Negoziazione Assistita

Maurizio Hazan
27 Maggio 2015

La principale novità delle misure per la giustizia contenute nel D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modifiche con L. n. 162/2014, è dunque costituita dall'introduzione, negli artt. 2 e ss., della procedura di negoziazione assistita, nuovo sistema di risoluzione alternativo delle controversie che si va ad aggiungere a quelli già previsti dal Legislatore, come la mediazione conciliativa introdotta dal D.L. n. 28/2010, la conciliazione in sede non contenziosa davanti al Giudice di Pace prevista nell'art. 322 c.p.c., la mediazione tra imprese e consumatori presso le Camere di Commercio oppure ancora il tentativo di conciliazione previsto all'art. 140-bis del Codice del Consumo.
Inquadramento

La principale novità delle misure per la giustizia contenute nel D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modifiche con L. n. 162/2014 è dunque costituita dall'introduzione, negli artt. 2 e ss., della procedura di negoziazione assistita, nuovo sistema di risoluzione alternativo delle controversie che si va ad aggiungere a quelli già previsti dal Legislatore, come la mediazione conciliativa introdotta dal D.L. n. 28/2010, la conciliazione in sede non contenziosa davanti al Giudice di Pace prevista nell'art. 322 c.p.c., la mediazione tra imprese e consumatori presso le Camere di Commercio oppure ancora il tentativo di conciliazione previsto all'art. 140-bis Cod. Consumo.

Il tratto saliente della nuova procedura sta nella volontà legislativa di ricercare la deflazione del contenzioso nell'ambito di una nuova dialettica tra i contendenti: dialettica da un lato improntata a principi di etica cooperazione finalizzata alla soluzione bonaria della lite; dall'altro fondata sul recupero di un dialogo in qualche modo “diretto” ed immediato, in quanto non inserito in contesti eterodiretti o triangolari (come per la mediazione conciliativa) ma affidato alla responsabilità delle parti e dei loro avvocati, qui chiamati a svolgere, almeno nelle intenzioni, una funzione meno “di parte” e più orientata alla ricognizione degli effettivi sviluppi del contenzioso, onde gestirne i rischi e prevenirne, transattivamente, i potenziali impatti negativi.

«Negoziazione assistita da uno o più avvocati», si dice, invero, nella rubrica dell'art. 2, delineando così la «caratteristica prima dello strumento, e cioè la devoluzione ai professionisti legali iscritti agli albi del compito di assistere le parti (che non necessariamente sono anche clienti, nella gestione della vertenza) nel tentativo di comporre la lite, avendone compiutamente valutato i profili ed rischi di un eventuale giudizio.

Un tale approccio al problema potrebbe davvero costituire una svolta epocale, incidendo sullo stesso modo di concepire l'esercizio della professione legale e recuperando una cifra etica troppe volte sacrificata in nome di più o meno esplicite convenienze economiche connaturate all'alimentazione della lite.

Il riferimento alla possibilità che l'assistenza sia offerta da «uno più avvocati»pone, peraltro, un primo dubbio interpretativo in ordine alla possibilità che la procedura possa essere utilmente svolta anche per il tramite di un solo legale, individuato di comune accordo da entrambi i contendenti. Il fatto che altrove e per ipotesi del tutto specifiche (art. 6) il legislatore abbia espressamente previsto la presenza di un avvocato per parte sembra marcare una distinzione di disciplina tale da avallare la possibilità, in tutti gli altri casi, di affidare la negoziazione all'assistenza di un unico professionista comune. Può, tuttavia, rilevarsi come - in concreto - la struttura tipica del procedimento, così come disegnata dal legislatore, preveda quale elemento “naturale” (anche se non essenziale) la presenza di un avvocato per parte, tanto più nelle ipotesi in cui (art. 3) la stipula della convenzione debba essere stimolata da chi vi abbia interesse attraverso un invito formale alla controparte (onde assolvere la condizione di procedibilità, laddove prevista).

Come detto, infatti, la procedura di negoziazione assistita si distingue a seconda che costituisca o meno condizione obbligatoria di procedibilità della successiva domanda giudiziale. All'interno del D.L. n. 132/2014 occorre, dunque, in prima battuta separare le disposizioni che riguardano l'istituto in generale e quindi - pur con qualche distinguo – tutte le ipotesi di negoziazione assistita, obbligatoria o facoltativa (artt. 2, 4, 5, 8, 9, 10 e 11) da quella che invece (art. 3) riguarda i casi in cui l'istituto assolve la condizione di procedibilità.

Volendo, poi, disegnare gli elementi salienti della procedura possiamo, in guisa di schema, focalizzarne le peculiarità nei termini che seguono:

  1. Necessità, in apertura, di una convenzione, ovvero di un vero e proprio accordo scritto (art. 2) volto a stigmatizzare l'impegno delle parti a cooperare in buona fede e con lealtà al fine di risolvere in via amichevole, con l'assistenza di avvocati e per un dato periodo di tempo, una controversia;
  2. Obbligo di stimolare tale accordo, attraverso l'invito a stipulare la convenzione, nelle sole materie indicate dall'art. 3, pena l'improcedibilità della successiva domanda giudiziale;
  3. Possibilità, per il giudice, di valutare comunque la condotta della parte che non abbia favorito la stipula di una convenzione di negoziazione, sanzionandone, se del caso, il comportamento immotivatamente litigioso (art. 4) ;
  4. Esecutività dell'accordo di negoziazione, ossia dell'accordo che compone la controversia, da non confondersi con la convenzione di negoziazione, che stabilisce invece le regole di impegno delle parti a dialogare in ottica conciliativa;
  5. Effetto interruttivo od impeditivo della procedura su prescrizione e decadenza (art. 8);
  6. Centralità dell'obbligo di buona fede, lealtà, riservatezza che connota l'intero svolgimento del procedimento di negoziazione, da intendersi quale strumento volto, anzitutto, a rappresentare alle parti in termini il più possibile obiettivi i rischi (ed i vantaggi) insiti nell'eventuale giudizio, inducendo ove possibile una soluzione bonaria della lite.
  7. Dovere deontologico degli avvocati di informare il cliente, all'atto del conferimento dell'incarico, della possibilità di comunque ricorrere alla negoziazione assistita, quando afferente a materie non assoggettate all'obbligo.

