Danno patrimoniale futuro dei congiunti

Lucio Munaro
17 Aprile 2014

Va certamente risarcito il danno patrimoniale futuro – denominato anche ‘danno riflesso da lucro cessante' – corrispondente all'elisione o riduzione delle attribuzioni patrimoniali (denaro o altre forme di utilità economica) che la vittima (primaria) assicurava o avrebbe presumibilmente e verosimilmente assicurato al congiunto (vittima secondaria) in ragione dei rispettivi rapporti familiari. In questo genere di fattispecie la morte o l'invalidità impedisce (rispettivamente in tutto o in parte) la continuazione per il futuro dell'erogazione economica in corso al momento dell'evento, ovvero la verosimile erogazione futura da parte del soggetto leso o deceduto; e ciò considerando che l'utilità economica compromessa può avere una fonte giustificativa di tipo legale o contrattuale o giudiziale o anche solo consuetudinario in ragione dei concreti rapporti familiari incisi.
Nozione

Va certamente risarcito il danno patrimoniale futuro – denominato anche ‘danno riflesso da lucro cessante' – corrispondente all'elisione o riduzione delle attribuzioni patrimoniali (denaro o altre forme di utilità economica) che la vittima (primaria) assicurava o avrebbe presumibilmente e verosimilmente assicurato al congiunto (vittima secondaria) in ragione dei rispettivi rapporti familiari. In questo genere di fattispecie la morte o l'invalidità impedisce (rispettivamente in tutto o in parte) la continuazione per il futuro dell'erogazione economica in corso al momento dell'evento, ovvero la verosimile erogazione futura da parte del soggetto leso o deceduto; e ciò considerando che l'utilità economica compromessa può avere una fonte giustificativa di tipo legale o contrattuale o giudiziale o anche solo consuetudinario in ragione dei concreti rapporti familiari incisi.

Elemento oggettivo

Può aversi dunque una vera e propria lesione del credito, quando l'evento incida (totalmente o parzialmente) su apporti economici che erano dovuti dalla vittima primaria al congiunto alla stregua di una norma di legge – i doveri di contribuzione e mantenimento previsti dagli artt. 143 e 147 c.c. rispettivamente con riguardo ai rapporti tra coniugi e tra genitori e figli – ma anche ad es. di un contratto o di un provvedimento giudiziale; così come può aversi lesione dell'aspettativa patrimoniale – tutelabile alle rigorose condizioni su cui v. infra – quando le attribuzioni economiche venivano di fatto sistematicamente percepite dal congiunto – ad es. anche un nipote – al di fuori di un quadro di doverosità giuridica, e dunque per scelta spontanea della vittima primaria (cfr. ad es. Cass. civ., sez. III, sent., 16 marzo 2012 n. 4253).

In relazione al decesso del coniuge, in particolare, può essere dedotto in giudizio non solo il diritto al risarcimento del danno da compromissione dell'obbligo di contribuzione (art. 143 c.c.) ovvero alimentare (art. 433 n. 1 c.c.), ma anche l'aspettativa di conseguire utilità economiche da collocarsi al di fuori del quadro di stretta doverosità giuridica perché aventi una matrice consuetudinaria; in quest'ultimo caso nel giudizio deve però emergere che nel contesto familiare in discussione vi era una pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e costume tali da rendere ragionevolmente presumibile un tale apporto patrimoniale continuativo (Cass. civ., sez. III, sent., 25 agosto 2006 n. 18490; Cass. civ., sez. III, sent., 25 marzo 2002 n. 4205).

