Medico dipendente di struttura privata e sua responsabilitàFonte: Cod. Civ. Articolo 1223
14 Aprile 2014
Strutture sanitarie private BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE L'erogazione di prestazioni mediche e/o sanitarie in forma organizzata ovvero all'interno di strutture di cura di varia natura nelle quali si concentrano risorse umane, tecnologiche e di attrezzature, pur non avendo del tutto soppiantato la figura del medico singolo che rende i propri servizi privatamente servendosi al massimo dell'aiuto di qualche collaboratore, può considerarsi ormai da parecchi anni come prevalente. L'esercizio dell'attività medica ha così acquisito i caratteri della complessità sia sotto il profilo della pluralità di competenze e, quindi, di soggetti coinvolti nella cura del paziente sia sotto il profilo relazionale e dei rapporti tra struttura – medico – paziente che si intersecano anche sotto il profilo della rispettive responsabilità. Sul piano giuridico una simile trasformazione è stata ben evidenziata anche dal punto di vista terminologico, laddove si è passati dal discorrere di una responsabilità del medico ad una responsabilità medica o sanitaria tout court, volendo con ciò alludere alla dimensione organizzata e complessa assunta dall'attività medica ed al ruolo centrale rivestito dalle strutture di cura – nelle quali si concentrano, tecnologie, professionalità e competenze plurime - nell'erogazione di un servizio sanitario nel quale rientrano non solo le prestazioni mediche in senso stretto ma anche altre prestazioni (di vitto e alloggio ad esempio) tra cui in particolare quelle di tipo appunto organizzativo. Quanto ai soggetti erogatori del servizio sanitario, l'attuale sistema è strutturato in modo tale da prevedere la compresenza di una pluralità di providers dei servizi sanitari che operano, accanto ai singoli professionisti, in forma organizzata e che si differenziano tra loro essenzialmente per la natura pubblica o privata ed anche per la tipologia di prestazioni erogate. Vi è, inoltre, la possibilità per le strutture private di ottenere il c.d. accreditamento istituzionale, previa la verifica del possesso di una serie di requisiti strutturali e qualitativi, funzionale alla erogazione di prestazioni per conto ed a carico del servizio sanitario nazionale. Ferma restando la necessarietà dell'organizzazione e della natura pubblica del servizio, il legislatore si è, infatti, mosso nella direzione di creare un sistema concorrenziale tra pubblico e privato nel quale il diritto di libera scelta del cittadino trovi piena attuazione. Va da sé che le strutture sanitarie, quale che sia la loro natura, esercitano la propria attività per il tramite dei medici - e delle altre diverse competenze professionali (quali ad esempio quella infermieristica) - con i quali intrattengono rapporti variamente disciplinati (di lavoro subordinato ma anche di mera collaborazione), cosicché, come detto, si pone la necessità di stabilire quali siano le rispettive responsabilità nei confronti degli utenti - pazienti. Natura della responsabilità del medico c.d. dipendente Mentre non vi è nessun dubbio circa la natura contrattuale (exartt. 2229 c.c. e ss.) della responsabilità del singolo professionista autonomo che riceve il paziente privatamente nel proprio studio od ambulatorio senza alcun collegamento con una struttura di cura, maggiori questioni interpretative ha posto la qualificazione del rapporto che si instaura tra il paziente (che si rivolge in prima battuta ad una struttura di cura) ed il medico che operi alle dipendenze dell'ente. Mentre in un primo momento la giurisprudenza pareva orientata a mantenere distinti i titoli di responsabilità rispettivamente dell'ente e del medico strutturato, pur ammettendo l'operatività del c.d. concorso improprio tra la responsabilità contrattuale del primo e quella extracontrattuale del secondo, a partire dalla storica dalla storica sentenza della Cass.civ. sez. III, n. 589/1999, si è assistito ad una graduale e pervasiva contrattualizzazione anche della responsabilità del c.d. medico dipendente, basata sul c.d. contatto sociale, da considerarsi oggi espressione di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito. (cfr. per tutte le statuizioni di Cass. civ. S.U., n. 577/2008. Da ultimo anche