Struttura pubblica (convenzionata e non) e sua responsabilitàFonte: Cod. Civ. Articolo 1218
09 Giugno 2014
Nozione BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Le linee che danno corpo, forma e sostanza alla responsabilità della struttura pubblica per “malpractice” convergono tutte verso un interrogativo di fondo: che tipo di tutela viene accordata al soggetto che abbia subito un danno in conseguenza di un trattamento medico? Quale azione potrà esperire ove intenda far valere le proprie ragioni? L'inquadramento sistematico della materia rappresenta, ad oggi, un punto fermo, nel senso che, dopo alcuni iniziali (e risalenti) incertezze, la giurisprudenza sembra assestata su posizioni “monolitiche”: il rapporto tra ente pubblico e paziente viene unanimemente ricondotto entro l'alveo contrattuale, ove gli artt. 1218 c.c. e 1228 cc. segnano, in un continuo dialogo e scambio, i termini della disciplina applicabile. Elemento oggettivo Secondo l'orientamento attualmente dominante, la responsabilità della struttura sanitaria pubblica ricade entro il paradigma di cui all'art. 1218 c.c. Tale inquadramento non è stato, tuttavia, sempre così scontato . Può essere interessante sapere che negli anni '70 la giurisprudenza maggioritaria (Cass., n. 44/1971, in Giur. It., I, 1, 1976; Cass., n. 1282/1971, in Foro It., 1971, 1, 1546; Cass., n. 1055/1973, in Rep. Foro It., 1973, n. 100; Cass., n. 31/1979, in Giur. It., 1979, I, 1, 954), ponendo l'accento sulla posizione sovraordinata dell'ente erogatore del servizio, escludeva la possibilità di applicare la disciplina contrattuale, poiché non era concepibile un rapporto paritario tra lo “Stato” ed il paziente. La disciplina di riferimento era, quindi, quella aquiliana (art. 2043 c.c.) sulla base della considerazione per cui l'attività della P.A. deve svolgersi nel rispetto non solo della legge, ma anche del precetto fondamentale del neminem laedere. In tale prospettiva si soleva dunque affermare che, ferma restando l'inammissibilità di un sindacato sull'esercizio del potere discrezionale, al Giudice ordinario era sempre consentito accertare la sussistenza di un comportamento colposo del funzionario/dipendente posto in violazione di diritti primari (come quello all'integrità fisica). In tale contesto, la responsabilità dell'ospedale per il fatto commesso dal personale era “diretta”, posto che i singoli operatori/ medici erano considerati “organi”. Questa concezione venne progressivamente abbandonata: in tale percorso di superamento, possono evidenziarsi due fasi. In un primo tempo - dalla fine degli anni 70 fino ai primi anni del '90 - si affermò la tesi secondo cui (Cass., n. 6141/1978, in Foro It., 1979, 1, 4 che venne immediatamente confermata da Cass., n. 1716/1979, in Foro It., 1980, 1, 1115) l'ospedale stipulava con il paziente un contratto d'opera intellettuale, obbligandosi ad eseguire le prestazioni di cura a mezzo dei propri dipendenti. In questa prospettiva – che segnava l'abbandono della concezione “pubblicistica” del rapporto -, l'ente appariva come una sorta di “macroiatra” e la sua responsabilità era costruita in chiave speculare rispetto a quella del medico (considerato alla stregua di una longa manus della persona giuridica ). In altri termini: in assenza di un “illecito” del sanitario, non era concepibile alcun autonomo “inadempimento” della struttura (che appunto, per il suo tramite, eseguiva la “prestazione professionale” cui era obbligata). Tale impostazione, pur avendo il merito di sottrarre il rapporto al regime aquiliano (consentendo così al paziente di beneficiare dei vantaggi derivanti dall'inquadramento negoziale, tra cui viene in considerazione, in primis, il termine prescrizionale decennale), venne sottoposta a dura critica dalla dottrina. I più attenti studiosi rilevarono anzitutto che la nozione di organo non poteva essere estesa sino al punto di farvi rientrare la figura del medico dipendente; si osservava infatti come l'attività da questi svolta avesse natura strettamente materiale e tecnica e, in quanto tale, costituisse espressione, più che di una vera e propria funzione pubblica, di un mero servizio prestato in favore dell'ospedale (G. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, 347). Sotto altro profilo, poi, si poneva in evidenza l'artificiosità del modello proposto dai giudici che finiva « per assimilare la struttura sanitaria ad un medico collettivo che stipula contratti di prestazioni d'opera con il paziente » (G. Corso, Disfunzioni organizzative e responsabilità delle strutture sanitarie, in La responsabilità professionale in ambito sanitario, a cura di R. Balduzzi, Bologna, 2010). Tale idea veniva ritenuta « da un lato, anacronistica e, dall'altro, riduttiva rispetto al contenuto più ampio dell'obbligazione assunta dall'ente» (R. Breda, La responsabilità della struttura sanitaria tra esigenze di tutela e difficoltà ricostruttive, in Danno e Resp., 2001, 1045. Per ulteriori approfondimenti vai a A. M. Princigalli, La responsabilità del medico, Napoli, 1983,292). Si andò così sviluppando una diversa concezione nell'ambito della quale l'ente veniva ad essere considerato come un imprenditore, tenuto ad organizzare l'attività in modo tale da soddisfare i bisogni degli utenti/pazienti ed a farsi carico del rischio legato all'erogazione del servizio (G. Iudica, Danno alla persona da inefficienza della struttura sanitaria, in Resp. civ. e prev. 2001,1,3). Sulla scia di tali “spinte dottrinali”, a partire dagli anni '90 prese il via un lento processo di revisione, che fu portato a compimento soltanto più di un decennio dopo , ricevendo formale avallo da parte delle Sezioni Unite nel 2008 (Cass. civ. S.U., 11 gennaio 2008, n. 577, in Resp. Civ. e Prev., 2008, 849). Dapprima i giudici di merito e, poi, la stessa Cassazione posero al centro del sistema la figura del cd. contratto atipico di spedalità ,che si perfeziona con l'accettazione del paziente presso il nosocomio e ha un oggetto molto ampio, non limitato all' erogazione delle cure sanitarie, ma esteso anche «ad obblighi di protezione e accessori» (Cass. S.U., n. 577/2008); si tratta quindi di un rapporto nell'ambito del quale vengono in rilievo anche prestazioni lato sensu alberghiere (vitto, alloggio, ristorazione), oltre che di custodia del paziente, predisposizione di turni di assistenza efficienti, prevenzione delle infezioni, corretta asepsi delle camere operatorie e degli strumenti, fornitura dei servizi infermieristici, di attrezzature ed impianti adeguati ecc. In tale nuova ricostruzione, che oggi costituisce un punto fermo - la Suprema Corte ha altresì precisato che la responsabilità della struttura pubblica può conseguire, a norma dell'art. 1218 c.c., all'inadempimento di obbligazioni che sono poste direttamente a suo carico (per es. quelle relative agli aspetti organizzativi, come l' articolazione dei turni, la predisposizione di ambienti adeguati, di presidi idonei ed attrezzature efficienti ecc.); oppure può derivare, ai sensi dell'art. 1228 c.c., dalla non corretta esecuzione della prestazione professionale svolta dal sanitario, il quale « assume la veste di ausiliario necessario del debitore » (Cass. civ., 14 luglio 2004, n. 13066, in Danno e Resp. 2005,537). La giurisprudenza sottolinea altresì che ;non è necessario che il medico sia dipendente della struttura, sia cioè a questa legato da un rapporto di lavoro subordinato, ; perché devono considerarsi “ausiliari” ai sensi dell'art. 1228 c.c. « tutti coloro di cui il debitore si avvale nell'esecuzione della prestazione, indipendentemente dalla natura del rapporto che ad esso li leghi» (Cass., n. 13066/2004 cit.). Si è altresì precisato che non occorre distinguere tra comportamento doloso o colposo del soggetto agente perché ciò che conta è la c.d. “occasionalità necessaria”: in altri termini, l'ente risponde di tutte le ingerenze dannose che siano rese possibili all'ausiliario dalla posizione conferitagli rispetto al terzo e cioè dei pregiudizi che « il dipendente può arrecare in ragione di quel particolare contatto cui si espone nei suoi confronti il paziente nell'attuazione del rapporto con la struttura sanitaria » (Cass. civ., 13 aprile 2007, n. 8826). Si è affermato, infine, che è del tutto irrilevante (ai fini di un eventuale esonero della struttura da responsabilità) che il medico sia anche “di fiducia” del paziente allorquando la scelta di quest'ultimo sia