Morte del figlio minore

È tutelata in via risarcitoria anche l'aspettativa di contribuzione patrimoniale futura, sicchè i genitori del figlio minore deceduto possono domandare il risarcimento dimostrando in via presuntiva che questi avrebbe verosimilmente contribuito ai bisogni della famiglia una volta raggiunta l'autosufficienza economica. Il danno consiste nelle attribuzioni patrimoniali che, in base a criteri di ragionevole probabilità, il figlio avrebbe assicurato ai genitori; tale valutazione probabilistica postula la considerazione di diversi parametri concorrenti quali la condizione economica dei genitori, l'età loro e del figlio deceduto, la prevedibile entità del reddito di quest'ultimo (Cass. civ., sez. III, sent., 3 aprile 2008 n. 8546). La tutela risarcitoria, in casi del genere, postula l'emersione in giudizio di diversi elementi concorrenti, come specificato dalla giurisprudenza più recente. In primo luogo deve risultare che vi fosse convivenza e che la vittima avesse effettivamente conseguito la titolarità di un reddito; inoltre va provato o che il figlio già contribuiva stabilmente ai bisogni dei genitori, ovvero che costoro in futuro avrebbero verosimilmente e probabilmente avuto bisogno dell'aiuto economico del figlio (Cass. civ., sez. III, sent., 11 maggio 2012 n. 7272).

Ne consegue che la plausibilità di un risarcimento a tale titolo decresce mano a mano che aumenta il livello socio-economico della famiglia, essendo evidentemente inverosimile che in una famiglia assai benestante i figli ancora conviventi contribuiscano al menage familiare (Scotti 2010, 259); così come deve presumersi ex art. 2727 c.c. che genitori anziani e indigenti dovranno tipicamente ricorrere agli aiuti patrimoniali dei figli (Rossetti 2009, 924).

Nesso di causalità

Corresponsabilità della vittima primaria nella dinamica dell'evento dannoso

La corresponsabilità della vittima primaria nel determinismo causale dell'evento mortale incide sul quantum del risarcimento dovuto ai congiunti supersiti (che agiscono jure proprio), sicchè ai fini della quantificazione deve detrarsi la quota corrispondente alla misura percentuale del concorso di colpa ascrivibile alla vittima stessa. Infatti il principio della rilevanza del concorso della vittima ha portata generale, operando non soltanto nel caso in cui la stessa agisca in qualità di danneggiata, ma anche quando ad agire iure proprio per il risarcimento siano i congiunti quali vittime secondarie (per tutte, Cass. civ., sez. III, sent., 10 febbraio 2005 n. 2704; Cass. civ., sez. III, sent., 6 ottobre 1999 n. 11137).

Deve però darsi conto di un diverso approccio interpretativo che – in relazione a fattispecie di sinistro stradale – delimita la sfera di operatività del principio in parola alla sola ipotesi in cui la pretesa risarcitoria venga dedotta iure haereditario dai congiunti della vittima primaria, escludendo così che il principio valga egualmente a fronte dell'azione esercitata dai medesimi iure proprio (Cass. civ., sez. III, sent., 1 marzo 2007 n. 4795 e – sulla stessa linea, seppure avendo riguardo alla posizione della vittima primaria, in un caso di lesioni personali – Cass. civ., sez. III, sent., 25 novembre 2008 n. 28062).

Benefici economici e vantaggi patrimoniali causalmente correlati all'evento: ‘compensatio lucri cum damno' ?