Cass. civ. sez. III, n.17143/2012 ). Tale orientamento non pare possa essere allo stato posto seriamente in dubbio dal recente intervento del legislatore con la l. n. 189/2012, anche se va dato conto che sul punto è in atto un vivo dibattito sia in dottrina sia in giurisprudenza. (così depone la lettura di Cass., civ. sez. III, n. 4030/2013, nonché le decisioni del Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013 e del Trib. Cremona 19 settembre 2013. Contra pur nella diversità delle ricostruzioni Trib. Varese, 26 novembre 2012; Trib. Torino, 26 febbraio 2013; Trib. Enna, 17 maggio 2013). Peraltro se Cass. civ. n. 589/1999 sembrava all'uopo richiamare lo schema dell'obbligazione senza prestazione in ossequio ad una dotta e raffinata ricostruzione dottrinale (cfr. tra i tanti scritti di Castronovo C., La relazione come categoria essenziale dell'obbligazione e della responsabilità contrattuale, in Eur. dir. priv. 2011, 55 ss.), limitando in tal senso la tutela del paziente al c.d. interesse negativo per violazione di un obbligo di protezione, le successive pronunce a partire da Cass. civ. sez. III, n. 8826/2007, hanno chiarito che nel contatto sociale è da ravvisarsi la fonte di un rapporto che quanto al contenuto non ha ad oggetto la “protezione” del paziente, bensì una prestazione che si modella su quella del contratto d'opera professionale. Va dato, peraltro, conto che in dottrina la teorica del contatto sociale non è stata esente da critiche e sono state proposte altre e diverse letture del rapporto tra medico c.d. dipendente e paziente che pure accreditano l'applicabilità del regime di responsabilità per inadempimento o che comunque ritengono di doverne rileggere e conformare la responsabilità pure aquiliana in modo da dare giusto rilievo alla professionalità dell'agire medico. Per quanto attiene alle strutture private, accade assai di frequente che la scelta del paziente cada in prima battuta sul medico c.d. di fiducia e che sia poi il medico medesimo ad indirizzare il paziente verso la struttura di cura con quale il professionista medesimo intrattiene rapporti di lavoro contenuto variabile. In questi casi l'esistenza di un rapporto negoziale vero e proprio tra sanitario e paziente non ha bisogno dell'orpello dogmatico del contatto sociale per essere assoggettato al regime tipico della responsabilità per inadempimento di una prestazione intellettuale. Si pongono piuttosto una serie di problemi attinenti principalmente: a) alla eventuale concorrente e solidale responsabilità della casa di cura verso il paziente per l'operato del medico di cui si è avvalsa seppure trattasi di medico di fiducia ed eventualmente di medico non legato alla clinica da un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato ed anche comunque di medico estraneo alla organizzazione della clinica; b) all'eventuale estensione del contenuto dell'obbligazione del c.d. medico di fiducia. Per quanto riguarda il primo problema si rinvia all'apposita Scheda d'autore. Per quanto attiene al profilo sub b) si tratta di chiarire, ferma l'esistenza di un contratto tra sanitario e paziente, se il professionista possa essere chiamato a rispondere delle eventuali carenze della struttura privata a maggior ragione avendola in qualche modo consigliata al paziente o avendo ivi indirizzato quest'ultimo. La questione è stata affrontata sotto il profilo dell'obbligo di informazione, su cui in particolare e di recente Cass. civ. sez. III, n. 3487/2011 (analogo principio era già stato affermato da Cass. civ. sez. III, n. 6318/2000, sempre in un caso di responsabilità del ginecologo di fiducia che era anche dipendente dell'ospedale) secondo cui sul medico, convenzionato o non con la casa di cura, dipendente o non della stessa, che abbia concluso con il paziente un qualsiasi contratto di tipo comportante la possibilità dell'instaurarsi di situazioni patologiche che non sia agevole fronteggiare (nella specie di assistenza al parto) presso la casa di cura ove si conviene il ricovero del paziente, grava un obbligo informativo circa i limiti di equipaggiamento o di organizzazione della struttura. Ne consegue che in caso di violazione di tale obbligo può scattare la responsabilità del medico di fiducia per le conseguenze derivate dalle carenze organizzative suddette ove sia