comunque caduta su un professionista “collegato” alla organizzazione aziendale della casa di cura ( Cass., n. 13066/2004, in Danno e Resp., 2005, 537; Cass. n. 13953/2007, in Foro It., 2008, VI, 1, 1990). Questa nuova ricostruzione dogmatica si differenzia notevolmente da quelle precedenti (più sopra illustrate) perchè consente di sganciare la responsabilità della struttura da quella del medico: l'ente può essere chiamato a risarcire il danno subito dal paziente anche a prescindere dalla esistenza di comportamenti colposi del personale dipendente, e persino quando non sia concretamente ravvisabile l'errore di uno specifico operatore. Non solo: laddove il pregiudizio sia riferibile soltanto alle “inefficienze organizzative” dell'ospedale, deve altresì escludersi l'operatività dell'art. 2236 c.c. posto che in tal caso « il complesso delle prestazioni cui la struttura è tenuta non può implicare la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: non viene in rilievo, cioè, il profilo dell'imperizia (che è predicabile solo delle prestazioni del professionista) » (G. Corso, Disfunzioni organizzative e responsabilità delle strutture sanitarie in La responsabilità professionale in ambito sanitario, a cura di R. Balduzzi, Bologna 2010). Il sistema attuale - avallato dalle Sezioni Unite (Cass., n. 577/2008 cit.) - si muove, dunque, entro i poli degli artt. 1218 e 1228 c.c., con la precisazione che la responsabilità contrattuale dell'ospedale verso il paziente può originare non solo dal fatto « del personale medico dipendente, ma anche da quello ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione) ». Dal punto di vista “oggettivo” occorre accennare ad altri due aspetti di rilievo: da un lato, è opportuno osservare che non è chiaro quale sia la specifica disciplina applicabile al cd. contratto atipico di spedalità. Al di là delle affermazioni di principio, la giurisprudenza non sembra aver indagato il tema, limitandosi a fare rinvio alle norme generali (art. 1218,1228 c.c.); va peraltro segnalata la sentenza della Cass. n. 12362 del 24 maggio 2006 secondo la quale il contratto tra il paziente ed il soggetto gestore della struttura (pubblica o privata) « ;è regolato, con riguardo alle prestazioni di natura sanitaria, dalle norme che disciplinano la corrispondente attività del medico nell'ambito del contratto di prestazione d'opera professionale ;», dovendosi quindi fare riferimento agli artt. 1176 e 2236 c.c. Restano peraltro aperti alcuni interrogativi, tra cui, per es. quello relativo alla possibilità di applicare la disciplina dettata dal codice civile in materia di contratto di albergo (artt. 1783 c.c. e ss.) (M. Hazan, D. Zorzit, Assicurazione obbligatoria del medico e responsabilità sanitaria, Giuffrè, 2013). Altro tema di non poca importanza è quello attinente al contenuto della obbligazione di “buona organizzazione”, che viene in considerazione allorquando si tratti di valutare la condotta dell'ente - in relazione agli adempimenti suoi propri (es, adeguatezza delle attrezzature, degli impianti ecc.) -. Esaminando la giurisprudenza, si nota che nella maggior parte dei casi la Cassazione, nell'affermare la responsabilità autonoma della struttura, non fa riferimento ad uno specifico standard di efficienza violato, ma richiama per lo più gli ordinari criteri di diligenza. In alcune pronunce di merito, tuttavia (Trib. Venezia, 10 ottobre 2006 in Resp. civ., 6, 2007,521; Trib. Napoli, 5 agosto 2010, n. 248) il Giudicante ha preso come parametri di riferimento gli “standard” imposti dalla legge per l'autorizzazione all'esercizio dell'attività sanitaria e per l'accreditamento ( si veda il D.P.R. 14 gennaio 1997), ed ha svolto una analisi comparativa basata su ciò che era « ragionevolmente esigibile per quell'ospedale in quell'epoca » conto tenuto altresì delle « strutture affini ». Elemento soggettivo Pur registrandosi un precedente di segno contrario (Cass. civ. sez. III, 8 gennaio1999 n. 103), l'orientamento ad oggi dominante afferma che, nel caso in cui il paziente abbia subito un danno in conseguenza delle prestazioni di cura in senso stretto «il positivo accertamento della responsabilità dell'istituto postula pur sempre la colpa del