Il sinistro mortale può comportare delle erogazioni patrimoniali di vario genere a favore del congiunto superstite, quali ad es. la pensione di inabilità o reversibilità, la dazione di assegni o di un equo indennizzo, ovvero anche di un'indennità di accompagnamento (Cass. civ., sez. III, sent., 27 luglio 2001 n. 10291). Orbene, è errato scomputare dal risarcimento tali voci patrimoniali, quantunque la relativa dazione si ricolleghi causalmente al fatto dannoso; difatti, alla stregua della posizione stabilmente assunta dal giudice di legittimità sul punto, non si deve detrarre dalla somma liquidata in sede risarcitoria ad es. la pensione di reversibilità percepita dal coniuge superstite, difettando le condizioni giuridiche di operatività della compensatio lucri cum damno, la quale per definizione non opera quando vi sia diversità tra il titolo che fonda la responsabilità – il fatto illecito lesivo – e quello che fonda la provvidenza economica – la previsione normativa – (per tutte, Cass. civ., sez. III, sent., 10 marzo 2014 n. 5504 e Cass. civ., sez. III, sent., 25 agosto 2006 n. 18490). Il principio ha portata generale e ricomprende pertanto anche la costituzione di una rendita da parte dell'INAIL, la quale si aggiunge così alla somma liquidata a titolo di danno (Cass. civ., sez. III, sent., 15 ottobre 2009 n. 21897). Pertanto può ben accadere che il superstite, cumulando risarcimento e pensione di reversibilità, si venga conclusivamente a trovare in una situazione patrimoniale più favorevole di quella in cui si sarebbe trovato senza l'illecito (Cass. civ., sez. III, sent., 11 febbraio 2009 n. 3357). La consolidata posizione della Cassazione al riguardo – peraltro contrastata da diversa giurisprudenza di merito – trova autorevoli sostegni dottrinali: si evidenza infatti che nella maggior parte dei casi l'insorgenza del diritto alla reversibilità si ricollega a qualsiasi causa di decesso, anche la morte naturale, cosicchè non può parlarsi di lucro in senso tecnico a favore dei sopravvissuti. E dunque, quand'anche ad es. competesse una pensione privilegiata dovuta in ragione di infortunio mortale sul lavoro, la causa dell'indennità andrebbe rinvenuta nei versamenti contributivi funzionali proprio al rischio in parola. In ipotesi tal genere allora – così come nel frequente caso in cui al familiare spetti l'indennizzo assicurativo per effetto della polizza sulla vita stipulata dalla vittima primaria – l'illecito mortale si atteggia non già quale causa dell'insorgenza del diritto, ma come mera occasione; ciò che osta conclusivamente all'applicazione della regola della compensatio lucri cum damno (Franzoni, 977 ss.).

Quanto all'incidenza sul risarcimento delle attribuzioni patrimoniali (ad es. mantenimento) ricevute dal coniuge superstite che si sia sposato nuovamente, va escluso che ricorra una fattispecie di compensatio lucri cum damno, poiché le attribuzioni stesse non si pongono in rapporto di causalità diretta e immediata con l'illecito, derivando invece dal nuovo matrimonio. Ciò non toglie però che nella quantificazione del danno si debba tener conto della nuova situazione patrimoniale in cui venga a trovarsi il coniuge superstite e risposato; sicchè l'entità delle attribuzioni percepite per effetto del nuovo matrimonio può determinare la contrazione del risarcimento o finanche il suo azzeramento (Cass. civ., sez. III, sent., 21 marzo 2011 n. 6357; Cass. civ., sez. III, sent., 4 gennaio 1996 n. 25).

Il principio della compensatio lucri cum damno opera invece ineluttabilmente – quasi cinicamente, per dirla con Rossetti (2010, 465) – in caso di morte del figlio minore convivente, avuto riguardo agli oneri patrimoniali gravanti sui genitori in ragione del rapporto di filiazione. Infatti, nella quantificazione del danno va detratta la somma ricollegabile all'assolvimento del dovere di mantenere, istruire ed educare il figlio minore deceduto a causa dell'evento mortale, ponendosi quest'ultimo in rapporto di causalità diretta ed immediata con l'elisione degli oneri di mantenimento (Cass. civ., sez. III, sent., 7.5.1996 n. 4242).

Onere della prova

Per comune interpretazione (per tutti, Bona 2014, 402), e alla luce degli indicati principi giurisprudenziali, il danno patrimoniale futuro non può mai farsi discendere ipso iure dalla morte del familiare. Non vi è spazio per un danno patrimoniale futuro in re ipsa, sicchè l'attore ha l'onere di allegare e provare che il familiare deceduto gli corrispondeva – o gli avrebbe corrisposto secondo gli esaminati criteri di ragionevole verosimiglianza – determinate utilità economiche, non necessariamente consistenti in denaro.

