Lealtà e probità nel processo

Remo Danovi
15 Aprile 2014

Tra i doveri delle parti e dei difensori (capo III, titolo II del codice di procedura civile) è l'art. 88 c.p.c., che impone alle parti e ai difensori “il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”. La ratio del principio è evidente: la norma tende ad assicurare che il processo, luogo di risoluzione dei conflitti tra le parti, sia svolto nel rispetto non solo delle specifiche regole espresse (prima di tutte il contraddittorio), ma anche della buona fede e correttezza, cioè con la lealtà e la probità dei soggetti che reclamano giustizia, per concorrere a realizzare il giusto processo. A questo fine, la correttezza e lealtà dei rapporti (il concetto di probità appare obiettivamente meno comprensibile) devono essere convintamente difese dallo stesso giudice che è arbitro della loro applicazione e deve riferirne agli organi disciplinari in caso di violazione.
Nozione

Tra i doveri delle parti e dei difensori (capo III, titolo II del codice di procedura civile) è l'art. 88 c.p.c., che impone alle parti e ai difensori “il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”.

La ratio del principio è evidente: la norma tende ad assicurare che il processo, luogo di risoluzione dei conflitti tra le parti, sia svolto nel rispetto non solo delle specifiche regole espresse (prima di tutte il contraddittorio), ma anche della buona fede e correttezza, cioè con la lealtà e la probità dei soggetti che reclamano giustizia, per concorrere a realizzare il giusto processo.

A questo fine, la correttezza e lealtà dei rapporti (il concetto di probità appare obiettivamente meno comprensibile) devono essere convintamente difese dallo stesso giudice che è arbitro della loro applicazione e deve riferirne agli organi disciplinari in caso di violazione.

Piuttosto è da chiedersi perché il legislatore abbia richiamato la lealtà e la probità e non abbia invece imposto un dovere di verità.

Ciò appare oltretutto singolare perché tutti i progetti preliminari al codice di procedura civile vi facevano riferimento.

Infatti, ad esempio, l'art. 20, comma 1, del progetto Chiovenda prescriveva alle parti e ai loro avvocati «il dovere di non dire consapevolmente cose contrarie al vero»; ancora il progetto Carnelutti (all'art. 28) disponeva che «la parte ha il dovere di affermare al giudice i fatti secondo la verità e non proporre pretese, difese o eccezioni senza averne ponderato il fondamento»; infine il progetto Solmi (art. 26) precisava che «le parti, i procuratori e i difensori hanno l'obbligo di esporre al giudice i fatti secondo verità e di non proporre domande, difese, eccezioni e prove che non siano di buona fede».

Non occorre qui ricercare le ragioni per cui il legislatore nell'art. 88 c.p.c. abbia preferito richiamare la lealtà e probità al dovere di esporre i fatti secondo verità; probabilmente si è considerato che questa seconda affermazione avrebbe imposto talora di produrre o dedurre contra se, e si è ritenuta questa sola possibilità conflittante con il dovere di esercitare la difesa degli interessi dell'assistito nel modo più ampio possibile (ma si pensi alla esperienza americana, ove anche l'imputato viene invitato a testimoniare, e la falsità è oltraggio alla corte e lo spergiuro è punito con grande severità).

Al di là delle ragioni delle scelte, resta il fatto che la regolamentazione positiva non si richiama alla verità e di ciò si deve dare atto.

Oggetto

Un secondo punto di riflessione riguarda proprio il fatto che i concetti richiamati sembrano riferirsi esclusivamente all'etica, senza contenuti giuridici, con tutte le difficoltà conseguenti di dare a essi una specifica applicazione.

Ne è anche prova il fatto che l'art. 88c.p.c. fino a oggi non è stato frequentemente applicato, e raramente i difensori sono stati segnalati agli organi disciplinari.

In verità, la scarsa applicazione dell'art. 88 c.p.c. è dipesa a mio avviso dalla difficoltà di individuare esattamente il contenuto concreto dei precetti a cui sono tenuti i difensori, e ciò anche per il distacco e disinteresse sempre esistito tra la cultura della professione forense e la cultura del processo. Non si è tenuto conto, infatti, della opportunità e del vantaggio di stabilire canoni oggettivi di condotta professionale per garantire la stessa integrità ed efficacia del processo, e solo da ultimo (con richiamo ripetuto alla legal ethics nell'ambito della c.d. law of lawyering) si è potuto affermare che la deontologia non è più da intendere come sussidiaria o secondaria rispetto alle regole processuali, ma complementare ad esse, divenendo parte attiva nella stessa identificazione dei comportamenti da tenere anche nell'ambito del processo.