medico esecutore dell'attività che si assume illecita» poiché essa costituisce il presupposto richiesto «sia dall'art. 1228 che dal successivo art. 2049 c.c.» (Cass. civ. sez. III, 8 maggio 2001 n. 6386). Il principio è stato ribadito a più riprese dalla Suprema Corte e sembrerebbe oggi costituire un punto fermo (Cass. civ. sez. III 24 maggio 2006 n. 12362). Il tema richiede, tuttavia, qualche approfondimento perché è strettamente collegato alla interpretazione dell'art. 1218 c.c. ed alla tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. Non può infatti tacersi che, nelle applicazioni pratiche, spesso la giurisprudenza – specie attraverso il gioco del riparto degli oneri – finisce con l'addossare, attraverso interpretazioni molto stringenti, all'ente (ed al medico) una responsabilità para – oggettiva, ponendo a suo carico la prova della cd. causa ignota. Nell'ambito della responsabilità sanitaria, l'accertamento del nesso di causalità segue le regole “generali” , ossia quelle scolpite da Cass. civ. sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619. In altri termini, affinché possa dirsi esistente un collegamento eziologico tra la condotta del sanitario / ente e l'evento lesivo, è necessario e sufficiente un rapporto in termini di “più probabile che non”. Per quanto concerne, invece, il riparto dell'onere della prova , occorre distinguere tra un prius ed un posterius, in cui la linea di confine è rappresentata dalla già citata pronuncia della Cassazione n. 577/2008. Prima di tale sentenza, l'orientamento dominante era nel senso che il malato doveva dimostrare il contratto, l'aggravamento delle condizioni di salute o l'insorgenza di nuove patologie ed il rapporto causale tra l'errore e l'evento (salva l'eccezione - di cui infra - in relazione alla cartella clinica); per il resto, in aderenza a quanto statuito da Cass., n. 13533/2001, egli poteva limitarsi a dedurre l'inadempimento del sanitario (Cass. 15 gennaio 1997 n. 364; Cass., 23 febbraio 2000, n. 2044; Cass., 18 aprile 2005 n. 7997; Cass. n. 17 gennaio 2008, n 867). Occorre precisare tuttavia che la regola così enunciata subiva una (rilevante) deroga nel caso di omessa o incompleta tenuta della cartella clinica oppure di mancanza di adeguati riscontri diagnostici quando sussistevano i seguenti presupposti: a) la condotta colposa del sanitario era astrattamente idonea a provocare l'evento lesivo in concreto verificatosi; b) non era dato, tuttavia, sapere se il danno fosse effettivamente dipeso dall'errore del professionista piuttosto che da altri fattori; c) tale impossibilità dipendeva dalla mancanza di dati che lo stesso medico avrebbe dovuto rilevare e/o di accertamenti clinici che egli avrebbe dovuto compiere. In questi casi il nesso causale doveva ritenersi esistente (salva la prova contraria) perché le suddette lacune «non possono in via di principio ridondare in danno di chi vanti un diritto in relazione alla morte del creditore della prestazione sanitaria» (Cass. civ., 13 settembre 2000, n. 12103; va segnalato che tale indirizzo, relativo appunto all'ipotesi di omissioni nella cartella clinica, deve ritenersi ancora attuale, Cass., 8 giugno 2012, n. 9290; Cass., 21 giugno 2012, n. 10315, in D&G, 25 giugno 2012). Le Sezioni Unite, con la sentenza Cass. S.U., n. 577/2008, hanno ritenuto di dover modificare la regola “tradizionale”: ad avviso degli Ermellini , l'idea secondo cui competerebbe al paziente dimostrare il nesso risente della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato: secondo l'impostazione tradizionale, infatti, nelle prime, essendo aleatorio il conseguimento della finalità sperata (es. guarigione), spettava al malato/creditore dimostrare che effettivamente l'insuccesso era dipeso da errore del medico. Posto che — sostiene la Corte — oggi tale dicotomia non ha più ragion d'essere e che, alla luce dell'insegnamento di Cass., n. 13533/2001, il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova in materia contrattuale è unitario, la regola deve essere rivista. E così, secondo il nuovo indirizzo, il malato non deve (più) provare il rapporto causale: è sufficiente che egli alleghi un comportamento astrattamente efficiente alla produzione