Disciplina a parte si applica, dipoi, allo speciale il procedimento di negoziazione «per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio ovvero di modifica delle condizioni di separazione». La peculiarità di tale ultimo istituto, piuttosto eccentrico rispetto alla materia della responsabilità civile, ci induce a non considerarlo, ai fini della presente bussola.

Sotto il profilo dell'impatto pratico, l'innovazione normativa rivela tutta la sua forza soprattutto nella parte in cui si impone, quale condizione obbligatoria di procedibilità, nel settore che registra il più diffuso accesso alla litigiosità giudiziale: quello afferente alla «materia del risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti».

E da lì muoveremo.

La negoziazione assistita obbligatoria

A far tempo dal 9 febbraio 2015, il ricorso alla procedura della negoziazione assistita costituisce condizione di procedibilità delle azioni giudiziali relative alle controversie aventi ad oggetto il:

a) «risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti»;

b) «pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti i cinquantamila euro».

Il primo comma dell'art. 3 esclude espressamente che la negoziazione assistita costituisca condizione di procedibilità per quelle controversie che sono già sottoposte obbligatoriamente al tentativo di mediazione conciliativa ai sensi dell' art. 5, comma 1-bis del D.L. n. 28/2010, nonché quelle concernenti obblighi contrattuali derivanti da contratti conclusi tra consumatori e professionisti.

Non sono soggetti alla nuova condizione di procedibilità:

  • i procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione
  • i procedimenti di consulenza tecnica preventiva di cui all'art. 696-bis c.p.c.
  • i procedimenti di opposizione o incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata;
  • i procedimenti in camera di consiglio;
  • l'azione civile esercitata nel processo penale.

Inoltre, ai sensi del comma 7 dell'art. 3 la negoziazione assistita non è condizione di procedibilità per le cause, di qualsiasi natura, in cui la parte può stare in giudizio personalmente (dunque causa di valore inferiore ad € 1100 e quelle previste dall'artt. 417, 442 e 447-bis c.p.c).

Infine, il preventivo esperimento del procedimento di negoziazione assistita non preclude la concessione di provvedimenti urgenti e cautelari, né la trascrizione della domanda giudiziale; il che, con riferimento alle procedure liquidative della RCA, sembra consentire ai danneggiati di promuovere l'azione senza dover passare attraverso il filtro obbligatorio della negoziazione assistita, sia pur ai limitati fini di domandare l'assegnazione della provvisionale di cui all'art. 147Cod. Ass.. Al riguardo si ricorda come tale provvisionale (che, correlata allo stato di bisogno del richiedente, riveste certamente i caratteri dell'urgenza) non può essere oggetto di autonomo giudizio e deve esser di necessità richiesta nel corso del procedimento di primo grado. Il che equivale a dire che una causa risarcitoria della RCA potrebbe essere validamente introdotta e trattata per la sola questione provvisionale, rimanendo “improcedibile” – e quindi letteralmente non proseguibile, per il resto. Emanata l'ordinanza di accoglimento o di rigetto dell'assegno provvisorio, il giudice, ove l' improcedibilità fosse stata eccepita dal convenuto o l'avesse egli stesso rilevata d'ufficio, dovrebbe assegnare alle parti il termine di cui all'art. 3, comma 1, per dar corso all'invito alla negoziazione, rinviando conseguentemente il procedimento ad udienza successiva, da fissarsi in data compatibile con l'espletamento della procedura conciliativa.

Al di fuori della RCA, l'obbligo di negoziazione (ai fini della procedibilità della domanda) è dunque limitato alle controversie aventi ad oggetto il pagamento, a qualsiasi titolo di somme, non eccedenti i 50.000 euro, purché non concernenti obblighi contrattuali derivanti da contratti conclusi tra consumatori e professionisti e, comunque, non attinenti a materie per le quali è richiesto, ancora una volta quale condizione di procedibilità, l'esperimento della procedura di mediazione conciliativa (l'elenco delle materie soggette a mediazione obbligatoria è contenuto nel comma 1-bis dell' art. 5, D.lgs. n. 28/2010). Così, esemplificativamente, una controversia avente ad oggetto il pagamento di un indennizzo assicurativo fondato su di una polizza infortuni o di un risarcimento da responsabilità sanitaria sarà assoggettata al regime vincolante della mediazione conciliativa, anche nelle ipotesi in cui il quantum della richiesta sia inferiore a 50.000. euro.

Più delicato il tema (certamente prioritario) afferente alla corretta individuazione delle liti in materia di risarcimento del danno da circolazione.

La definizione di “materia del risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti”

Purtroppo la formulazione dell'art. 3 non è del tutto cristallina. Si pone, infatti, l'esigenza di comprendere se entro il lasco paradigma semantico del lemma «materia» si debbano ricomprendere le sole vertenze aventi ad oggetto la richiesta di risarcimento di un danno prodotto dalla circolazione ovvero possano annoverarsi tutte le controversie in qualche modo scaturite da incidenti della circolazione stradale o della navigazione.

