I limiti della presunzione di società di fatto ai fini accertativi

04 Ottobre 2016

La Corte di Cassazione ha chiarito le condizioni perché l'Amministrazione finanziaria possa, legittimamente, attribuire ad una società di fatto l'imponibile accertato in capo a un soggetto giuridico diverso (ad esempio una ditta individuale). La presunzione prevista dall'art. 5 del TUIR, infatti, non esime gli uffici dal dimostrare, con elementi di fatto desunti dai rapporti intrattenuti con i terzi, che in questi si fosse ingenerata la convinzione di operare, appunto, con un organismo societario di fatto, nonostante l'apparenza giuridica diversa.
Premessa

La possibilità che l'Agenzia delle Entrate, in fase accertativa e, prima ancora, durante un controllo, ipotizzi l'esistenza di una società di fatto laddove, invece, vi sia solo una ditta individuale o, comunque, altra forma giuridica, rappresenta un'eventualità non infrequente nella pratica professionale; non capita di rado, infatti, che una verifica avviata nei confronti di un soggetto non societario sfoci, appunto, nella presunzione di una società di fatto tra collaboratori ovvero familiari, in capo ai quali viene ripartito il maggior reddito accertato.

Questa della società di fatto tra familiari, peraltro, costituisce l'ipotesi di maggiore interesse, anche alla luce delle stringenti restrizioni probatorie che la giurisprudenza di legittimità, formatasi negli ultimi anni, ha imposto all'organo accertatore.

La problematica: l'inquadramento normativo e la giurisprudenza delle Sezioni Unite

Dal punto di vista normativo, l'art. 2247 del c.c. come società il contratto con il quale due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili.

Ai fini fiscali, la società di fatto, in materia di imposte dirette, è regolata dall'art. 5, terzo comma, del TUIR (d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), il quale prevede, appunto, che le società di fatto sono equiparate alle società in nome collettivo o alle società semplici a seconda che abbiano, o meno, per oggetto l'esercizio di attività commerciali.

In sede accertativa, dunque, all'Agenzia delle Entrate è concessa la possibilità di presumere, stanti gli esiti della verifica, che in luogo di altra forma giuridica esista una società di fatto tra soggetti tra di loro legati da rapporti di parentela, ovvero collaborazione.

Le conseguenze, sul piano pratico, di tale presunzione sono evidenti: il maggior reddito eventualmente accertato, ad esempio a carico di una ditta individuale, verrebbe, infatti, ripartito tra i presunti soci di fatto, in quote evidentemente uguali in ragione della partecipazione, che si presume paritaria, al capitale sociale.

Essendo questo il perimetro del problema, la giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite, ha precisato che, al fine di presumere l'esistenza di una società di fatto, non è sufficiente una mera elencazione di fatti aziendali ritenuti indicatori del vincolo societario, ma occorre, al contrario, che l'Amministrazione finanziaria dimostri che i presunti soci operassero all'esterno in modo da ingenerare nei terzi, in primis evidentemente nei propri clienti e fornitori, la convinzione che esistesse, appunto, di una società tra essi.

Si tratta, in sostanza, di un accertamento condotto non già "all'interno" del soggetto verificato, con cui si guardi ai fatti aziendali nella loro staticità, bensì rivolto "all'esterno" di esso, al fine di suffragare la tesi della società con l'ausilio di prove e presunzioni desunte dai soggetti terzi con i quali erano intrattenute le relazioni commerciali.

Di tanto, come detto, trovasi conferma nella giurisprudenza, anche recente, della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, le quali hanno, appunto, evidenziato che “per poter considerare esistente una società di fatto, agli effetti della responsabilità delle persone o dell'ente (...) non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento, da parte dei soci, tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci" (sentenza 6 febbraio 2015, n. 2243).

Anche di recente, la Sezione tributaria, sulla scorta di tale principio, ha evidenziato che "la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l'accertamento "aliunde", mediante ogni mezzo di prova previsto dall'ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell'esistenza di una struttura societaria, all'esito di una rigorosa valutazione (quanto ai rapporti tra soci) del complesso delle circostanze idonee a rivelare l'esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all'esercizio congiunto di un'attività economica, l'alea comune dei guadagni e delle perdite e l' "affectio societatis", cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi. Peraltro, è sufficiente a far sorgere la responsabilità solidale dei soci, ai sensi dell'art. 2297 c.c., l'esteriorizzazione del vincolo sociale, ossia l'idoneità della condotta complessiva di taluno dei soci ad ingenerare all'esterno il ragionevole affidamento circa l'esistenza della società" (sentenza 5 maggio 2016, n. 8981).

Sempre la Corte, in precedenza, aveva sottolineato che "il positivo accertamento dell'effettiva costituzione di una società di fatto [avviene] attraverso l'esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all'impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del "nomen" della società o quanto meno l'esteriorizzazione del vincolo sociale, l'assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all'esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell'impresa familiare, né l'eventuale condivisione degli utili, trattandosi d'indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla "affectio societatis" "(sez. I, Sentenza n. 14580 del 16 giugno 2010)" (sentenza 11 giugno - 5 luglio 2013, n. 16829).