sostenibile che il paziente non si sarebbe avvalso di quella struttura se adeguatamente informato delle conseguenze derivanti dalle carenze organizzative o di equipaggiamento. A prescindere dall'obbligo di informazione vi è, tuttavia, da chiedersi se l'idoneità delle attrezzature e delle dotazioni della struttura privata, possa considerarsi ricompresa nello stesso contenuto diligente della prestazione assunta dal medico di fiducia che indirizzi la paziente verso tale clinica o che ivi programmi un intervento o un ricovero, nel senso dell'apprestamento da parte di quest'ultimo delle condizioni indispensabili (che rientrano nella propria sfera di controllo) per l'attuazione della prestazione medesima. Sul punto interessante quanto statuito da Cass. civ. sez., n. 2334/2011, nel senso di un possibile un addebito di responsabilità per colpa in capo al medico che abbia indirizzato la paziente (in specie una partoriente) presso una struttura priva di idonee attrezzature per neonati. Diversamente, a favore del medico che agisce all'interno della struttura potrebbe operare il limite della inesigibilità, fermo restando che il medico è comunque tenuto ad adeguare la propria condotta alla dotazione strumentale disponibile ricorrendo ad esempio ad una terapia alternativa (se ciò è possibile e non riduce il tenore delle aspettative del paziente), o attivandosi per il trasferimento in altra struttura idonea (se ciò non mette in pericolo il paziente), e sempre considerato l'obbligo di informazione per consentire al paziente di esercitare una scelta consapevole. (cfr. le osservazioni di Gorgoni M., Disfunzioni tecniche e di organizzazione sanitaria e responsabilità professionale medica, in Resp. civ. prev., 1999, 1007). Diligenza/colpa professionale Dalla natura contrattuale della responsabilità deriva l'applicazione del regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto in primo luogo ai principi delle obbligazioni da contratto d'opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza ed al grado della colpa. Le norme di riferimento sono in tal senso l'art. 1176 comma 2 c.c., che rimanda ad una nozione di diligenza qualificata dalla natura tecnica della prestazione; e l'art. 2236 c.c., che per i c.d. interventi che comportano la soluzione di problemi di speciale difficoltà testualmente limita la responsabilità del debitore ai casi dolo e colpa grave. Va subito precisato, tuttavia, che per costante interpretazione giurisprudenziale tale ultima disposizione si applica solo limitatamente alla perizia. D'altra, parte sempre la giurisprudenza considera di speciale difficoltà solo quegli interventi che non sia stato ancora sperimentato e studiato a sufficienza o quando non sia stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da seguire. Con la precisazione, infine, che la particolare difficoltà della prestazione, non può dipendere né dall'alto tasso di esiti negativi che caratterizzano un certo tipo di intervento, né dalla gravità delle condizioni del paziente. Il medico deve, dunque, comportarsi secondo la c.d. diligenza del regolato ed accorto professionista, ossia del professionista esercente la sua attività con scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale che comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica (ed implica anche un dovere di aggiornamento). In giurisprudenza si suole affermare che la diligenza si specifica nei profili della cura, della cautela, della perizia e della legalità. La perizia in particolare si sostanzia nell'impiego delle abilità e delle appropriate nozioni tecniche peculiari dell'attività esercitata, con l'uso degli strumenti normalmente adeguati; ossia con l'uso degli strumenti comunemente impiegati, in relazione all'assunta obbligazione, nel tipo di attività professionale o imprenditoriale in cui rientra la prestazione dovuta. (cfr. Cass. civ., n. 12995/2006). La diligenza deve appunto valutarsi avuto riguardo alla natura dell'attività esercitata (art. 1176 comma 2 c.c.): al professionista, è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall'impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletarsi. Una nozione di diligenza che, quindi, ha assunto nel settore de qua via via una connotazione sempre oggettiva e rigorosa e sempre più ancorata al rispetto di linee guida e protocolli