Il pensiero corre, anzitutto, alle domande di rivalsa, azionate dall'assicuratore della RCA ai sensi dell'art. 144 Cod. Ass.: in queste ipotesi la compagnia agirebbe in forza di un titolo contrattuale per recuperare, dal proprio assicurato, le somme pagate al terzo danneggiato dalla circolazione stradale, a fronte dell'inopponibilità, verso quest'ultimo, delle eccezioni fondate sulla polizza (si pensi, ad esempio, alle franchigie o alle esclusioni di copertura in caso di guida in stato di ebbrezza). In questa ipotesi non vi è dubbio che la lite attenga, in termini generali, alla materia della circolazione (avendo ad oggetto il recupero di somme dovute dal responsabile/assicurato e pagate al danneggiato), sebbene il titolo su cui la pretesa di rivalsa si fonda è a matrice tipicamente negoziale e non aquiliana. E come dovrebbe, poi, qualificarsi la controversia avesse ad oggetto il danno patito dall'assicurato per aver accettato una liquidazione non congrua, per effetto della violazione da parte della gestionaria, degli obblighi di informativa e di assistenza tecnica impostile dall'art. 9, d.P.R. n. 254/2006?

L'inquadramento del tema incide sulla condizione di procedibilità, giacchè se prevalesse (come si ritiene) l'idea che queste controversie “di confine” attengano alla materia contrattuale assicurativa (più di quanto ineriscano al tema risarcitorio), le stesse rimarrebbero assoggettate alla mediazione conciliativa e non alla negoziazione assistita.

A livello di principio, il discrimine tra i due diversi regimi dovrebbe risiedere nella possibilità, o meno, di degradare sul piano causale la circolazione a mera occasione del danno o della pretesa oggetto di controversia.

Così, del resto, sembra potersi dire per le controversie risarcitorie correlate a danni patiti da utenti della strada (conducenti di veicoli) a seguito di insidie e trabocchetti (buche nel manto stradale, errori della segnaletica, ecc), in quanto la circolazione stradale qui è semplice occasione del danno, non la sua causa efficiente (sul tema si veda anche Cass. civ., sez. VI – 3, ord., 5 settembre 2014, n. 18813).

Certo, non rientrano nella negoziazione assistita, le vertenze tipicamente endocontrattuali, ancorché riferite a polizze della RCA (si pensi al mancato pagamento del premio, alle dichiarazioni inesatte e reticenti, alla violazione, da parte delle imprese, degli obblighi imposti loro nella fase di collocamento e stipula del contratto assicurativo). Altrettanto dicasi per le controversie relative alle coperture tipicamente “vendute” in abbinamento alla RCA, quali le garanzie Kasko, infortuni del conducente, tutela legale, incendio e furto, atti vandalici o cristalli. Tutte queste controversie rimarranno dunque assoggettate all'esperimento obbligatorio della media conciliazione, ai sensi dell'art.5, comma 1-bis, D.lgs. n. 28/2010.

Quanto poi al cessionario del credito da RCA - al di là delle complesse questione afferenti all'ammissibilità di tale cessione - lo stesso sembrerebbe tenuto ad obbligatoriamente esperire la negoziazione assistita, in quanto il diritto ceduto, ed azionato, è quello del danneggiato e trova dunque la sua sicura scaturigine nella circolazione veicolare. Ma a render meno agevole questa lettura si pone la teoria sostenuta dalla Suprema Corte (Cass. civ., sez. III, sent., 10 gennaio 2012, nn. 51 e 52) secondo la quale «il cessionario può fare dunque valere l'acquisito diritto di credito al risarcimento nei confronti del debitore ceduto (nel caso che ne occupa l'assicuratore del danneggiante) non già in base al D.Lgs. n. 209/2005, art. 144, (e già alla L. n. 990/1969, art. 18), in relazione al quale non può invero propriamente parlarsi di cessione, bensì in ragione del titolo costituito dal contratto di cessione del credito, quale effetto naturale del medesimo (art. 1374 c.c.)».

Ci pare infine che la domanda di surrogazione dell'assicuratore sociale, ai sensi dell'art. 142 Cod. Ass., sia anch'essa assoggettata al nuovo regime di procedibilità, rientrando certamente nell'ambito della materia del risarcimento del danno da circolazione stradale, quantomeno sotto il profilo dell'oggetto della surrogazione.

A fronte di tali complessi incroci, si pone la questione dell'individuazione della regola di procedibilità applicabile nel caso di domande tra loro connesse (in ipotesi: azione di risarcimento diretto e richiesta di pagamento dell'indennizzo in forza di una polizza infortuni del conducente ) o comunque collegate (domanda risarcitoria in via di indennizzo diretto e azione riconvenzionale di rivalsa) e sottoposte a diversi regimi conciliativi obbligatori: l'applicazione letterale delle norme potrebbe condurre ad inopportune complicazioni ed appesantimenti procedurali, quand'anche le questioni siano state entrambe trattate in una delle due ADR.

Ciò posto, la più urgente difficoltà interpretativa si pone a proposito del tempo di esperimento della negoziazione assistita nelle controversie già assoggettate, ex lege, a particolari procedure liquidative stragiudiziali, il cui preventivo esperimento è stato previsto dal legislatore quale condizione di proponibilità dell'azione diretta.

Il delicato coordinamento con le procedure liquidative di cui agli artt. 145 - 148 e 145 - 49 Cod. Ass.