All'attore non sono imposti limiti probatori nella deduzione in giudizio della pretesa risarcitoria in parola, talchè può avvalersi di qualsiasi mezzo di prova inerente al danno risentito e ai suoi presupposti fattuali (Bona 2014, 407). Si è visto peraltro come dall'art. 137 Cod. Ass. – che riflette sostanzialmente il contenuto dell'art. 4, d.l. n. 857/1976 – si evinca che la dichiarazione dei redditi, nel contesto applicativo del codice delle assicurazioni, ha un'efficacia probatoria privilegiata in merito alla dimostrazione del reddito; orbene, in tema di liquidazione del danno da morte del congiunto detta dichiarazione non può assumere tale pregnante portata probatoria, tanto ciò vero le sue risultanze sono liberamente valutabili dal giudice (Cass. civ., sez. III, sent., 14 luglio 2003 n. 11007, riferita ovviamente all'art. 4 cit. poi rifluito nell'art. 137 cit.).

Nondimeno, può plausibilmente sostenersi che in questo campo ‘prova regina' è quella presuntiva – non di certo quella testimoniale –, da utilizzarsi tipicamente incrociando le nozioni di comune esperienza in chiave probabilistica: ed infatti la stima (tipicamente presuntiva) del danno da perdita di contribuzioni o altre utilità elargite dal defunto ai prossimi congiunti si fonda di regola sulla duplice dimostrazione della consistenza sia del patrimonio della vittima, sia di quello del superstite, rispondendo a nozioni di comune esperienza che quanto più il primo eccede il secondo, tanto più probabile sarà l'esistenza di una stabile contribuzione (Cass. civ., sez. III, sent., 10 aprile 2014 n. 8407).

Ancora, la circostanza (nota) che sussistesse un rapporto di stretta parentela e coabitazione tra vittima primaria e parente danneggiato è di regola sufficiente per risalire – secondo la dinamica logico-inferenziale ex art. 2727 c.c. – al fatto (da provare) che sussistesse anche uno stabile rapporto di contribuzione economica (Rossetti 2009, 914). Perciò l'attività assertiva deve essere particolarmente precisa e accurata, così da permettere al giudice di svolgere il ragionamento deduttivo partendo da allegazioni fattuali specifiche, come è necessario per l'uso corretto della prova presuntiva.

Lo scenario probatorio muove da una presunzione opposta quando invece il danno venga lamentato da un familiare che sia economicamente autosufficiente. In casi del genere, infatti, l'adeguatezza del reddito rispetto alle esigenze del congiunto superstite – in rapporto a tenore di vita, educazione, istruzione, posizione sociale ed età – fa scattare la presunzione secondo cui la vittima primaria non contribuiva economicamente alle esigenze di vita del parente; cosicchè quest'ultimo avrà l'onere di superare la presunzione allegando e dimostrando (puntualmente e specificamente) la sussistenza di un apporto patrimoniale sistematico e continuativo (Cass. civ., sez. III, sent., 25 marzo 2002 n. 4205).

