Espressioni sconvenienti od offensive (responsabilità per)

15 Aprile 2014

Nel codice di procedura civile l'art. 89 c.p.c., sotto la rubrica “espressioni sconvenienti od offensive”, prescrive che “negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive”.

Nozione

Nel codice di procedura civile l'art. 89 c.p.c., sotto la rubrica “espressioni sconvenienti od offensive”, prescrive che “negli scritti presentati e nei discorsi pronunciati davanti al giudice, le parti e i loro difensori non debbono usare espressioni sconvenienti od offensive”.

Negli stessi termini, nel codice penale, l'art. 598 c.p. prende in esame “le offese” contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro difensori nei procedimenti davanti all'autorità giudiziaria o amministrativa (pur dichiarando che le stesse non siano punibili “quando concernono l'oggetto della causa”), e ugualmente il codice deontologico forense (nella nuova formulazione che riproduce l'art. 21 del codice del 1997) impone all'avvocato “di evitare di usare espressioni offensive o sconvenienti”.

In positivo, tutti gli articoli richiamati (ed è questa la ratio della normativa) tendono ad assicurare la libertà nell'esercizio del diritto di difesa e di critica, ma anche a porre un limite all'abuso della immunità giudiziaria, prescrivendo che il contraddittorio sia rispettoso dei diritti della parti e della dignità delle persone, al contempo assicurando il decoro del processo e la serenità del giudizio.

Naturalmente offensività e sconvenienza rappresentano due nozioni distinte, pur accomunate dal giudizio di negatività e di estraneità alla correttezza e lealtà dei rapporti. La prima sembra indicare un mero intento ingiurioso e dispregiativo nei confronti della persona a cui le frasi vengono rivolte (“un passionale e scomposto intento dispregiativo”: così, Cass. 25 giugno 2013, n. 15885); la seconda sembra riportarsi alla inopportunità della espressione, nel contesto difensivo, che colpisce il decoro della persona.

Operando questa distinzione, la Cassazione ha ritenuto sconveniente – anche se non offensiva nella dialettica processuale – l'espressione “subdolamente insinua” contenuta in un ricorso e riferita al comportamento processuale della controparte (Cass. 18 novembre 2000, n. 14942).

E' anche fermo il principio che non possa essere ravvisato l'abuso quando le espressioni utilizzate siano dovute a imprescindibili esigenze della difesa, e la parte non abbia avuto alcuna diversa possibilità espressiva per chiarire una situazione di fatto dalla quale intenda trarre conseguenze giuridiche.

I soggetti

Come chiaramente risulta dalla norma in esame, il divieto colpisce non soltanto le parti in causa, ma anche i loro difensori (e non a caso l'art. 89 c.p.c. è racchiuso nel capo III del titolo II che riguarda i “doveri delle parti e dei difensori”).

Ciò è tanto più evidente se si pensa che la regola deontologica (che pure riproduce la norma civile e penale) si dirige esclusivamente all'avvocato, essendo ovviamente la sanzione disciplinare riferibile solo allo stesso.

D'altra parte, nell'ambito del processo e dell'attività giudiziaria, è soprattutto il difensore che utilizza i mezzi tecnici di espressione, in nome e in rappresentanza dell'assistito. Logico quindi che il divieto e la responsabilità si dirigano soprattutto nei suoi confronti.

Dal lato passivo, invece, la disposizione protegge il soggetto offeso, che è normalmente la controparte o il difensore avversario, ma può anche essere il giudice e talvolta anche un soggetto estraneo al giudizio (e in tal caso compete al terzo ogni autonoma azione per la tutela dei propri diritti e della propria immagine).

L'oggetto

Secondo la norma, le espressioni offensive o sconvenienti sono prese in esame quando esse siano contenute in uno “scritto presentato” (cioè in un atto o documento del processo portato ritualmente a conoscenza del giudice nei modi e mezzi previsti), ovvero in un “discorso pronunciato davanti al giudice”.

A parte l'aspetto formale (scritti e discorsi), le valutazioni in ordine alla legittimità delle espressioni devono tenere conto anche del contenuto sostanziale, cioè dell'oggetto del processo, posto che le diverse tematiche in determinate ipotesi potrebbero giustificare la presenza negli atti difensivi di un giudizio sulla condotta reciproca che investa anche il profilo della moralità (così Cass. 26 novembre 2013, n. 26417, e, con riferimento al giudizio di dichiarazione di paternità o maternità naturale, Cass.26 luglio 2002, n. 11063 e Cass. 14 marzo 1981, n. 1430).

In ogni caso il carattere sconveniente od offensivo delle espressioni contenute nelle difese delle parti e il loro effettivo rapporto con l'oggetto del giudizio integra un apprezzamento demandato al giudice del merito (Cass. 29 marzo 2007, n. 7731), che è discrezionale e insindacabile in cassazione cassazione (Cass. 27 giugno 2011, n. 14112; Cass. 29 marzo 2007, n. 7731). Il provvedimento del giudice al riguardo può essere adottato anche d'ufficio.

Sotto questo profilo il Consiglio Stato (Cons. stato, 5 giugno 2012, n. 3301) ha precisato che “l'istanza di cancellazione da scritti difensivi, di espressioni sconvenienti o offensive, non costituisce una domanda in senso proprio, risolvendosi solo in una segnalazione volta a procurare l'esercizio, officioso, dei poteri di controllo del giudice sul contenuto degli scritti difensivi e dei discorsi pronunciati dalle parti e dai loro difensori e intesi alla valutazione, di natura squisitamente discrezionale, della pertinenza e continenza delle espressioni utilizzate, e quindi alla verifica che esse non rivestano caratteri di ‘sconvenienza' e ‘offensività'”.

