nell'istante che separa il passaggio tra la vita e la morte!

Al contrario, la ricorrenza o meno di un apprezzabile lasso di tempo prima del decesso determina solo l'insorgenza o meno del diritto al risarcimento; tuttavia la lesione del bene salute o la (più breve) lucida agonia in attesa della morte devono essere risarciti con adeguati, sia pure personalizzati, importi monetari. Sono certamente errate, quindi, quelle sentenze che, per un'agonia di poche ore o per un danno biologico protrattosi per qualche giorno, liquidano l'intera somma indicata nella tabella milanese. Non mi stancherò mai di ripetere che questa somma presuppone la permanenza in vita della vittima ed è assunta a parametro equitativo per la liquidazione del complessivo futuro pregiudizio, anatomo-funzionale-relazionale e di sofferenza psico-fisica, che presumibilmente subirà la vittima fino al decesso.

Colgo infine l'occasione per informare i nostri lettori che l'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano - Gruppo danno alla persona (mailing list DannoMilano) nel prossimo settembre porrà l'attenzione (tra l'altro) sulla possibile individuazione di criteri uniformi e personalizzati per la liquidazione del danno terminale.

2) Danno da perdita della vita

La sentenza in esame pone una pietra tombale sull'asserita esistenza e sul possibile risarcimento del danno da perdita della vita!

La pronuncia riafferma la validità dei principi espressi nelle sentenze della Cass., S.U., n. 3475/1925 e della Corte cost. n. 372/1994 e ribadisce che lesione del bene salute e lesione della vita sono beni giuridici affatto diversi.

Il danno risarcibile è sempre una perdita ed è trasmissibile agli eredi, ma nell'ipotesi di morte che si verifica immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva «dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo».

Aggiungo che l'argomento vale in tutte le ipotesi, anche allorché la morte segua dopo un apprezzabile lasso di tempo. La circostanza che in quest'ultimo caso si accerta un danno risarcibile (danno terminale) non comporta alcuna sovrapposizione tra quest'ultimo e quello derivante dalla perdita del bene vita.

Nella sentenza “Scarano” si affermava che “la coscienza sociale” chiede che alla perdita della vita segua in ogni caso un risarcimento.

Tuttavia le Sezioni Unite replicano correttamente che la «indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere un rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l'attività dell'interprete del diritto positivo».

Certamente la coscienza sociale appare inidonea ad individuare i beni giuridici (e le connesse modalità di lesione e perdita) che siano suscettibili di liquidazione del danno.

Invece, alcuni autori hanno già criticato questo passaggio della sentenza in esame.

In particolare, la Prof.ssa Patrizia Ziviz (v. Il danno da perdita della vita: ritorno al passato in Ri.Da.Re.) ha obiettato che proprio le sentenze di San Martino avevano già fatto ricorso alla coscienza sociale, ed ora inopinatamente se ne vuole fare a meno.

È agevole replicare che le Sezioni Unite di San Martino sono collocate su ben altri e solidi architravi. Di coscienza sociale si tratta solo nel diverso iter argomentativo, relativo al filtro della gravità dell'offesa e della serietà della lesione; «Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico».

Ma, mi chiedo, cosa succederebbe in Italia se i giudici decidessero le liti «in base alla coscienza sociale»? La univoca risposta sarebbe: il caos più assoluto!

E dunque se la vita è bene meritevole di tutela nell'interesse dell'intera collettività, è sufficiente «la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, senza escludere il dritto ex art. 185, comma 2, c.p. al risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente lesi dal reato».

3) Integralità del risarcimento

Sul tema dell'integralità del risarcimento le Sezioni Unite riprendono le argomentazioni già espresse nella sentenza Cass. n. 6754/2011.

Che sia «più conveniente uccidere che ferire» non corrisponde al vero, in considerazione delle sanzioni penali e (sovente) dell'entità complessiva del risarcimento del danno.

Prima facie appare strano che la sentenza in esame, nel ribadire che «il principio dell'integrale risarcibilità di tutti i danni non ha copertura costituzionale», citi le sentenze della Corte cost. n. 132/1985 e n. 148/1999 e non menzioni invece la recentissima Corte cost., sent. n. 235/2014.

In quest'ultima pronuncia si afferma, infatti, che «Il controllo di costituzionalità del meccanismo tabellare di risarcimento del danno biologico introdotto dal censurato art. 139 cod. ass. – per il profilo del prospettato vulnus al diritto all'integralità del risarcimento del danno alla persona – va, quindi, condotto non già assumendo quel diritto come valore assoluto e intangibile, bensì verificando la ragionevolezza del suo bilanciamento con altri valori, che sia eventualmente alla base della disciplina censurata» (v. Riverberi sulla tabella milanese della pronuncia costituzionale sull'art. 139 Cod. Ass. in Ri.Da.Re.).

Pur tuttavia si deve ammettere che la citazione della pronuncia Corte cost.n. 235/2014 sarebbe stato solo un argomento rafforzativo, perché la sentenza in esame non pone affatto un problema di bilanciamento con altri valori costituzionali, ma prospetta tesi che esauriscono già la loro evidenza logica nei limiti strutturali della responsabilità civile.

4) Funzione riparatoria e non punitiva della responsabilità civile

Anche questo importante principio assume enorme rilevanza: «la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (…) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria)».

In questa prospettiva vittimologica dovrebbe quindi dirsi definitivamente tramontata ogni residuale configurabilità del c.d. “danno punitivo” in assenza di un intervento legislativo ad hoc.

5) Il danno non è mai in re ipsa

Appare opportuno ricordare il principio di diritto enunciato dalla Corte cost. n. 372/1994: «É sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato».