Pertanto il figlio maggiorenne economicamente indipendente può essere risarcito del danno patrimoniale risentito a causa del decesso del genitore, pur non venendo in gioco in tal caso alcuna lesione del credito. La tutela si ricollega infatti alla compromissione dell'aspettativa patrimoniale del figlio (che pure era economicamente indipendente), qualora questi godesse comunque di un sostegno durevole, prolungato e spontaneo per opera del genitore. È dunque irrilevante che al momento del decesso il genitore non fosse gravato dall'obbligo di mantenimento, correlandosi invece il danno al venir meno delle erogazioni patrimoniali aggiuntive di cui il figlio beneficiava in concreto, a condizione che tali provvidenze fossero stabili e sistematiche (per tutte, Cass. civ., sez. III, sent., 26 gennaio 2010 n. 1524 e Cass. civ., sez. III, sent., 8 ottobre 2008 n. 24802). Va comunque condiviso il rilievo (Chindemi 2011, 519) secondo cui opera pur sempre (sullo sfondo) una presunzione generale fondata sulla comune esperienza, che cioè i figli i quali lascino la casa familiare per sposarsi e acquisiscano comunque l'indipendenza economica godono di ulteriori apporti economici genitoriali solo in via eccezionale o transitoria. Per tale ragione l'onere di allegazione e prova in merito all'effettività del sostegno patrimoniale continuativo per mano dei genitori è particolarmente stringente e impegnativo.

In particolare, quando il danno è lamentato dal genitore per la morte del figlio minore

I genitori hanno anzitutto l'onere di allegare e provare le circostanze di fatto da cui possa verosimilmente evincersi, su base tipicamente presuntiva, che il figlio deceduto avrebbe iniziato un'attività lavorativa e poi contribuito ai bisogni della famiglia; è dunque fondamentale la prova per presunzioni semplici (art. 2729 c.c.), che non può essere assolta però con un semplice riferimento all'id quod plerumque accidit, dovendo invece basarsi su un'inferenza logica ed empirica plausibile in quanto fondata su precisi fatti rivelatori in tal senso (per tutte, Cass. civ., sez. III, sent., 7 novembre 2002 n. 15641). I genitori dunque avranno cura di indicare precisamente quale fosse ad es. il tipo di studi intrapresi dal figlio venuto a mancare, prospettando al giudice la correlazione logica tra gli studi stessi e il probabile futuro impiego, tipicamente in chiave presuntiva (Cass. civ., sez. III, sent., 1 marzo 2007 n. 4791). Come precisato dalla giurisprudenza più recente, l'onere probatorio al riguardo va assolto dimostrando altresì che sussisteva una situazione di convivenza e che in futuro i genitori avrebbero probabilmente avuto bisogno dell'ausilio economico del figlio (Cass. civ., sez. III, sent., 11 maggio 2012 n. 7272). L'attività assertiva e di deduzione probatoria dei genitori deve conseguentemente vertere su un loro status socio-professionale tale da non escludere – sempre sul piano della verosimiglianza – l'eventuale necessità dell'apporto patrimoniale filiale.

In particolare, quando il danno è lamentato dal congiunto per la perdita dell'ausilio domestico

Per giurisprudenza consolidata – ma autorevolmente contestata in sede dottrinale – , anche la morte della casalinga giustifica il risarcimento del danno a favore dei congiunti del nucleo familiare, giacchè lo svolgimento dei lavori domestici è considerato pacificamente prestazione suscettibile di valutazione economica quantunque non produttiva di reddito monetizzato (per tutte, Cass. civ., sez. III, sent., 24 agosto 2007 n. 17977).

Va però evidenziata una recente, perentoria affermazione giurisprudenziale – estensore Rossetti – in merito ai contorni dell'onere probatorio in caso di perdita delle opere di ausilio domestico che sarebbero state prestate a favore del familiare superstite. Quest'ultimo infatti è gravato dal duplice onere di dimostrare: a) di trovarsi in una situazione di indigenza tale da rendere plausibile il ricorso all'aiuto dei familiari; b) quali fossero natura, contenuto e frequenza delle opere che la vittima svolgeva o avrebbe verosimilmente svolto a suo favore (Cass. civ., sez. III, sent., 10 aprile 2014 n. 8407).