Il comma 5, art. 3 ammette la coesistenza della negoziazione assistita con eventuali altre procedure di conciliazione e mediazione obbligatorie …«comunque denominate». In fase di conversione la disposizione è stata arricchita da un comma, a mente del quale « il termine di cui ai commi 1 e 2, per materie soggette ad altri termini di procedibilità, decorre unitamente ai medesimi».

La non agevole ricognizione dell'intenzione del legislatore e la discutibile formulazione della norma ha portato qualche Autorevole commentatore (c.f.r. M. Ruvolo, L'applicazione della negoziazione assistita alle controversie in materia di responsabilità da circolazione di veicoli e natanti, in Ri.da.re.) a ritenere che, in materia di RCA, l'invito alla negoziazione assistita possa esser contestuale all'inizio delle «procedure stragiudiziali» di liquidazione del danno, disciplinate dal combinato disposto degli artt. 145, 148 e 149 Cod. Ass.. Una tale lettura legittimerebbe il formarsi di una prassi, largamente prevedibile tra i difensori dei danneggiati, tesa ad avviare la negoziazione assistita nei confronti dell'impresa assicurativa in sincrono con l'inoltro della formale richiesta di risarcimento prodromica all'avvio dell'azione diretta (quando non addirittura spiccando un'unica comunicazione cumulativa). Ciò al comprensibile scopo di evitare il dilatarsi dei tempi di accesso alla giustizia, nel caso in cui la compagnia rigetti la pretesa risarcitoria o formuli un'offerta ritenuta incongrua.

A parere di chi scrive, invece, la questione merita di essere impostata in termini del tutto ribaltati, per motivi logici, sostanziali e financo letterali.

È noto, infatti, che solo con l'esaurimento della fase stragiudiziale (ed il decorso dei termini di 30, 60 e 90 giorni di cui al combinato disposto degli artt. 145, 148 e 149 Cod. Ass.), il danneggiato che si ritenga insoddisfatto dell'offerta ricevuta (o della mancata offerta o della reiezione, pur motivata) possa dar corso all'azione diretta, promuovendo il giudizio risarcitorio nei confronti della compagnia assicuratrice del preteso responsabile: il rispetto di quanto previsto da quell'impianto normativo costituisce infatti condizione di proponibilità dell'azione diretta, che dunque non potrà essere validamente introdotta prima del decorso del così detto spatium deliberandi concesso ex lege all'impresa di assicurazione tenuta al risarcimento. Entro quel lasso di tempo la compagnia assicuratrice ha il potere, e soprattutto il dovere, di gestire ed istruire la richiesta risarcitoria, soddisfacendola - se fondata - senza dilazioni. Di più - come ben argomentato dalla Consulta (C. Cost., sent., 18 aprile 2012, n. 111) - la previsione di una procedura stragiudiziale a percorso vincolato e tempi ben misurati - soddisfa in primis l'esigenza del danneggiato di trovare pronto ed integrale ristoro dei propri danni, con la piena cooperazione dell'impresa assicurativa, qui investita di una (celere ed energica) funzione riparatoria, dai connotati etico/sociali. Difficile, nella pendenza del termine per effettuare la “congrua” offerta, sostenere che tra la compagnia e il danneggiato sia già insorta una controversia, dovendosi piuttosto sostenere l'esistenza, tra le parti, di un rapporto di necessaria cooperazione volto alla corretta profilazione e liquidazione del danno.

Ed invero, ai sensi dell'art. 2, comma 1, D.L. n. 132/2014 la negoziazione assistita costituisce una strumento mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole proprio una controversia. Occorre, dunque, che tra le parti vi sia una controversia da comporre, e quindi una contrapposizione in qualche modo radicata.

Ora, perché vi sia lite (e quindi controversia) secondo la Suprema Corte, occorre la «presenza di un conflitto di interessi qualificato dalla pretesa di uno degli interessati e dalla resistenza dell'altro» (Cass. n. 6636/1983). Pare necessario, insomma, l'esistenza di un conflitto concreto ed attualee cioè di una vera e propria divergenza di posizione, non riconducibile al più vago ed astratto concetto di “potenziale disaccordo”. Non avrebbe, del resto, senso dar corso ad un procedimento conciliativo in assenza di contrapposizione. Tali argomenti valgono, dunque, a fortiori, nell'ambito della disciplina dell'azione diretta da RCA, ontologicamente strutturata attorno ad un rapporto di cooperazione e non invece di aprioristica contrapposizione.

Quanto sopra argomentato sembra valere, con ancor miglior persuasività, nell'ambito della procedura stragiudiziale di indennizzo diretto, là dove l'assicuratore è tenuto ex lege non solo a interloquire ma addirittura a supportare il danneggiato nella propria richiesta risarcitoria, svolgendo una funzione consulenziale e comunque assistenziale tesa addirittura alla «piena realizzazione del diritto al risarcimento del danno» (art. 9, d.P.R. n. 254/2006); funzione del tutto avulsa dalla stessa idea di conflittualità.

Ma anche accedendo ai canoni dell'interpretazione letterale la tesi della congiunta proponibilità delle procedure liquidative e della negoziazione assistita pare scricchiolare.

Il citato comma 5, art. 3 si riferisce, infatti, soltanto a termini di procedibilità, mentre il filtro previsto dall'art. 145 Cod. Ass. non pone un barrage di procedibilità (sanabile se non rilevata entro la prima udienza) ma di proponibilità (rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo). E pare illogico ritenere procedibile una domanda improponibile, non viceversa. Il che equivale a dire che il requisito della proponibilità non può che essere integrato prima di quello della procedibilità.