del danno; spetterà al medico/struttura dimostrare che non vi è stato inadempimento, ovvero che, se si è verificato (perché per es. non sono stati rispettati i protocolli, le regole di buona pratica ecc.), non ha avuto efficacia causale (es. la morte è dipesa da altri fattori indipendenti).La sentenza citata ha avuto immediata influenza presso le Corti: non può dirsi, tuttavia, che essa abbia generato uniformità di consensi. Tra le pronunce di merito, alcune si sono immediatamente allineate al dictum, altre, invece, con varie motivazioni, se ne sono discostate (Trib. Rovereto, 2 agosto 2008, in Danno e Resp., 2009, 5), mostrando di preferire la tradizione ai nova. Ma la stessa giurisprudenza di legittimità ha mostrato un ondivago incedere nella risoluzione della questione, tanto da dare vita, nel giro di pochi anni, ad un vero e proprio quadro a macchia di leopardo. E così, alcune pronunce hanno confermato la regola secondo cui il paziente deve (semplicemente) allegare un inadempimento astrattamente idoneo a produrre il danno (Cass., 8 giugno 2012, n. 9290; Cass., 9 ottobre 2012, n. 17143.; Cass., 1 febbraio 2011, n. 2334; Cass. 30 dicembre 2011, n. 30267; Cass. 26 gennaio 2010, n. 1538, in Diritto e Giustizia, 2010; Cass. 8 settembre.2009, n. 20101, in Ragiusan, 2011, 325-326,189). Altre, invece, hanno sostenuto che, in base ai principi generali, il malato ha comunque l'onere di provare il nesso causale tra la condotta dei sanitari e l'evento (Cass. 27 novembre 2012, n. 20996; Cass. 9 giugno 2011, n. 12686, in Ragiusan, 2011, 327-328, 208; Cass. 24 marzo 2011, n. 6744; Cass. 11 maggio 2009, n. 10743). Va altresì segnalata Cass. civ. 16..01. 2009, n. 975 che, pur dichiarando di aderire al principio enunciato da Cass., n. 577/2008, ha “rispolverato” la distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione per sostenere che nei primi il peggioramento e, comunque, il mancato miglioramento delle condizioni di salute implicano di per sé la prova (dell'errore del sanitario e) del rapporto eziologico. Il punto è che, a ben vedere, né l'una né l'altra delle soluzioni prospettate paiono appaganti. Da un lato, sostenere che il paziente è tenuto a provare il nesso non pare coerente con la regola (introdotta da Cass., n. 13533/2001 e confermata dalla giurisprudenza successiva) secondo cui egli deve solo allegare l'inadempimento. Pare a chi scrive che l'accertamento dell'esistenza di un concreto collegamento eziologico tra l'operato del professionista e l'eventus damni postuli necessariamente la previa individuazione di uno specifico errore: solo dopo che si è identificata la condotta negligente sarà possibile dimostrarne l'efficacia causale. Per altro verso, tuttavia, l'assunto secondo cui il malato dovrebbe semplicemente allegare un inadempimento “qualificato” sembra non perfettamente in linea con il principio della “vicinanza alla prova”. È vero che egli non deve dimostrare la negligenza, la colpa, ma è oltremodo evidente che, data la sua posizione (almeno nella maggioranza dei casi, di “profano”, che ignora le leges artis e non può assistere direttamente all'intervento essendo a tutti gli effetti soggetto passivo), non avrà gioco facile nell'ipotizzare quale errore (eziologicamente determinante) il medico abbia mai commesso. Ciò, invero, implica pur sempre un onere di (analitica) ricostruzione della vicenda ed un'indagine circa comportamenti altamente tecnici che ricadono nella sfera del debitore. La questione, in realtà, è piuttosto complessa perché, anche aderendo alla regola enunciata da Cass., n. 577/2008, si tratta di capire qual è la soglia, il livello di sufficienza della “allegazione qualificata” richiesta. Sul punto, giova ricordare quanto affermato da Tribunale di Venezia 9 febbraio 2009 (Trib. Venezia, 9 febbraio 2009, in Giur. Merito, 2009, 1280), secondo cui il paziente non è tenuto a delineare con estrema precisione quale sarebbe il profilo di inadeguatezza dell'operato dei sanitari [...], bastando che egli enunci « una serie di proposizioni tali da rendere credibile la correlazione tra il pregiudizio patito dal paziente e le prestazioni ricevute». La Cassazione è intervenuta sul tema con la sentenza n. 9471 del 19 maggio 