In particolare, quando il danno viene ridotto o eliso dalle seconde nozze

La rilevanza economica delle seconde nozze del coniuge superstite sul piano della diminuzione o elisione del risarcimento non è automatica, dovendo emergere in concreto quale sia l'apporto economico ricevuto in ragione del nuovo matrimonio; al riguardo l'onere della prova è addossato all'autore dell'illecito dannoso, il quale deve allegare e provare che con la nuove nozze la situazione patrimoniale del coniuge superstite è stata ripristinata o addirittura migliorata, cosicchè manca il presupposto fattuale del risarcimento (Cass. civ., sez. III, sent., 4 ottobre 1996 n. 8717).

Criteri di liquidazione

Per comune interpretazione (per tutti, Rossetti 2010, 459), nella ricostruzione del reddito del de cuius rilevano sia quello da lavoro, sia quello da capitale (ad es. da fabbricati e terreni, ma anche valori mobiliari, strumenti finanziari, titoli, partecipazioni sociali ecc.); deve però considerarsi che i familiari con qualità di eredi già acquistano in via successoria i beni fonti di reddito, sicchè di quest'ultimo non deve ovviamente tenersi conto in sede di quantificazione del risarcimento.

Il reddito percepito dalla vittima al momento del sinistro va calcolato senza considerare imposte e ritenute di legge, e dunque al netto del prelievo fiscale (ex multis, Cass. civ., sez. III, sent., 28 giugno 2012 n. 10853 e Cass. civ., sez. III, sent., 2 marzo 2004 n. 4186).

Il reddito non va considerato semplicemente nella sua dimensione statica, cristallizzata al momento del sinistro, ma in una prospettiva dinamica di probabile accrescimento, qualora sussistano ovviamente elementi rivelatori in tal senso; per la stima del danno subito dal familiare deve dunque tenersi conto dei probabili incrementi reddituali futuri connessi al favorevole sviluppo dell'attività svolta dalla vittima, da valutare con un apprezzamento anticipato e seguendo il criterio dell'id quod plerumque accidit (Cass. civ., sez. III, sent., 18 maggio 2012 n. 7932; Cass. civ., sez. III, sent., 19 febbraio 2007 n. 3758). Assumerà rilievo in tal modo la prova statistica di un incremento di reddito – avendo riguardo per es. a miglioramenti di carriera legati agli scatti di anzianità, oppure a benefici economici ricollegati alla nuova contrattazione collettiva – di cui il giudice potrà tener conto operando degli adeguamenti risarcitori tipicamente con criterio equitativo (Franzoni 2003, 977 ss.).

Si è visto che l'art. 137, comma 3, Cod. Ass. – norma in cui è confluito il contenuto dell'art. 4, comma 3, d.l. 857/1976 – individua quale soglia minima di tutela patrimoniale il triplo della pensione sociale, da intendersi ora come assegno sociale (secondo il linguaggio normativo successivo). Tale norma è insuscettiva di applicazione analogica, in ragione del suo carattere eccezionale, sicchè non può farsene applicazione diretta in caso di liquidazione del danno patrimoniale da morte di un prossimo congiunto – ipotesi di cui non si occupa il codice delle assicurazioni – ; nondimeno il giudice può ugualmente utilizzare il criterio fissato dalla norma quale riferimento in chiave equitativa ai sensi dell'art. 1226 c.c. (Cass. civ., sez. III, sent., 16 febbraio 2006 n. 3436; Cass. civ., sez. III, sent., 23 febbraio 2001 n. 2692), cosicchè in pratica l'esito conclusivo della quantificazione resta sostanzialmente il medesimo.

La tecnica di liquidazione non è dissimile da quella già vista a proposito del danno patrimoniale futuro risentito dalla vittima primaria; solo che, mentre in quel caso veniva considerato il reddito integrale della vittima, qui invece viene in rilievo la sola quota destinata al congiunto superstite (vittima secondaria) e individuata alla stregua della valutazione giudiziale su base tipicamente presuntiva (Scotti 2010, 263).

