Tassazione dei proventi illeciti
02 Dicembre 2016
Sono il legale rappresentante di una società alla quale è stato notificato avviso di accertamento con cui l'Amministrazione Finanziaria ha ripreso a tassazione i finanziamenti erogati da un Istituto di Credito. Ciò sul presupposto che la Società avrebbe beneficiato, per averne la disponibilità, di finanziamenti illeciti; illiceità la quale deriverebbe dal fatto che, all'esito di indagini, sarebbe emerso che i funzionari dell'Istituto avrebbero commesso il reato di cui all'art. 137, comma 2°, T.U.B. La ripresa a tassazione è legittima e fondata?
La questione è alquanto complessa ed occorre procedere ad un corretto inquadramento normativo. Ai sensi dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537 del 1993, “nelle categorie di reddito di cui all'art. 6, comma 1, del TUIR, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”.
Tale norma non può essere interpretata isolatamente, poichè riceve il suo naturale completamento in quanto codificato nel comma 4-bis della medesima Legge (oggetto di novellazione nel corso degli anni). Il suddetto comma, così come modificato dall'art. 8, comma 3, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, dispone che “nella determinazione dei redditi di cui all'art. 6, comma 1, del TUIR, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo”.
Nella precedente formulazione (quella riconducibile all'art. 2, co. 8, Legge 27 dicembre 2002, n. 289) il comma 4-bis affermava che “nella determinazione dei redditi di cui all'art. 6, comma 1, del TUIR, di cui al d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l'esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti”.
Nonostante la riscrittura di parte del comma 4-bis dell'art. 14, è evidente ed indubbio come sussista una relazione di interdipendenza tra il predetto comma ed il comma 4. Entrambi, infatti, rinviano espressamente all'art. 6, comma 1, del TUIR, ai fini della “determinazione dei redditi”, riferendosi, altresì, per la loro operatività, al campo di atti o attività qualificabili come illecite.
Da tale interdipendenza deriva che i principi espressi dal diritto vivente (CTP Milano, sentenza n. 20 dell'8 febbraio 2013) e dalla prassi (Circolare dell'Agenzia delle Entrate n. 32/E del 3 agosto 2012) in riferimento al comma 4-bis dell'art. 14 della Legge de qua, trovino applicazione anche ai fini dell'esegesi del comma 4 dell'art. 14 della medesima Legge.
Tra tali principi rileva, ai fini della questione che ne occupa, quello secondo cui l'evidente carattere sanzionatorio del divieto di dedurre "i costi da reato", stabilito dall'art. 14, comma 4-bis, Legge n. 537/1993, implica che la fattispecie criminosa alla quale sono riconducibili i costi sia riferibile al soggetto passivo del tributo o, se si tratta di società, al suo legale rappresentante, ma non a terzi.
Pertanto, dalla lettura del combinato disposto del comma 4 e del comma 4-bis dell'art. 14 della Legge n. 537/1993, deriva che il provento da illecito e, quindi, la sua tassabilità sia configurabile solo e sempre nei confronti di chi ha commesso il reato (comma 4 dell'art. 14 della Legge citata), mentre l'indeducibilità del relativo costo rileva solo nei confronti di chi ha sostenuto tale onere per la commissione dell'illecito (comma 4-bis dell'art. 14 Legge citata). In altre parole, il precetto contenuto nel comma 4 dell'art. 14 della Legge de qua ha voluto “colpire”, sotto il profilo fiscale, quei soggetti che, ponendo in essere comportamenti/attività contra ius, ritraggono dagli stessi illeciti profitti; non certo, invece, il predetto precetto si riferisce a quei soggetti (quale, nella specie, la Società) che, anche indirettamente, vengono raggiunti negli effetti da tali attività illecite ma che non sono essi stessi autori di tali attività.
Conferma la correttezza di tale interpretazione (da ritenersi, comunque, assolutamente pacifica), la circostanza che il comma 4 prevede, alla fine del primo periodo, l'esclusione dalla tassabilità per quei proventi illeciti già sottoposti a sequestro o confisca penale; per essere sottoposti a sequestro o confisca penale i proventi devono essere riferibili, ovviamente, a chi ha commesso il reato/l'illecito e da ciò ne deriva la necessaria coincidenza soggettiva tra chi subisce la tassazione del provento illecito e chi ha commesso il reato.