In ultima analisi, si ritiene che, nelle controversie della RCA, la negoziazione assistita possa aver inizio soltanto una volta esaurita la procedura stragiudiziale di cui agli articoli 145, 148 e 149 Cod. Ass. (per decorso del termine, per rigetto della pretesa o per mancata accettazione dell'offerta).

L'invito alla negoziazione ed i suoi effetti

Nei casi in cui la negoziazione assistita costituisca condizione di procedibilità, il comma 1 dell'art. 3 prevede a carico della parte che intende avviare l'azione giudiziaria, l'onere di trasmettere un invito all'altra parte, per tramite del proprio legale, a stipulare una convenzione di negoziazione assistita.

Ai sensi del comma 4, art. 3, D.L. n. 132/2014, la violazione di tale obbligo pre-giudiziale di “invito” alla negoziazione assistita dà luogo, come detto, all'improcedibilità della domanda, che può essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Peraltro, la condizione di procedibilità della domanda giudiziale si considera avverata se l'invito non è seguito da adesione o è seguito da rifiuto entro 30 giorni dalla sua ricezione ovvero quando è infruttuosamente decorso il termine per l'espletamento della procedura (sul punto v. La convenzione di negoziazione) .

Quando il Giudice rileva che la negoziazione assistita è iniziata, ma non si è ancora conclusa, fissa un'udienza successiva alla scadenza del termine stabilito dalla convenzione di negoziazione. Ugualmente, ove la negoziazione non è stata esperita fissa un'udienza successiva alla scadenza del termine previso al comma 2 lett. a), art. 2 (ragionevolmente oltre i 3 mesi, non potendo ancora sapere il giudice su che termine si accorderanno le parti) e assegna alle parti un termine di 15 giorni per la comunicazione dell'invito. Nel silenzio del legislatore sulle conseguenze dell'omesso invio dell'invito nei 15 giorni successivi al provvedimento si pone il dubbio se il giudice adito - verificata l'inerzia della parte attrice - possa rigettare la domanda emanando una sentenza di rito che accerti la mancata realizzazione della condizione di procedibilità ovvero dichiarare l'estinzione del giudizio ai sensi dell'art. 307, comma 1, c.p.c. (in questo senso cfr. Trib. Firenze, sez. III, 30 ottobre 2004) .

L'invito, come previsto ancora dall'art. 4, deve indicare l'oggetto della controversia e contenere l'avvertimento che la mancata risposta all'invito entro 30 giorni dalla ricezione, o il suo rifiuto, può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli artt. 96 e 642, comma 1, c.p.c..

L'assistenza dell'avvocato si manifesta sin da quell'invito che, pur essendo atto di parte, deve contenere la certificazione dell'autografia della firma ad opera del legale. Pur nel silenzio del legislatore pare logico ritenere, viste le precipue finalità dell'invito ed i suoi effetti sostanziali e processuali, che lo stesso debba essere sottoscritto dal legale rappresentante della persona giuridica ovvero da un persona munita dei necessari poteri per siglare sia la convenzione di negoziazione che l'eventuale accordo in relazione alla specifica controversia insorta con la società rappresentata.

Il fatto che il silenzio od il rifiuto del destinatario dell'invito (in altri termini: il suo difetto di cooperazione) possa esser preso in considerazione dal giudice nella liquidazione delle spese di giudizio dimostra gli auspici del legislatore il quale, proprio attraverso tale previsione “sanzionatoria”, mira a stimolare la piena adesione delle parti al nuovo ADR. Va, al riguardo, osservata l'evidente differenza di regime rispetto alla mediazione conciliativa, nell'ambito della quale la parte invitata ha la possibilità, ricorrendone i presupposti, di rifiutare la procedura allegando un giustificato rifiuto; l'ipotesi del motivato rifiuto non è invece contemplata nella negoziazione assistita. Ciò nonostante, anche nella nuova procedura il rifiuto motivato e ben argomentato potrebbe - di fatto - influenzare la decisione del giudice (il quale, lo ricordiamo, può ma non necessariamente deve applicare, tantomeno in via automatica, il regime della responsabilità processuale aggravata di cui all'art. 96 c.p.c., regime, tra l'altro, invocabile - a differenza di quanto stabilito dall'art. 92 c.p.c per il caso di violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c.- soltanto nei confronti della parte soccombente)

Al contempo mentre il rifiuto non motivato a partecipare alla mediazione conciliativa è sanzionato in una misura pre-determinabile dal convenuto non aderente (pari al contributo unificato del giudizio), la possibile condanna ex art. 96, specialmente ai sensi del terzo comma, è difficilmente prevedibile nella sua misura concreta.

L'invito a stipulare la convenzione, oltre ad essere un presupposto per la procedibilità dell'azione, produce due altri importanti effetti sostanziali: infatti ai sensi dell'art. 8, D.L. n. 132/2014 dal momento della comunicazione (rectius dalla ricezione) dell'invito ovvero dalla sottoscrizione della convenzione si producono sulla prescrizione gli effetti della domanda giudiziale. Ai sensi degli artt. 2943 e 2945 c.c. pertanto la prescrizione è interrotta dalla comunicazione dell'invito o dalla sottoscrizione della convenzione ed il suo decorso deve ragionevolmente intendersi sospeso sino al rifiuto o la mancata adesione entro il termine di trenta giorni, ovvero sino allo spirare del termine concordato dalla parti per l'espletamento della procedura (non comunque per un tempo superiore a tre mesi dalla firma della convenzione).