ovvero a leges artis codificate e condivise dalla comunità scientifica attinenti essenzialmente al profilo della perizia. Ciò a maggior ragione a seguito dell'espresso riferimento alla rilevanza delle linee guida (e delle buone pratiche) accreditate dalla comunità scientifica contenuto nell'art. 3, comma 1, l. n.189/2012 di conversione del c.d. Decreto Balduzzi. Il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia commisurata al modello del buon professionista secondo una misura obiettiva che prescinde dalle capacità concrete del soggetto. Tuttavia, il grado di perizia richiesto può subire variazioni a seconda della specializzazione posseduta dal professionista nel caso concreto e dunque in relazione alla sua qualifica professionale nel senso che chi assume un'obbligazione nella qualità di specialista, o un'obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto alla perizia che è normale della categoria (cfr. ex plurimisCass. civ. n. 8826/2007; Cass., civ., n. 24791/2008; Cass.civ., n.17143/2012 secondo cui “a diversi gradi di specializzazione corrispondono diversi gradi di perizia”). Va, altresì, precisato che la diligenza esigibile dal medico attiene non solo alla corretta esecuzione della prestazione sanitaria in senso stretto ma riguarda anche le attività preparatorie e successive quali in particolare quelle relative alla fase postoperatoria. (cfr. da ultimo Cass.civ., n.2334/2011). Nella diligenza è ricompreso poi l'obbligo di informare adeguatamente il paziente che, peraltro, ha assunto un ruolo centrale nella materia de qua non solo in quanto il c.d. consenso informato è presupposto per la liceità dell'intervento medico medesimo ma anche in relazione appunto alla responsabilità degli operatori verso il paziente. Obbligazioni di mezzi e di risultato Quanto alla nota distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato la più recente giurisprudenza (cfr. Cass. civ. S.U., n.15781/2005; Cass. civ. S.U., n.577/2008) ne ha decretato il definitivo superamento, cosicché è da ritenersi che in ogni obbligazione (anche in quella del medico tradizionalmente ascritta proprio al novero delle c.d. obbligazioni di mezzi) sia ricompreso un risultato utile per il creditore distinto dal mero comportamento diligente del debitore, anche se in proporzione variabile. Come è stato opportunamente sottolineato (cfr. Nicolussi A., Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, in Danno resp., 2008, 871) stante la varietà morfologica dei rapporti obbligatori sarà cura dell'interprete ricostruire adeguatamente il contenuto di ogni singolo rapporto obbligatorio alla luce di una corretta interpretazione del titolo ed del contenuto dell'obbligazione anche alla stregua del parametro di cui all'art. 1175 c.c. e tenuto conto anche dell'incidenza del progresso scientifico come fattore che nell'ambito delle prestazioni mediche rende diversamente parametrabile il risultato rispetto alla condotta del debitore. In giurisprudenza si è parlato di risultato conseguibile secondo criteri di normalità da apprezzarsi in relazione alle condizioni del paziente, alla abilità tecnica del medico ed alla capacità tecnico-organizzativa della struttura secondo un giudizio relazionale di valore in ragione delle circostanze del caso concreto (così Cass. civ., n. 8826/2007; Cass. civ., n. 17143/2012). Tale ricostruzione puntuale del contenuto dell'obbligazione è, infatti, preliminare a definire i contorni dell'esatto o inesatto adempimento su cui, poi, impostare, secondo il criterio dettato dall'art. 1218 c.c., il giudizio relativo alla responsabilità. Nesso causale La causalità nel sistema della responsabilità civile assolve una duplice funzione: consente, da un lato, di imputare il fatto illecito al responsabile, e dall'altro, di selezionare le conseguenze pregiudizievoli al cui risarcimento quest'ultimo è tenuto. Si parla in tal senso di causalità materiale (che attiene al nesso tra condotta ed evento) e di causalità giuridica (che attiene al nesso tra evento e danno). Per ciò che attiene la c.d. causalità materiale, mentre in ambito penale la celebre sentenza Franzese ha chiarito che il criterio da seguire è quello dell'alta credibilità razionale ovvero della certezza processuale oltre ogni ragionevole dubbio, in ambito civile viene accreditato un diverso