L'uscita (coattivamente o spontaneamente mediante restituzione) del provento illecito dalla sfera giuridica dell'autore del reato determina l'intassabilità oggettiva di tale provento quale ricavo, per il fatto che non vi è stato alcun incremento patrimoniale in capo all'autore dell'illecito, incremento da intendersi, altresì, come disponibilità materiale e come effettiva possibilità di fruizione dello stesso.
Delineato il quadro normativo, non resta che da esaminare la fattispecie che ne occupa. In primis, è evidente come il reato di cui all'art. 137, comma 2, T.U.B. (c.d. “falso interno”) sia un reato proprio: “Salvo che il fatto costituisca reato più grave, chi svolge funzioni di amministrazione o di direzione presso una banca o un intermediario finanziario nonché i dipendenti di banche o intermediari finanziari che, al fine di concedere o far concedere credito ovvero di mutare le condizioni alle quali il credito venne prima concesso ovvero di evitare la revoca del credito concesso, consapevolmente omettono di segnalare dati o notizie di cui sono a conoscenza o utilizzano nella fase istruttoria notizie o dati falsi sulla costituzione o sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del richiedente il fido, sono puniti con l'arresto da sei mesi a tre anni e con l'ammenda fino a euro 10.329”.
Ciò significa che lo stesso possa essere compiuto solo dai funzionari che hanno curato l'istruttoria del fido concesso. Viene a mancare, pertanto, quell'identificazione soggettiva tra soggetto che ha commesso l'illecito ed il soggetto che ha beneficiato dei proventi dell'attività delittuosa.
Nel caso di specie l'Agenzia, infatti, ha configurato la tassazione di un provento non in capo al soggetto che ha commesso l'illecito (il funzionario/dipendente dell'Istituto di Credito), bensì nei confronti di un soggetto (la Società) che tale illecito non ha commesso, qualificando in maniera assolutamente distorta come provento non il frutto dell'illecito, bensì una somma di denaro incassata a titolo di finanziamento, di cui la Società ha, tra l'altro, l'obbligo di restituzione. Inoltre, non bisogna trascurare di considerare che non risulta essersi verificato, in capo alla Società, alcun arricchimento patrimoniale (id est, beneficio), contrariamente a quanto asserito dall'Agenzia. Infatti, le erogazioni effettuate dall'Istituto di Credito nei confronti della Società sono avvenute in virtù dello schema giuridico dell'apertura di credito, la cui disciplina la si rinviene negli artt. 1842 - 1845 c.c.. L'art. 1842 c.c. dispone che “l'apertura di credito bancario è il contratto col quale la banca si obbliga a tenere a disposizione dell'altra parte una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato”.
Sulla base del contratto de quo, quindi, il soggetto accreditante (nella specie, l'Istituto di Credito) ha trasferito, in capo al soggetto accreditato (nella specie, la Società), la disponibilità della somma di denaro; sul soggetto fruitore della somma (nel caso de quo, la Società) grava l'obbligo di restituzione della stessa maggiorata, oltretutto, degli interessi. Posti questi brevi ma esaustivi tratti della figura contrattuale in esame, è evidente, quindi, come la fattispecie de qua non possa essere ricondotta nell'alveo applicativo dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1992, in quanto l'erogazione delle somme, da parte di Banca delle Marche in favore della Società è avvenuta a titolo provvisorio, per essere (tali somme, oltretutto maggiorate degli interessi) destinate ad essere restituite all'Istituto di Credito in virtù del rapporto contrattuale di apertura di credito intercorrente tra tale Istituto e la Società.
Da quanto sin qui esposto, deriva come la connotazione provvisoria della disponibilità delle somme in capo alla Società (provvisorietà data dall'obbligo, assunto contrattualmente, di restituzione delle stesse) sia incompatibile con la ratio alla base dell'art. 14, comma 4, della Legge più volte citata, che si rinviene, come già supra argomentato, nella volontà legislativa di colpire, tramite la sottoposizione a tassazione, quei soggetti che dal compimento dell'illecito hanno conseguito un incremento della propria sfera patrimoniale a titolo definitivo.
Pertanto, non avendo la Società disponibilità di tali somme a titolo definitivo, l'applicazione, da parte dell'Agenzia, dell'art. 14, comma 4, della Legge n. 537/1993, è illegittima ed infondata per assenza del presupposto oggettivo della norma. Sebbene la questione sia, come illustrato, giuridicamente complessa, sussistono, comunque, tutti i presupposti per procedere ad una contestazione delle risultanze dell'avviso di accertamento.
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