D'altra parte è stato previsto che la comunicazione dell'invito ovvero la sottoscrizione della convenzione impediscono, per una sola volta, la decadenza dall'azione, che dovrà comunque essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal giorno del rifiuto, ovvero della mancata adesione nei trenta giorni ovvero dalla dichiarazione di mancato accordo sottoscritta dagli avvocati.

Ora, tutte le prescrizioni contenutistiche e gli effetti correlati all'invito (od alla sua mancata formulazione) paiono attagliarsi naturalmente alle ipotesi di negoziazione assistita obbligatoria, incidendo sull'assolvimento, o meno, della condizione di procedibilità (o comunque impattando sulle sorti del procedimento giudiziale incardinato successivamente all'invito).

In verità potrebbe ritenersi che le previsioni dell'art. 4, commi 1 e 2, e dell'art. 8 valgano anche per le ipotesi di negoziazione facoltativa. Potrebbe cioè sostenersi che chi intenda formulare l'invito al di fuori dei casi obbligatori sia comunque tenuto al rispetto della forma vincolata imposta dall'art. 4, almeno al fine di poter poi invocare l'applicabilità alla fattispecie delle conseguenze previste dalla norma per il caso rifiuto o di mancata adesione.

Così pure la sottoscrizione della convenzione di negoziazione sembra recare di per sé, e quindi anche in ambito di mera facoltatività, gli effetti interruttivi della prescrizione e impeditivi della decadenza indicati nell'art. 8.

La convenzione di negoziazione

Quel che non pare sino ad oggi esser stato sufficientemente indagato e considerato è il fatto che l'invito alla negoziazione non è un semplice invito all'incontro (onde verificare se vi siano spazi di composizione della lite) dovendo invece stimolare la stipula di una vera e propria “convenzione di negoziazione”.

Quel che sembra volere il legislatore non è dunque che le parti si “siedano attorno al tavolo”, bensì che le stesse, con l'assistenza del/degli avvocato/i, redigano un accordo nel quale vengano declinate le regole di ingaggio, e quindi il reciproco impegno a negoziare al fine evitare il giudizio.

Ai sensi del comma 2 dell'art. 2 la convenzione di negoziazione deve precisare

a) il termine concordato per la procedura (minimo 1 mese massimo 3 mesi, prorogabile una sola volta di 30 giorni su accordo delle parti)

b) l'oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro.

Si tratta di comprendere se, al di là di questi vincoli contenutistici (durata e oggetto della lite) l'accordo possa riguardare il quomodo della negoziazione, stabilendo ad esempio:

  • il calendario e la sede degli incontri, se personali ovvero a distanza;
  • la personale (e non delegabile) partecipazione delle parti, spesso opportuna al fine di indurle ad una più diretta ed obiettiva percezione dei vantaggi e dei rischi, nonché potenzialmente idonea a recuperare, almeno in determinate ipotesi, un dialogo meno conflittuale;
  • l'impegno delle parti ad una full disclosure dei documenti e delle prove, anche se tale obbligo si potrebbe ritenere, come vedremo avanti, naturale promanazione del dovere di lealtà e correttezza;
  • il ricorso a consulenti tecnici e, se del caso, a perizie contrattuali vincolanti per accertare situazioni tecniche e di fatto che sono alla base della controversia (ad esempio quantificare i postumi permanenti di un danno fisico oppure verificare l'esecuzione a regola d'arte di un'opera).

Rimane il fatto che, quale che ne sia il contenuto, la convenzione di negoziazione, in assenza di forma scritta, è nulla, travolgendo anche l'efficacia di titolo esecutivo dell'accordo eventualmente raggiunto tra le parti (che potrà comunque valere come un normale accordo transattivo).

Resta da chiarire se l'omessa certificazione dell'autografia della firma da parte dell'avvocato sia essenziale, o meno, per la validità della convenzione (la quale, in caso di risposta affermativa, assumerebbe la natura della scrittura privata autenticata ad substantiam).

Quel che pare sostenibile è che la mancanza dei requisiti di forma e di sostanza della convenzione e dell'invito incida sul soddisfacimento della condizione di procedibilità di cui all'art. 3, almeno nei casi in cui una delle parti sollevi la relativa eccezione.

Una questione davvero delicata si pone, peraltro, proprio nelle ipotesi di negoziazione obbligatoria, ogni qualvolta la parte destinataria dell'invito si dichiari in linea di principio disponibile a sottoscrivere una convenzione di negoziazione assistita ma, successivamente, non si dichiari d'accordo sui relativi contenuti (banalmente: il termine di durata dell'impegno negoziale). Il problema in tanto si complica in quanto si intenda quell'accordo a contenuto modulabile e liberamente integrabile dalle parti a seconda del minore o maggiore grado di regolamentazione del dialogo a cui si vogliono vincolare.

Vien dunque da chiedersi se a fronte di un invito correttamente formulato, il disaccordo sui contenuti della convenzione precluda la condizione di procedibilità ovvero, a contrario, integri gli estremi di un rifiuto valutabile ai sensi dell'art. 4

L'obbligo di lealtà e riservatezza

Come più volte accennato, l'elemento che più di ogni altro sembra connotare la nuova procedura, improntata al recupero di valori etici troppo spesso abbandonati, risiede nell'impegno, assunto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, di cooperare in buona fede e con lealtà per addivenire alla composizione della lite. Il richiamo a tali principi, lungi dal costituire una mera riedizione delle regole deontologiche e di condotta alle quali ciascun professionista legale è comunque tenuto, sembrano evocare un dovere di reale collaborazione al fine di reperire una soluzione non soltanto conveniente ma in qualche modo “giusta”. Il tema induce più d'una suggestione sul dovere, in capo agli avvocati coinvolti, di rispettare laverità storica dei fatti oggetto della vertenza e comunque di reciproca trasparenza nella gestione del dialogo conciliativo. Il che potrebbe allontanare, e di molto, la negoziazione assistita dalle modalità con cui vengono normalmente condotte quelle negoziazioni stragiudiziali - non vincolanti e libere - che usualmente i professionisti gestiscono in nome e per conto dei propri clienti.