Pertanto, una volta quantificato il reddito sulla scorta degli indicati criteri, si deve detrarre l'importo (c.d. quota sibi) corrispondente alla percentuale di esso che presuntivamente la vittima avrebbe destinato a sé stesso per le ordinarie necessità di vita (con esclusione dei risparmi accantonati): è l'operazione denominata ‘correttivo del reddito utile', che connota indefettibilmente la quantificazione del danno patrimoniale risentito dai familiari per la morte del congiunto e comporta l'individuazione di una certa percentuale del reddito complessivo al lordo di imposte e contributi (per tutte, Cass. civ., sez. III, sent., 28 agosto 2009 n. 18800; Cass. civ., sez. III, sent., 5 maggio 2009 n. 10304). Detta quota, alla stregua di standard giurisprudenziali comunemente accettati, varia di regola da 1/3 a 1/5 del reddito quando la vittima lascia coniuge e figli, da 1/3 a 1/2 se c'è solo il coniuge e corrisponde ad 1/4 se oltre ai figli c'è un coniuge percettore di reddito.

Dopo aver detratto la c.d. quota sibi, si divide la somma risultante per il numero dei congiunti aventi diritto, secondo quote uguali ovvero differenziate in base all'eventuale presunzione che la vittima destinasse il reddito ai congiunti in proporzioni diverse; ma non si divide per quote ereditarie poiché, trattandosi di attribuzioni economiche presuntivamente erogate se il solvens fosse sopravissuto, i congiunti percepiscono la somma jure proprio.

La quota di reddito individuata volta per volta a seconda dei congiunti da risarcire (jure proprio) va quindi capitalizzata (di regola ancora sulla base delle tabelle allegate al r.d. n. 1403/1922), sul consueto presupposto che quel denaro sarebbe stato corrisposto dalla vittima per tutti gli anni lavorativi futuri, ma con l'importante correttivo – c.d. del coefficiente minimo – di seguito indicato. Va ricordato che l'operazione di capitalizzazione permette di individuare ora una somma capitale corrispondente a quella che sarebbe stata via via percepita in futuro, e che nella tabella di riferimento prescelta ad ogni età è associato un determinato coefficiente di capitalizzazione, il quale va moltiplicato per il reddito ovvero – come nella fattispecie in esame – per la quota di reddito da attribuire in chiave risarcitoria. Per la scelta del coefficiente di capitalizzazione corretto, deve considerarsi che, mentre nella liquidazione alla vittima primaria del danno patrimoniale futuro rileva soltanto la presumibile durata della sua vita lavorativa, nell'ipotesi in esame l'attribuzione economica proiettata sul futuro ha una durata mutevole a seconda dell'età della vittima primaria e del congiunto beneficiario. Perciò il giudice deve scegliere il coefficiente corrispondente alla maggiore età tra quella della vittima e quella del superstite danneggiato (Cass. civ., sez. III, sent., 3 luglio 1993 n. 7276), sul normale presupposto che deceda prima il più anziano. In pratica, se ad es. il marito (vittima primaria) era più anziano della moglie superstite, deve ragionarsi sul presupposto che il medesimo avrebbe normalmente assolto l'obbligo di contribuzione patrimoniale (art. 143 c.c.) fino alla sua morte; nel caso opposto – più anziana la moglie superstite – deve ragionarsi sul presupposto che le erogazioni patrimoniali del marito deceduto sarebbero comunque cessate con la morte della moglie.