Realizzato quindi il Codice deontologico forense nel 1997, ne sono derivate rilevanti conseguenze: da un lato le stesse norme deontologiche sono state considerate dalla Cassazione come norme giuridiche e d'altro lato proprio l'identificazione precisa delle regole deontologiche e dei relativi comportamenti ha permesso di determinare anche i contenuti dei principi da applicare nel processo.

Non a caso il nuovo Codice deontologico del 2014, che è in corso di definizione, reca un intero titolo che contempla molteplici regole che riguardano proprio i doveri dell'avvocato nel processo.

Responsabilità, conseguenze e sanzioni della trasgressione

Come abbiamo detto, l'art. 88 c.p.c. impone ai difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità e ne sanziona la mancanza con l'obbligo per il giudice di riferire alle autorità che esercitano il potere disciplinare.

Non è questa, tuttavia, l'unica conseguenza.

Infatti, sul piano processuale, l'accertata trasgressione al dovere di lealtà e probità è rilevante per motivare la condanna alle spese, come è previsto dall'art. 92 c.p.c. che consente al giudice, indipendentemente dalla soccombenza, di condannare la parte che abbia violato l'art. 88 c.p.c. «al rimborso delle spese, anche non ripetibili». A questo riguardo, la Cassazione (Cass., 20 marzo 2007, n. 6635, e nello stesso senso Cass., 16 maggio 2006, n. 11379) ha precisato che «in materia di spese processuali, al criterio della soccombenza può derogarsi solo quando la parte risultata vincitrice sia venuta meno ai doveri di lealtà e probità, imposti dall'art. 88 c.p.c.. Tale violazione, inoltre, è rilevante unicamente nel contesto processuale, restando estranee circostanze che, sia pur riconducibili ad un comportamento non commendevole della parte, si siano esaurite esclusivamente in un contesto extraprocessuale, le quali circostanze possono, al più, giustificare una compensazione delle spese».

Ma ancora, l'art. 116 c.p.c., secondo comma, consente al giudice di desumere argomenti di prova in generale, «dal contegno delle parti stesse nel processo», e quindi dai comportamenti eventualmente lesivi dei principi della correttezza posti in essere.

Infine viene in rilievo anche la possibile applicazione dell'art. 175 c.p.c. che attribuisce al giudice istruttore “tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento”. E nello stesso senso sono certamente richiamabili anche le nuove disposizioni che hanno introdotto il c.d. calendario del processo (d.l. 13 agosto 2011, n. 138, conv. in legge 14 settembre 2011, n. 148), nella parte in cui viene prescritto che «il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario ... può costituire violazione disciplinare» (art. 1-ter), per il giudice e per il difensore, quando vi sia un intento esclusivamente dilatorio.

Insomma, i doveri dei difensori nel processo vengono ad essere sempre più evidenziati nelle varie ipotesi previste e sono oggi ancor più oggettivamente precisabili attraverso l'elaborazione della giurisprudenza disciplinare.

Responsabilità disciplinare

In effetti, ove l'autorità giudiziaria ritenga che sussista una violazione dei doveri imposti dall'art. 88 c.p.c., deve segnalare i fatti agli organi disciplinari competenti (cioè ai Consigli dell'ordine e, ora, ai Consigli distrettuali di disciplina), e ciò con un provvedimento anche d'ufficio, del tutto discrezionale e non impugnabile non avendo contenuto decisorio.

Si apre così un procedimento disciplinare al termine del quale - ove sia riconosciuta esistente la violazione addebitata - può essere irrogata una sanzione disciplinare.

In effetti, gli stessi principi di lealtà e probità sono ripetutamente richiamati non solo nel codice deontologico, ma anche nella stessa nuova legge professionale forense (legge 31 dicembre 2012, n. 247), insieme con i tanti altri che assicurano una esemplare condotta nell'attività professionale e nel processo (l'indipendenza, la dignità, il decoro, la diligenza e la competenza), tenendo conto del rilievo sociale della difesa e dei principi della correttezza e leale concorrenza (art. 3 l.p.f.).