L'accento sugli aspettietici, prima ancora che deontologici, della nuova procedura viene ribadito, dipoi, dall'art. 9, comma 2, del D.L.: «è fatto obbligo agli avvocati e alle parti di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute. Le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto».

Al di là delle stravaganze lessicali, che potrebbero (erroneamente) indurre a ritenere che una difesa spesa in sede di negoziazione (cfr: «le dichiarazioni rese ») non sia poi reiterabile in corso di giudizio, la clausola di riservatezza mira, indirettamente, a tutelare le parti dalle conseguenze che, sul piano del futuro processo, potrebbero derivar loro dal rispetto, in sede di negoziazione, di quello che - a noi pare - debba essereconsiderato l'obbligo principale posto a loro carico al fine di agevolare la risoluzione della controversia: quello di presentare, durante il confronto negoziato, tutti gli elementi in fatto ed in diritto di cui dispongono allo stato e di cui potrebbero avvalersi in causa, in modo tale che ciascuna parte possa efficacemente pervenire ad una valutazione “informata” sull'opportunità di giungere ad un accordo conciliativo o, perché no, di riconoscere integralmente la bontà della posizione di controparte, ciascun contendente dovrebbe essere posto in condizione di conoscere - perfettamente ed integralmente - le regole del gioco (o meglio, del confronto). In questo contesto non avrebbe senso, o almeno non sarebbe corretto, presentarsi in sede di negoziazione “nascondendo” alcune “carte” od omettendo taluni sostegni probatori od argomentativi, con l'intenzione di disvelarli soltanto nell'eventuale giudizio: per consentire, o convincere il proprio contraddittore dell'opportunità di non dar corso alla via giudiziale e di trovare un accordo parrebbe, invero, indispensabile fornirgli ogni elemento necessario ad utilmente determinarsi, nella piena consapevolezza del quadro litigioso che, altrimenti, si troverebbe ad affrontare in corso di causa.

Non è chiaro, però, come tale diritto alla riservatezza ed al contempo a conoscere integralmente tutti gli elementi di prova di cui la controparte potrebbe avvalersi in un futuro giudizio sia processualmente tutelato: alla violazione degli obblighi di lealtà e riservatezza il Legislatore riconduce solo una sanzione disciplinare, introdotta solo con la legge di conversione, con l'evidente fine di colmare un vuoto di tutela. In questo senso potrebbe essere opportuno prevedere, già nella convenzione di negoziazione, delle clausole penali in caso di violazione degli obblighi di lealtà e riservatezza.

L'accordo raggiunto a seguito della convenzione

Se alla scadenza del termine stabilito per la negoziazione le parti non raggiungono un accordo gli avvocati designati devono redigere e sottoscrivere una dichiarazione in cui si certifica il mancato successo della negoziazione.

Il testo di legge non prevede nessuna particolare formalità per la dichiarazione e la certificazione, la cui data di sottoscrizione, però, ai sensi dell'art. 8 diviene rilevante per stabilire il momento in cui decorrerà il nuovo termine di decadenza.

Ove invece la negoziazione abbia sortito gli effetti auspicati, l'accordo che compone la controversia (non necessariamente transattivo potendo benissimo consistere in un semplice riconoscimento della fondatezza delle ragioni altrui), sarà a contenuto naturalmente libero, con l'unico requisito formale della certificazione da parte degli avvocati dell'autografia delle firme (il che implica che lo stesso debba rivestire le forme di una scrittura privata autenticata) e della conformità dell'accordo alle norme imperative e all'ordine pubblico.

Rispettati questi due requisiti ai sensi del primo comma dell'art. 5 l'accordo di negoziazione costituisce immediatamente titolo esecutivo e per l'iscrizione dell'ipoteca giudiziale.

Solo nel caso in cui in seno all'accordo di negoziazione le parti concludano altri contratti o compiano altri atti soggetti a trascrizione (art. 2643 c.c.) il Legislatore subordina la loro trascrizione alla preventiva autentica da parte di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

In sede di conversione è stato, poi, aggiunto all'art. 5 il comma 2-bis che prevede che il testo dell'accordo debba essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell'art. 480, comma 2, c.p.c..

La ratio della sopra menzionata integrazione appare autoeloquente: poiché l'accordo acquista efficacia esecutiva senza la preventiva apposizione di alcuna formula esecutiva (e dunque senza il vaglio di alcun soggetto terzo), la controparte deve essere in grado di verificare il testo dell'accordo posto in esecuzione e che lo stesso possieda tutti i requisiti formali previsti dal D.L. n. 132/2014.

Tale verifica, a rigor di logica, dovrebbe essere posta in essere anche dall'ufficiale giudiziario il quale, ai sensi del secondo comma dell'art. 480 c.p.c , «prima della relazione di notificazione, deve certificare di avere riscontrato che la trascrizione corrisponde esattamente al titolo originale».

Infine, il comma 4 dell'art. 5 definisce illecito deontologico per l'avvocato impugnare un accordo alla cui redazione ha partecipato.

Con tale disposizione il Legislatore sembra negare definitività all'accordo raggiunto dalle parti, che potrà essere sempre oggetto di impugnazione, ma senza specificare innanzi a quali organi giurisdizionali possa essere impugnato ed in che termini.