Anche la Cassazione aveva ribadito che «nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive, ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso (…); ne consegue che, pure nelle ipotesi di danno "in re ipsa", in cui la presunzione si riferisce solo all' "an debeatur" e non alla effettiva sussistenza del danno e alla sua entità materiale, permane la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario» (Cass., sent. n. 1781/2012).

Ma, già nelle citate sentenze di San Martino, la Cassazione stigmatizzava l'inaccettabilità dell'affermazione che «nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».

La “sentenza Scarano” ci dice, invece, che il danno da perdita della vita si acquisirebbe istantaneamente al momento dell'evento lesivo, ponendosi come eccezione al principio della risarcibilità dei soli “danni conseguenza”.

Le Sezioni Unite in esame, con un altro mirabile “colpo di fioretto”, affermano al contrario che «l'ipotizzata eccezione alla regola sarebbe di portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio e, comunque, sarebbe difficilmente conciliabile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto, l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il “bene salute” ed il “bene vita”, sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità».

È la parola fine a tante sentenze di merito (e talora di legittimità) che ancora prospettano alcune fattispecie di danno non patrimoniale come danno in re ipsa?

6) La liquidazione unitaria del danno ed il danno esistenziale

Nella disamina dell'ultimo motivo del ricorso, le Sezioni Unite pongono un'altra pietra miliare nella storia del danno non patrimoniale.

La Cassazione ribadisce, infatti, il principio della «liquidazione unitaria del danno», che comprende «tanto quello di tipo relazionale quanto la sofferenza soggettiva rappresentata dal danno morale», come affermato dalle Sezioni unite di San Martino. All'interno della categoria generale del danno non patrimoniale, non sono configurabili autonome sottocategorie di danno, perché se in essa si ricomprendono i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, essi sono già risarcibili ai sensi dell'art. 2059 c.c., «con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria, mentre, se per danno esistenziale si intendessero quei pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi non sono risarcibili per effetto del divieto di cui all'art. 2059 c.c.».

Tuttavia la Sez. Terza della Cassazione, anche dopo le sentenze di San Martino, aveva in più occasioni riproposto la frammentazione del danno non patrimoniale, con autonoma valutazione del danno biologico, del danno morale e di quello esistenziale (v. da ultimo Cass., sent. n. 11851/2015 ed il commento favorevole di Marco Bona. (v. S.U. 2015: prosegue la saga sul danno non patrimoniale, in Ri.Da.Re.)

Ora invece le Sezioni Unite saltano a piè pari le “divagazioni esistenzialiste” che negli ultimi anni abbiamo letto in molteplici sentenze della Terza sezione della Cassazione e riprendono implicitamente ma univocamente tutti i principi di diritto consacrati nelle sentenze di San Martino, secondo cui la sofferenza fisica e psichica«possono costituire solo "voci" del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell'integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione. (...) Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209 del 2005. (…)In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli “aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato". Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale».

È appena il caso di aggiungere che, in questa prospettiva, riprendono altresì la piena forza dell'effettività le tabelle milanesi di liquidazione del danno non patrimoniale, elevate dalla sentenza Cass. n. 12408/2011 (c.d. sentenza “Amatucci”) a parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c.. Infatti, come tutti sanno, e come è espressamente spiegato nei “Criteri orientativi”, le Tabelle milanesi sono permeate dei principi di diritto espressi nelle sentenze di San Martino.

Conclusioni

In definitiva, a mio avviso, la sentenza della Cass.,S.U., n. 15350/2015 può ora costituire una “linea del Piave” per scongiurare il pericolo che riprenda vigore “l'assalto alla diligenza” del danno non patrimoniale nei termini disegnati dalle sentenze di San Martino.

La sentenza in esame pone, infatti, molti “paletti fermi”, che devono essere rispettati non solo dai giudici di merito, ma anche e in primo luogo dai giudici di legittimità.

È sempre più impellente che la Cassazione, soprattutto a Sezioni Unite, si riappropri ed eserciti effettivamente la sua funzione nomofilattica, assicurando «l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale» (ex art. 65 ord. giud.).

Il controllo delle posizioni interpretative obbedisce all'elementare esigenza di garantire la certezza del diritto.

Alla crisi della funzione nomofilattica si è cercato di porre rimedio con il D.Lgs. n. 40/2006, che ha modificato l'art. 374 c.p.c., nella parte in cui impone alla Sezione semplice, che «ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite” di rimettere “a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso».

È tuttavia palese che questa norma sovente non risulta rispettata!

Ebbene, bisognerebbe ora imporre alle singole Sezioni di osservarla senza eccezioni, sia nei contrasti espliciti sia in quelli, ben più subdoli e pericolosi, impliciti.

Le sentenze della Cassazione dovrebbero distinguersi infatti per pertinenza, sintesi e sobrietà (qualità certamente presenti nella sentenza in esame), ma purtroppo sempre più spesso siamo costretti a leggere sentenze della Suprema Corte colme di obiter dictum e argomentazioni non sempre utili a dirimere la specifica questione giuridica in oggetto.

Certamente la confusione che regna nella liquidazione del danno non patrimoniale è imputabile in primo luogo al legislatore, che si ostina a non mettere mano alla riforma dell'art. 2059 c.c., introducendo una organica (e non settoriale) disciplina del risarcimento del danno non patrimoniale.

Ma gravi responsabilità devono essere attribuite anche alla perdurante crisi della funzione nomofilattica della Cassazione.

Non vorrei che la sentenza in esame, che ha rinunciato a stigmatizzare i contrasti, offrisse alla giurisprudenza di merito e legittimità altre occasioni per defatiganti “punti e a capo”!

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