criterio di accertamento della causalità basato sulla regola probatoria del “più probabile che non”. (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 21619/2007 e Cass. civ., S.U., n. 581/2008). Il nesso di causalità, dunque, in ambito civilistico, consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del “più probabile che non”. Con la precisazione tuttavia che si deve procedere ad un analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo senza limitarsi ad un meccanicistico e semplicistico ricorso alla regola del 51% (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 15991/2011). Per quanto attiene alla c.d. perdita di chance, capitolo assai tormentato nell'ambito della r.c. medica, si rinvia all'apposita Scheda d'autore. La selezione delle conseguenze dannose risarcibili (c.d. causalità giuridica) che si traducono in danno risarcibile avviene, invece, alla stregua dell'art. 1223 c.c. (e dell'art. 2059 c.c.). Come è stato opportunamente osservato dalla dottrina più accorta (De Matteis R., Dall'atto medico all'attività sanitaria. Quali responsabilità?, in Trattato di Biodiritto, Le responsabilità in medicina, Giuffrè, 2011, 117), l'abbandono della prospettiva aquiliana nella qualificazione sia della responsabilità del medico c.d. dipendente sia della struttura (pubblica, privata, o privata accreditata), si è necessariamente riverberata anche sotto il profilo delle regole causali nel senso di spostare l'attenzione più sul piano della causalità giuridica. Tuttavia la selezione dei danni risarcibili che conseguono all'inadempimento del sanitario non può prescindere da una valutazione dell'efficienza causale dell'inadempimento nella produzione dell'evento lesivo, rispetto ad altre cause che possono aver interrotto il nesso causale o che possono essere concorrenti. Ai fini della definizione dei danni da risarcirsi, occorre, infatti, accertare che l'inadempimento è stato causa esclusiva dell'evento lesivo in cui si è concretizzato il danno e che non siano viceversa intervenuti fattori idonei ad escludere appunto il nesso causale. Il ruolo che le regole causali sul piano della causalità materiale svolgono in ambito contrattuale dovrebbe riemergere in buona sostanza nei contenuti della prova liberatoria: a fronte dell'allegazione da parte del paziente di un inadempimento qualificato astrattamente idoneo a cagionare il danno, si pone la dimostrazione da parte della struttura/medico relativa o all'insussistenza dell'inadempimento o della sua irrilevanza sul piano eziologico. Invero sull'accertamento del nesso causale e soprattutto sulla distribuzione del relativo onere probatorio tra le parti si registrano attualmente le maggiori tensioni interpretative. Altrettanto dicasi circa la problematica attinente al concorso tra cause umane (come un errore professionale del medico) e naturali (come uno stato patologico pregresso del danneggiato) nella produzione dell'evento dannoso ed in particolare alla possibilità di ridurre l'obbligo risarcitorio del danneggiante in proporzione alla parte di danno rapportabile alla concausa naturale, stante le diverse posizioni espresse da ultimo da Cass. civ. sez. III, n. 975/2009. e Cass. civ. sez. III, n.15991/2011). Onere della prova Quello probatorio è forse il versante più critico e problematico nel quale si declina il rapporto tra professionista/struttura e paziente. Mentre in un primo momento la giurisprudenza era incline a modulare l'onere della prova in relazione alla natura facile o difficile dell'intervento, successivamente, in ossequio alla ritenuta natura contrattuale della responsabilità sia della struttura sia del medico c.d. dipendente (seppure da contatto sociale) ed in linea con le stautuizioni di Cass. civ. S.U., n. 13533/2001, e poi di Cass. civ. S.U., n. 577/2008 l'onere della prova si articola come segue:
Snodo centrale di tale ricostruzione sono evidentemente i concetti di allegazione rispetto a quello di prova, nonché la nozione di inadempimento qualificato ed i rispettivi confini rispetto all'elemento causale ed alla sua prova in giudizio. Questioni sulle quali dottrina e giurisprudenza successive alla nota pronuncia della Cass. civ. S.U., n. 577/2008 hanno fatto registrare posizioni non univoche. In particolare circa la prova del nesso causale si registra una oscillazione tra pronunce che in linea con la citata pronuncia pongono tale prova a carico del medico/struttura e pronunce che collocano tale prova in capo al paziente. Centrale è anche problematica relativa allo spazio da riservarsi alla dimostrazione dell'estinzione dell'obbligazione tramite il corretto adempimento, e soprattutto quale sia il contenuto della prova appunto dell'esatto adempimento, ovvero se possa essere sufficiente il rispetto di tutte le norme di prudenza, diligenza e perizia, dei protocolli e delle linee-guida più accreditate nel proprio settore di competenza anche in termini di controllo dei possibili fattori di rischio (illuminanti in tal senso le osservazioni di Trib. Milano, 22 aprile 2008). Previa ovviamente l'individuazione puntuale del contenuto dell'obbligazione assunta dal professionista alla luce di interpretazione della del titolo e del contenuto del rapporto secondo buona fede e tenuto conto della presenza di un “risultato” in tutte le obbligazioni seppure diversamente parametrato e parametrabile (anche in ragione dello stesso progresso della scienza medica e della natura dell'intervento) rispetto al contegno del debitore. Anche in relazione alla nozione di causa sopravvenuta non imputabile si registrano orientamenti non univoci relativamente alla necessità di fornire la prova dello specifico fatto impeditivo non imputabile, con la conseguenza di porre sempre a carico del medico/struttura il rischio della causa estintiva non imputabile ma ignota e pure di limitare l'operatività delle presunzioni. (possono leggersi in tale ultimo senso tra le tante Cass. civ. sez. III., n. 12274 /2011, in un caso, però, in cui il medico è stato in grado di fornite la prova dell'intervento di una complicanza ritenuta inevitabile). Prescrizione Dalla natura contrattuale della responsabilità discende ovviamente l'applicazione del relativo termine di prescrizione decennale. Danni Per quanto attiene ai danni patrimoniali vigono le consuete regole contenute negli artt. 1223 c.c. e ss. che ammettono, come è noto, il risarcimento del c.d. danno emergente e del lucro cessante che siano conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento. Mentre in punto di danni non patrimoniali occorre fare riferimento all'art. 2059 c.c. ed alle note pronunce della Cassazione a sezioni unite del novembre 2008, cui si deve, peraltro, l'affermazione della risarcibilità del danno non patrimoniale anche in caso di inadempimento quando vengano in gioco diritti inviolabili della persona come nel caso emblematico della responsabilità sanitaria. Criteri di liquidazione Si deve dare conto del recente intervento legislativo di cui alla l. n. 189/2012 meglio nota come legge Balduzzi, pur con tutti i dubbi interpretativi che circondano tale intervento normativo anche in relazione al relativo ambito di applicazione. L'art. 3, comma 3 del provvedimento legislativo estende, infatti, al settore sanitario l'applicazione delle tabelle per il risarcimento del danno biologico di cui agli artt. 138 e 139 Cod. Ass. relativamente al risarcimento del “danno biologico conseguente all'attività dell'esercente la professione sanitaria”. Tale estensione opera con effetto non retroattivo e, dunque, per i sinistri verificatisi dopo l'entrata in vigore del d.l. n. 158/2012 (così Trib. Pisa, 27 febbraio 2013 che ne ha chiarito la natura di norma sostanziale; Trib. Varese, 26 novembre 2012; Trib. Cremona, 19 gennaio 2013). Diversamente Trib. Torino, 10 gennaio 2013, n. 153 che, peraltro, ha liquidato sia il danno biologico sia il morale sia il c.d. esistenziale con ciò travisando peraltro le stesse indicazioni delle Sezioni Unite del 2008.). Tale estensione rileva per il momento – ovvero in attesa dell'attuazione dell'art. 138 Cod. Ass.– in relazione alle lesioni c.d. micropermanenti. Mentre per le lesioni di non lieve entità il riferimento deve essere costituito, in linea con quanto statuito da Cass., n. 12408/2011 dalle c.d. tabelle milanesi. Aspetti processuali Con la l. n. 98/2013 di conversione del d.l. n. 69/2013 il legislatore ha reintrodotto l'obbligatorietà della mediazione per una serie di materia tra cui la responsabilità medica e sanitaria. Pertanto a far data dal 20 settembre 2013 la mediazione diviene nuovamente condizione per poter promuovere il giudizio civile. |