Le conseguenze: la cancellazione e il risarcimento del danno

Quale conseguenza della accertata violazione del principio esaminato, la norma prevede (art. 89c.p.c., secondo comma) che il giudice “in ogni stato dell'istruttoria, può disporre con ordinanza che si cancellino le espressioni sconvenienti od offensive”.

Il giudice “inoltre”, con riferimento alle sole espressioni offensive che non riguardino l'oggetto della causa, con la sentenza che decide il processo “può assegnare alla parte offesa una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale sofferto”.

La cancellazione, dunque, può essere disposta con ordinanza in ogni fase della istruzione (ma anche con la sentenza, nella fase decisoria), secondo le valutazioni compiute dal giudice, indipendentemente anche da una specifica istanza della parte. Essa ha il fine evidente di rimuovere le ragioni del contrasto, prevenendo ogni ulteriore conseguenza.

Il risarcimento del danno, invece, richiede una specifica domanda di parte ed è volto a tutelare la persona offesa per l'illecito subito, ed è giustificato dal fatto (grave) che le espressioni offensive censurate non riguardano l'oggetto della causa.

Esempio scolastico è l'addebito fatto alla parte o al difensore avversario, in un giudizio avente a oggetto rapporti contrattuali, di essere “dediti al bere” o “dediti al gioco”!

A questo proposito si consideri che, quando l'offesa viene diretta verso i difensori, questi hanno legittimazione a proporre l'istanza di cancellazione e di risarcimento del danno (Cass., 29 agosto 2013, n. 19907); istanza che può essere contenuta negli atti che il difensore presenta e sottoscrive in rappresentanza del cliente e deve essere proposta nei confronti dell'altra parte e non anche direttamente nei confronti del difensore che abbia usato le espressioni offensive.

La competenza per accertare e liquidare il danno spetta al giudice dinanzi al quale si svolge il processo nel quale sono state usate le espressioni offensive (Cass., 22 novembre 2012, n. 20593) e non è dunque possibile richiedere il risarcimento in un separato processo (salvo che il primo giudizio non sia giunto a conclusione).

“A tale competenza, tuttavia, è necessario derogare quando il giudice non possa, o non possa più, provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento, il che accade, in particolare, nei seguenti casi: A) quando le espressioni offensive siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per tale sua natura non può avere per oggetto un'azione di cognizione e quindi destinata ad essere decisa con sentenza; B) quando siano contenute in atti di un processo di cognizione che però, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo); C) quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado); D) quando la domanda di risarcimento sia proposta nei confronti non della parte ma del suo difensore” (Cass. 9 luglio 2009, n. 16121).

L'illecito deontologico e la responsabilità disciplinare

Abbiamo già richiamato la norma deontologica che impone all'avvocato di non utilizzare espressioni offensive o sconvenienti.

Possiamo aggiungere che il giudizio disciplinare è indipendente dal procedimento civile o penale e si compie in piena autonomia per valutare la condotta complessiva dell'incolpato; con la precisazione ulteriore che “la ritorsione o la provocazione o la reciprocità delle offese” non escludono l'infrazione della regola deontologica. Così infatti è stato deciso che “viene meno al dovere di correttezza, con conseguente lesione del decoro professionale ... l'avvocato che in uno scritto difensivo si abbandoni ad espressioni dispregiative per la controparte o per altri soggetti, tanto più se estranei al giudizio, ove dette espressioni non siano attinenti alla materia del contendere e tanto meno indispensabili per chiarire una situazione di fatto non diversamente rappresentabile, restando in tal caso priva di valore esimente la soggettiva convinzione del professionista di dover reagire ad uno scritto difensivo della controparte” (Cass., S.U., 19 gennaio 1991, n. 520).

È del tutto comprensibile questa disposizione, regolata espressamente nel codice deontologico forense, dal momento che oggetto del giudizio disciplinare è il rispetto della lealtà e correttezza nel contraddittorio, a tutela della buona fede, del decoro e della dignità professionale, e nessuna giustificazione è quindi ammissibile.

Casistica

Quanto alle singole espressioni utilizzate vi è un campionario amplissimo su cui si sono variamente espressi gli organi giudiziari per sanzionare i comportamenti illeciti, e così ugualmente gli organi disciplinari, per lo più infliggendo la sanzione dell'avvertimento o della censura.

Sono certamente da evitare, invero, espressioni quali quelle che si rinvengono nelle numerose decisioni intervenute (il collega lotta per lucrare la parcella; le ragioni esilaranti della difesa; le argomentazioni di avvocati sconosciuti; faccia tosta e patente malafede; il procedimento monitorio è frutto di spasmodica attività di corridoio; atto di sciacallaggio; furbismo impunito; produzione di documenti a scopo terroristico; allucinazione, tortura e insulto alla realtà storica e processuale: il campionario è immenso).

Da ultimo si veda anche Cass., 25 giugno 2013,n. 15873, per cui sono offensive le espressioni rivolte al collega avversario, nella specie definendo la sua attività professionale “grossolana, grottesca, frutto di ignoranza giuridica e di cura superficiale delle questioni trattate e tacciando, altresì, il collega di arroganza e malafede”.

Sommario