Dalla dedotta efficacia esecutiva dell'accordo sembrerebbe che la sede naturale per discutere della validità formale dello stesso possa essere l'opposizione a precetto, in primis, e l'opposizione all'esecuzione: in tali casi il Giudice sarà chiamato a verificare la sussistenza di tutti i requisiti formali (tra cui la validità convenzione di negoziazione) per riconoscere l'efficacia esecutiva dell'accordo, nonché ad accertare la sussistenza di eventuali motivi di nullità (ad esempio la contrarietà a norme di ordine pubblico) od annullabilità (ad esempio vizi della volontà) dello stesso.

L'accordo, al pari di qualsiasi altra transazione, potrà sempre impugnato con un ordinario giudizio di cognizione per chiederne l'accertamento della nullità o l'annullamento.

L'art. 11 prevede infine un obbligo a carico dei difensori di trasmettere copia dell'accordo raggiunto in seguito alla stipula della convenzione al consiglio dell'Ordine del luogo ove si è concluso l'accordo, ovvero a quello a cui uno dei due avvocati è iscritto. Il Consiglio nazionale forense trasmetterà i dati cosi' raccolti al Ministero di Giustizia, affinché relazioni con cadenza biennale il Parlamento raffrontando i dati relativi alle negoziazioni assistite con quelli delle controversia iscritte a ruolo.

Alcune ulteriori questioni

La particolare materia della RCA, primo vero check point della nuova procedura, impone qualche ulteriore riflessione in ordine a tematiche strettamente legate alla peculiarità dell'azione diretta, con specifico riferimento al regime litisconsortile normativamente stabilito. È noto, infatti, come l'art. 144 Cod. Ass. preveda che nel giudizio promosso contro l'impresa di assicurazione (mediante esercizio dell'azione diretta) è chiamato anche il responsabile del danno (almeno nella procedura ordinaria di cui all'art. 148) . Vien dunque da chiedersi se, date le finalità che governano la negoziazione assistita e stante il rapporto di pregiudizialità procedurale tra quest'ultima ed il giudizio di cognizione, anche ilprocedimento conciliativo debba necessariamente ed imprescindibilmente svolgersi nei confronti del responsabile civile, oltre che dell'impresa assicuratrice.

Certo, pare evidente che lo svolgimento della negoziazione in assenza di uno dei litisconsorti necessari possa generare qualche intralcio nel corso del successivo giudizio; ciò ove il soggetto eventualmente pretermesso in sede conciliativa - ma poi regolarmente convenuto in giudizio - eccepisca entro la prima udienza (o, in suo luogo, lo faccia il giudice ex officio) l'improcedibilità della domanda svolta nei suoi confronti.

Ma al di là delle questioni di opportunità, non ci pare che la soluzione litisconsortile possa ritenersi veramente necessitata.

Non si comprende, d'altra parte, per quale motivo sarebbe irricevibile una domanda di negoziazione nei confronti della sola impresa assicuratrice: in tal caso l'impresa medesima si troverebbe a gestire la vertenza da sola, e in assenza del proprio assicurato, esattamente come in precedenza potrebbe/dovrebbe aver affrontato la procedura liquidativa stragiudiziale.

Semmai potrebbe considerarsi la più particolare tematica relativa allo specifico regime litisconsortile previsto dall'art. 140 Cod. Ass. in caso di potenziale supero del massimale di polizza (in caso di pluralità di danneggiati). Neppure in tali ipotesi, peraltro, può escludersi la possibilità che la negoziazione sia proposta da uno solo dei danneggiati nei confronti dell'impresa assicuratrice; in tal caso, naturalmente, l'oggetto della procedura potrebbe essere soltanto la ricognizione del potenziale debito risarcitorio nei confronti del danneggiato medesimo, ferma restando la necessità di rinviarne la successiva liquidazione (integrale o pro quota) nel concorso degli altri danneggiati. Qui, peraltro, l'incapienza del massimale e la potenziale esposizione in proprio del responsabile civile renderebbe quanto mai opportuna la partecipazione di quest'ultimo anche nella procedura di negoziazione, onde non rendere certamente improcedibile un'eventuale successiva domanda giudiziale volta ad ottenere - dal responsabile medesimo - il pagamento della parte di risarcimento non coperta dalla polizza.

I particolari incroci litisconsortili evocano, inoltre, la tematica afferente alla gestione del patto della lite, di matrice contrattuale e tipicamente regolata in tutte le polizze di rc auto: in forza della relativa clausola il responsabile/danneggiante/assicurato non dovrebbe, comunque, assumere in proprio la conduzione della negoziazione assistita, ove invitato in tal senso dal danneggiato.

Altre e più complesse suggestioni meritano di essere evocate richiamando tutti i casi in cui la controversia si connoti per l'esistenza di pretese contrapposte tra le parti, alcune rientranti nel regime dell'art. 3, D.L. n. 132/2014 ed altre invece assoggettate alla media conciliazione (si pensi all'incrocio tra una domanda di indennizzo diretto e la pretesa della compagnia di ottenere il pagamento del premio da parte del danneggiato/assicurato).

Questi ed altri spunti di approfondimento potranno essere oggetto di prossimi e successivi contributi che, anche su questa rivista, sapranno certamente scandagliare, alla luce dei primi dati esperienziali, le complessità tecnico giuridiche correlate allo sviluppo di un istituto che - adeguatamente inteso, sostenuto ed educato – potrebbe davvero portare un contributo di novità nel desolato panorama della conflittualità locale.

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