2004 (Cass. civ., 19 maggio 2004 n. 9471 in Giust. Civ., 2005, 1, 2450) affermando che l'onere dell'attore di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria non si spinge fino alla necessità di enucleare peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale che possono essere noti solo agli esperti del settore .Leggendo la motivazione (e ferme le riserve legate al fatto che non è dato sapere in concreto quale fosse il tenore preciso della citazione) si ha peraltro l'impressione che il Supremo Collegio abbia adottato un parametro (di interpretazione della domanda) a maglie molto larghe. Il che crea serie preoccupazioni posto che — a voler portare sino in fondo la regola sottesa alla pronuncia citata — vi è il rischio che il medico si trovi, alla fine, ad essere condannato in relazione a profili di colpa non allegati e su cui, in concreto, non ha avuto la possibilità di difendersi. Parrebbe, in sintesi, che secondo la Corte la domanda attorea ben possa essere accolta anche quando, all'esito della perizia d'ufficio, si scopra che un errore (causalmente rilevante) vi è stato, anche se non è quello denunciato dal paziente. Nella stessa logica sembrerebbero muoversi anche alcune recentissime pronunce come Cass., 8 giugno 2012, n. 9290 e Cass., 26 luglio 2012, n. 13269. Va segnalata, peraltro, Cass. civ. sez. III, 12 dicembre 2013 n. 27855 che ha rigettato il ricorso proposto dai danneggiati (che non avevano ottenuto soddisfazione delle proprie ragioni risarcitorie nei gradi di merito) , rilevando come gli stessi avessero proposto una azione esplorativa, senza neppure allegare una condotta dei sanitari astrattamente idonea a produrre l'evento lesivo. Onere della prova Il tema della prova liberatoria appare nevralgico e riflette in modo chiaro le tensioni “immanenti” al settore della responsabilità sanitaria, diviso tra la necessità di tutelare il paziente-soggetto debole e quella, sentita con altrettanta crescente preoccupazione, di difendere la classe medica e, più in generale, di evitare che il sistema risarcitorio giunga al collasso. Se si esaminano le sentenze, si è costretti a prendere atto di un contrasto di opinioni. E così, secondo un primo orientamento, il medico/ente ospedaliero è tenuto a dimostrare, ai fini dell'esonero da responsabilità, che « ;la prestazione è stata eseguita in modo diligente e che il mancato o inesatto adempimento è dovuto a causa a sé non imputabile, in quanto determinato da impedimento non prevedibile né prevenibile con la diligenza nel caso dovuta ;» (Cass. 19 febbraio 2013, n. 4030). In tale ottica si ritiene per es. che il sanitario possa liberarsi dimostrando che l'evento è dipeso da una complicanza inevitabile (Cass., 7 giugno 2011, n. 12274). Secondo un altro indirizzo, invece, è sufficiente la prova di aver osservato le leges artis, di aver cioè tenuto un «comportamento diligente» (Cass., 26 gennaio 2010 n. 1538, Ragiusan, 2010, 313-314, 151; Cass., 8 ottobre 2008 n. 24791, in Mass. Giust. Civ., 2008, 10, 1448; Cass., 23 settembre 2004, n.19133). La differenza tra le due impostazioni è notevole; la prima finisce infatti con l'addossare al sanitario/struttura la c.d. causa ignota: per liberarsi, non basta dimostrare di aver tenuto una condotta improntata alle regole della scienza e della professione, ma occorre dare la prova di uno specifico fattore esterno “insuperabile ed invincibile” che ha provocato l'evento lesivo. È chiaro allora che, nei casi in cui non sia possibile stabilire da cosa in concreto sono dipese la lesione e/o la morte del paziente (c.d. causa ignota), il medico soccombe (Cass., 9 ottobre 2012, n. 17143). Il diverso atteggiarsi della regola (a seconda che si segua l'una o l'altra delle due posizioni) rappresenta in realtà il portato della controversa interpretazione dell'art. 1218 c.c. (cfr. P. Fava, La responsabilità civile, Milano, 2009, 401 ss.). Ove si accolga la tesi secondo cui la norma in esame va letta in chiave oggettiva (G. Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, Scritti giuridici, 1, Milano, 1973), si chiederà al debitore di dimostrare (non solo il proprio comportamento corretto ex art. 1176 c.c. ma anche) la specifica causa (“imprevedibile né prevenibile”) che ha reso impossibile l'adempimento. Laddove, invece, si reputi che la disposizione citata ruoti pur sempre intorno alla colpa, si riterrà sufficiente, ai fini liberatori, la prova della condotta diligente (L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F.D. Busnelli, U. Natoli, Diritto civile, III, Obbligazioni e contratti, Torino, 1995, 94). Il tema è strettamente collegato a quello della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. Aspetti medico-legali Nell'ambito della responsabilità sanitaria, il ruolo della consulenza medico legale assume notevole importanza. Il tema deve essere necessariamente esaminato alla luce di quell'orientamento – più sopra illustrato – che limitando sensibilmente l'onere di allegazione del paziente, presta il destro a possibili derive. Vi è infatti il rischio che la struttura (o il medico) siano condannati in ordine a profili di negligenza o imperizia non dedotti ab initio, ma emersi solo in sede istruttoria, e rispetto ai quali non hanno avuto la possibilità di compiutamente difendersi (A. Lepre, La responsabilità civile delle strutture sanitarie, Giuffrè, 187). Criteri di liquidazione L'art. 3, comma 3 del d.l. n. 158/2012, conv. in L. 8 novembre 2012 n. 189 (cd. “Decreto Balduzzi” ) stabilisce che « Il danno biologico conseguente all'attività dell'esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma primo del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all'attività di cui al presente articolo». Al di là dell'infelice rinvio ad una norma che non ha ancora ricevuto attuazione (art. 138 CAP), a parer di chi scrive l'intenzione del Legislatore — sia essa condivisibile o meno — appare chiara nella propria tendenza a calmierare, da un lato, il “mercato” della conflittualità sanitaria ed assecondare, dall'altro, l'esigenza di sicurezza e di protezione dei pazienti, attraverso l'entrata in gioco dello scudo assicurativo obbligatorio (cfr. M. Hazan, D. Zorzit, Assicurazione obbligatoria del medico, op. cit.). Vi è da chiedersi, peraltro, se i parametri di liquidazione della Rca (oggi stabiliti per le sole “micropermanenti”) si applichino unicamente quando il paziente abbia agito contro il professionista o valgano, invece, anche per l'ipotesi in cui la pretesa sia rivolta contro la struttura sanitaria. Per ragioni di buon senso sembrerebbe preferibile la uniformità di trattamento: soluzione, questa, che pare più lineare laddove vengano in considerazione, per es., le ipotesi (eventuali) di concorso della responsabilità (ex art. 2055 c.c.) dell'ospedale con quella del medico. Ma, più in generale, tale opzione sembra giustificarsi se si pone in rilievo il fatto che l'ente è tenuto ai sensi dell'art. 1228 c.c. a rispondere della “prestazione professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato”( Cass., 1 aprile 2007, n. 8826, in Resp. Civ. e Prev., 2007, 1824 ). Ai sensi dell'art. 3 comma 3 del Decreto Balduzzi, il criterio tabellare della rca sembra doversi applicare non ad ogni danno biologico di cui il solo sanitario debba rispondere, bensì al “.. danno biologico conseguente all'attività dell'esercente della professione sanitaria”. Pare, conclusivamente, sia possibile sostenere che il danno alla persona conseguente ad una prestazione professionale sanitaria, anche se imputato alla struttura a titolo contrattuale, debba essere risarcito secondo i canoni di cui agli artt. 138 e 139 del Cap. Non così, naturalmente, per tutti quei vulnera alla persona che derivino non da una prestazione professionale in senso proprio bensì, solamente, dalla violazione del così detto contratto di spedalità, con specifico riferimento alle attività di natura para alberghiera. Resta poi da valutare la possibilità di graduare il risarcimento in considerazione della condotta del professionista della sanità, ai sensi dell'art. 3, comma 1, L. n. 189/2012. Tale modulazione (ove la si ritenga ammissibile) dovrà misurarsi, ancora una volta, con i limiti della personalizzazione tabellare e con la possibilità di trovare applicazione anche nei confronti della struttura (M. Hazan , D. Zorzit, Assicurazione obbligatoria cit.). Casistica
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