Tra i vari obblighi è anche precisato che l'avvocato non debba proporre azioni o assumere iniziative in giudizio con mala fede o colpa grave: una disposizione questa che ripercorre quanto è stabilito dall'art. 96 c.p.c., che disciplina la c.d. lite temeraria e la responsabilità aggravata, ulteriore prova della complementarietà tra le regole deontologiche e le norme processuali.

Casistica

A parte le innumerevoli decisioni disciplinari intervenute del Consiglio nazionale forense e della Cassazione a sezioni unite, sul piano processuale possiamo ricordare una recente decisione della Cassazione (Cass., 2 marzo 2012, n. 3338) che ha enunciato il principio generale per cui “il dovere di lealtà e probità processuale, che grava sulle parti e sui loro difensori, a norma dell'art. 88, primo comma, cod. proc. civ., impone all'avvocato, cui sia stata sollecitata una presa di posizione su di un'istanza chiara e ben definita, non solo di rispondere, ma anche di esprimersi in maniera altrettanto comprensibile e, soprattutto, di attenersi ad una logica di tipo binario, che non ammette formule di dubbia lettura, né ipotesi terze fra l'affermazione e la negazione”.

Più in particolare, tra gli esempi di riconosciuta violazione del dovere di lealtà e probità processuale si possono menzionare:

  • la fissazione dell'udienza di comparizione a distanza di anni;
  • la falsa indicazione della propria residenza allo scopo di impedire all'avversario di eccepire l'incompetenza per territorio;
  • lo spostamento della residenza del consumatore compiuto al fine di sottrarsi al radicamento della lite in una controversia riguardante contratti tra un consumatore e un professionista;
  • falsa affermazione da parte del conduttore nel giudizio di sfratto per morosità che il ritardo nel pagamento del canone è imputabile al locatore;
  • ipotesi di rifiuto di rispondere alle sollecitazioni di chiarimenti rivolte dal giudice;
  • in presenza di una contestazione generica, da parte del convenuto nel rito del lavoro, dei fatti affermati dall'attore, che disattenda così l'obbligo, sancito dall'art. 416 c.p.c., di prendere posizione in modo preciso in ordine alla domanda proposta dall'avversario; qualora si sia reso impossibile l'esecuzione di un provvedimento istruttorio che la controparte ha chiesto formalmente e al quale quest'ultima abbia diritto, con la precisazione che, nel caso in cui la controparte abbia proposto istanza di esibizione documentale, il dovere di lealtà processuale determina la protrazione dell'obbligo di conservazione dei documenti anche oltre la scadenza del decennio previsto dall'art. 2220 c.c. e fino a quando il giudice non abbia provveduto negativamente su detta istanza.

Ulteriori esempi sono poi rappresentati

  • dall'agire in giudizio per chiedere l'adempimento frazionato, contestuale o sequenziale, di un credito unitario;
  • dall'omessa comunicazione in giudizio del rifiuto di ricevere il pagamento proposto prima di dare inizio all'esecuzione, adducendo a giustificazione la mancanza del potere di riscuotere in capo al difensore.

Celeberrimo infine è il caso di proposizione di regolamento di giurisdizione manifestamente infondato e inammissibile, non notificato intenzionalmente ad alcuno dei litisconsorti, sì da poter riproporre l'istanza, congelando per anni il giudizio di merito (Cass., S.U., 3 novembre 1986, n. 6420, e contestuale ordinanza n. 628, in Foro it., 1987, I, 58, con nota di C.M. Barone, F. Cipriani, A. Pizzorusso, A. Proto Pisani): una attività che lo stesso difensore si è fatto vanto di avere utilizzato strumentalmente e che è stata giudicata con grande severità, essendo palesemente diretta a lucrare i vantaggi della sospensione del giudizio, in violazione dei doveri di lealtà e correttezza (ciò che ha poi indotto il legislatore a modificare l'art. 367 c.p.c.).

Etica e diritto, potrebbe essere la conclusione, per concorrere a costruire e realizzare il processo giusto.

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