In particolare, quando il danno è lamentato dal figlio minore – o comunque non autonomo economicamente – per la morte del genitore

In tal caso deve considerarsi che presuntivamente le attribuzioni economiche del genitore deceduto sarebbero venute meno con l'acquisizione dell'autosufficienza economica da parte del figlio, sicchè il risarcimento va traguardato all'età in cui verosimilmente il figlio non avrebbe avuto più bisogno del sostegno economico genitoriale. Al riguardo, venendo in gioco un criterio temporale evidentemente mutevole, saranno decisive l'accuratezza dell'attività assertiva – ad es. in merito al tipo di studi avviati – e la valorizzazione del ragionamento presuntivo ed inferenziale – ad es. in merito alle prospettive professionali individuabili alla luce delle inclinazioni in qualche modo manifestate dal minore nel corso degli studi –; e ciò considerando che nel contesto attuale di regola un compiuto iter di studi non assicura l'indipendenza economica prima dei 30 anni [come parrebbe indirettamente evincersi da Cass. civ., sez. III, sent., 8.10.2008 n. 24802 link; la soglia temporale è altresì condivisa da Chindemi (2011, 523)].

In concreto, una volta individuata la somma che sarebbe stata devoluta al figlio – e quindi dopo la detrazione della quota sibi e delle quote di reddito destinate in ipotesi ad altri familiari –, bisogna capitalizzare la stessa moltiplicandola per un coefficiente di costituzione delle rendite temporanee non già vitalizie; e ciò rammentando che va altresì individuato il tasso percentuale in base al quale viene effettuata la capitalizzazione (così come si fa utilizzando la tabella per la costituzione delle rendite vitalizie), sul presupposto che al tasso minore corrisponde una liquidazione più cospicua (Rossetti 2009, 1030). Va dunque individuato il coefficiente associato al numero di anni intercorrente tra il momento della liquidazione e quello del presumibile conseguimento dell'autosufficienza economica.

Se per es. al momento della liquidazione il figlio ha 17 anni e si presume che sarà indipendente a 30 anni, la quota di reddito a lui destinata in via esclusiva – individuata cioè dopo le indicate sottrazioni – va capitalizzata moltiplicandola per il coefficiente (di costituzione delle rendite temporanee) associato al numero 13. In pratica, ipotizzando che la quota di reddito annuale conclusivamente destinata dal padre deceduto al figlio in questione fosse di € 15.000,00, e che sia congruo riferirsi al tasso percentuale del 4,5 %, si deve semplicemente moltiplicare 15.000 per 9,682, cioè il coefficiente (al tasso in questione) corrispondente al numero 13 secondo la tabella in discorso: la quantificazione del risarcimento è allora di € 145.230,00.

Profili penalistici e/o amministrativi e/o tributari

Sotto il profilo tributario, va ricordato che ai sensi dell'art. 6, comma 2, d.P.R. n. 917/1986 (T.U.I.R.) sono esclusi da tassazione i risarcimenti del danno «dipendenti da invalidità permanente o da morte». Infatti, se da un canto la normativa in parola fissa il principio secondo cui tutti i proventi conseguiti in sostituzione dei redditi vengono tassati quantunque percepiti a titolo risarcitorio, d'altro canto vengono esclusi dalla tassazione i proventi (sostitutivi di redditi) riconducibili a una tutela risarcitoria da invalidità permanente o morte.

Come autorevolmente sostenuto in sede interpretativa (per tutti, Tinelli 2009, 75), la ratio della norma – mirata anche alla prevenzione delle elusioni fiscali – non sembra giustificarne l'operatività quando il risarcimento abbia una genesi ‘grave' quale l'invalidità permanente ovvero la morte.

Riferimenti bibliografici

M. Bona, Manuale per il risarcimento dei danni ai congiunti, Rimini 2014.

D. Chindemi, Il danno alla persona patrimoniale e non patrimoniale, Rimini, 2011.

M. Franzoni, Il danno patrimoniale e non patrimoniale da perdita delle relazioni parentali, in Resp. civ. e prev., fasc. 4-5, 2003.

M. Rossetti, L'assicurazione obbligatoria della r.c.a., Torino, 2010.

M. Rossetti, Il danno alla salute, Padova, 2009.

U. Scotti, Il danno da sinistro stradale, Giuffrè, 2010.

G. Tinelli, Commentario al Testo Unico delle imposte sul reddito, Padova, 2009.

Sommario