Trattasi, dunque, di una dimostrazione che sia in grado di provare come i terzi, operanti con il soggetto accertato, fossero – appunto – convinti di avere rapporti con una compagine societaria di fatto.

Si tratta, in definitiva, di una prova che non può limitarsi all'elencazione di meri elementi interni all'attività verificata, ma che necessita di un quid pluris, rappresentato dal riscontro effettuato presso i terzi, che confermino il proprio convincimento di aver avuto rapporti con una società.

Il vincolo familiare

Come anticipato, la Corte di Cassazione ha reso ancor più stringente l'onere probatorio posto a carico dell'Amministrazione finanziaria che intenda procedere nei confronti di una società di fatto, laddove i presunti soci siano legati, tra di loro, da vincoli di parentela.

In questo caso, infatti, i giudici di legittimità precisano l'ulteriore condizione rappresentata dalla dimostrazione dell'esistenza di rapporti giuridici imperniati non sulla mera affectio familiaris, bensì, appunto, sull'affectio societatis.

Quest'ultima è rappresentata da un quid pluris rispetto al semplice vincolo familiare, che si presume sussistere in ogni caso quando a collaborare siano soggetti legati, tra loro, da vincoli di parentela, che si aiutino reciprocamente; l'affectio societatis, dunque, va oltre la naturale cointeressenza e collaborazione tra parenti, costituendo la volontà comune di fare impresa, dunque di porre in essere un'attività economica con la finalità di produrre utili, basata, perciò, su presupposti e finalità indipendenti dal legame di sangue.

Anche a riguardo, infatti, la Suprema Corte ha evidenziato che "in caso di società di fatto (che si assuma) intercorrente fra consanguinei, la prova della esteriorizzazione del vincolo deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi su elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l'intervento del familiare possa essere motivato dalla "affectio familiaris", sicché, di regola, non è di per sé sufficiente la dimostrazione di finanziamenti e/o pagamenti ai creditori dell'impresa da parte del congiunto dell'imprenditore, costituendo questi atti neutri, spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (sez. I, sentenza n. 6770 del 26 luglio 1996)" (sentenza n. 16829/2013, cit.).

Pertanto, non è sufficiente che l'Ufficio accertatore si limiti a presumere l'esistenza di una società di fatto sulla sola base di elementi interni all'attività verificata, ma, viceversa, occorre dimostrare che nei terzi si sia ingenerato il convincimento che si trattasse, appunto, di una compagine societaria, arricchita dei connotati dell'affectio societatis in aggiunta rispetto a quelli della semplice affectio familiaris.

In conclusione

Il riparto dell'onere probatorio

È di fondamentale importanza ricordare che nessuna inversione legale dell'onere della prova è prevista nell'ipotesi come quella in esame, in cui, cioè, l'Amministrazione finanziaria abbia presunto l'esistenza di una società di fatto, in genere nel contesto generale della metodologia analitito-induttiva prevista dall'art. 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Invero, a differenza di altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto, espressamente, tale inversione a carico del contribuente (si pensi all'art. 32 del medesimo decreto, in tema di indagini finanziarie), nel caso di specie valgono le regole generali previste dall'art. 2697 del c.c., a mente del quale “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

Ne deriva, pertanto, che incombe sempre sull'Ufficio, attore in senso sostanziale della pretesa, l'onere di provarne i presupposti, sia di fatto che giuridici.

A tal fine, dunque, non è sufficiente addurre valutazioni sfornite della valenza "esterna" di cui si è detto, eventualmente consistenti nel mero rimando a un p.v.c. che sia stato redatto avendo riguardo alla sola attività verificata.

Così facendo, infatti, l'Ufficio ometterebbe di fornire la prova su di esso incombente, ai sensi e per gli effetti delle disposizioni in materia.

Tale illegittimo operato, peraltro, rileverebbe anche sotto il profilo presuntivo, dal momento che le norme in esame impongono all'ufficio di procedere ad accertamento sulla base di presunzioni dotate dei requisiti della gravità, precisione e concordanza che, per le stesse ragioni, risulterebbero assenti.

Verrebbe, così, disatteso l'insegnamento della Cassazione che ha sancito il principio secondo cui grava sull'autorità amministrativa procedente, che ritenga di vantare un credito d'imposta, l'onere di provare i presupposti del proprio diritto, secondo la regola generale dettata dall'art. 2697 c.c.: “non può esservi dubbio che l'Amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente sia tenuta a fornire, secondo le regole generali, la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa” (Cass. civ., n. 13665/2001, n. 13180/2000).

Infatti, il contribuente, che agisca in giudizio per contestare la congruità della motivazione dell'atto impositivo, pone, per ciò stesso, in discussione la sussistenza della pretesa tributaria fatta valere dall'amministrazione, contestando, così, l'esistenza di valide giustificazioni poste a fondamento dell'accertamento a lui notificato.

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