Tutela del contribuente di fronte al silenzio inadempimento dell'A. F. in sede di autotutela

05 Luglio 2017

La possibilità di riesaminare il proprio operato da parte dell'Amministrazione Finanziaria si risolve nell'esercizio del potere di autotutela, la cui delineazione dei confini applicativi costituisce, da sempre, fertile terreno esegetico.Aspetto che merita particolare attenzione è quello relativo ai rimedi approntati dall'ordinamento nel caso in cui l'Amministrazione Finanziaria non esamini l'istanza proposta dal contribuente tematica, questa, la quale presuppone il corretto inquadramento, in termini di discrezionalità o doverosità, di tale potere che sussiste in capo all'Ufficio.Avuta considerazione di ciò, nel presente contributo si cercherà di stabilire se, in linea di principio, il contribuente possa instaurare giudizio avverso il silenzio-inadempimento dell'Amministrazione Finanziaria e se questa ultima possa essere tenuta responsabile ai sensi dell'art. 2043 c.c. per il mancato o ritardato annullamento di un atto illegittimo ove tale comportamento abbia arrecato danno al contribuente.
Caratteristiche generali dell'istituto

L'istituto dell'autotutela tributaria è disciplinato, nel nostro ordinamento, dall'art. 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564 e dal D.M. 11 febbraio 1997, n. 37.

La suddetta normativa ha riconosciuto la possibilità, in capo all'Amministrazione Finanziaria, di procedere, in tutto o in parte, all'annullamento o alla rinuncia all'imposizione in caso di autoaccertamento, anche senza istanza di parte (la quale, comunque, non è preclusa, avuta considerazione del disposto dell'art. 5 del D.M. n. 37 del 1997) ed anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, nei casi in cui sussista l'illegittimità o l'infondatezza del provvedimento impositivo (art. 1, comma 1°, D.M. 11 febbraio 1997, n. 37).

La norma regolamentare ha, pertanto, riconosciuto all'Amministrazione Finanziaria il potere di riesaminare il proprio modus procedendi, riesercitando il potere impositivo attraverso l'emanazione di un nuovo provvedimento (c.d. contrarius actus) privo dei vizi che avevano inficiato il precedente.

L'art. 2-quater, comma 1°, D.L. 30 settembre 1994, n. 546, si riferisce, oltre al potere di “annullamento” anche a quello di “revoca”.

Tuttavia, tale ultimo riferimento sembrerebbe essere improprio e non confacente all'istituto in esame.

Il potere di revoca interviene, infatti, su un provvedimento a contenuto discrezionale, quale risultato di una ponderazione degli interessi in gioco.

Per le ragioni che verranno di seguito esposte (§ 2), l'esercizio del potere di autotutela in ambito tributario è privo di profili discrezionali, risolvendosi esclusivamente nell'esame della sussistenza delle patologie riscontrate ad una prima sommaria delibazione, al fine di porre rimedio alla violazione dei principi costituzionali sul corretto riparto fiscale; ne discende, pertanto, come l'istituto dell'autotutela non possa risolversi in quello di revoca (sul punto, M. Basilavecchia, La rinnovazione dell'avviso di accertamento nelle imposte sui redditi e nell'imposta sul valore aggiunto, in Rass. trib., n. 1/1989), sicchè tale previsione deve ritenersi, sul punto, priva di ogni e qualsivoglia concreta applicazione.

Gli unici poteri che, quindi, l'Amministrazione Finanziaria può esercitare in sede di autotutela sono quelli di annullamento e di rinuncia all'imposizione, nei casi in cui sussista l'illegittimità dell'atto o dell'imposizione, che si manifesta, tra l'altro, ai sensi dell'art. 2, comma 1°, del D.M. 11 febbraio 1997, nei seguenti casi:

a) errore di persona;

b) evidente errore logico o di calcolo;

c) errore sul presupposto dell'imposta;

d) doppia imposizione;

e) mancata considerazione di pagamenti di imposta, regolarmente eseguiti;

f) mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini di decadenza;

g) sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati;

h) errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall'Amministrazione Finanziaria.

Tale elencazione è da considerare meramente esemplificativa e non tassativa (come si ricava dall'espressione “tra l'altro” utilizzata nell'art. 2, comma 2°, del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37); le fattispecie ivi menzionate sono tutte accomunate dal fatto che riguardano vizi i quali incidono sull'an e sul quantum dell'imposizione.

Seppur sia vero che, attraverso il potere di autotutela l'Amministrazione Finanziaria miri a realizzare un'imposizione conforme alla capacità contributiva costituzionalmente tutelata (art. 53; funditus, § 2 del presente scritto), è altrettanto vero che il riferimento, operato dalla previsione regolamentare (art. 2 del D.M. n. 37/1997) alla “illegittimità dell'atto” accanto a quella della “imposizione”, sembrerebbe lasciare intendere che le patologie legittimanti il potere di autotutela possano risolversi anche in quelle che attengono ad aspetti formali e/o procedurali (es: mancanza di motivazione dell'atto; difetto di sottoscrizione), pur in presenza di una pretesa impositiva sostanzialmente conforme alle prescrizioni legali.

Come evidenziato, la norma regolamentare (art. 2, comma , D.M. 11 febbraio 1997, n. 37) fa rientrare (con previsione che suscita perplessità, per le ragioni di seguito esposte) nel potere di autotutela anche quello di “rinuncia all'imposizione” istituto, questo ultimo, caratterizzato da tratti differenti rispetto a quello dell'autotutela.

In effetti, mentre l'autotutela interviene su di un provvedimento, nel caso di rinuncia all'imposizione non vi è ancora l'atto impositivo, sicchè “non si avrà l'eliminazione di alcun atto, ma solo il mancato esercizio del potere impositivo in una delle sue molteplici forme” (V. Ficari, Autotutela (dir. trib.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, vol. I, Milano, 2006).

Avuta considerazione del fatto che la norma (art. 2, comma 1°, D.M. 11 febbraio 1997, n. 37) collega la “rinuncia all'imposizione” all' “autoaccertamento”, ne deriva che la rinuncia all'imposizione è il risultato a cui l'Ufficio perviene a seguito dell'attività di verifica della dichiarazione presentata dal contribuente, atto con cui lo stesso si “autoaccerta”.

Tale interpretazione risulta avvalorata da alcune delle fattispecie contenute nell'elencazione di cui all'art. 2, comma 1°, del citato D.M. quali, nella specie, l'“evidente errore logico o di calcolo” (lettera b), l' “errore sul presupposto dell'imposta” (lettera c), la “mancata considerazione di pagamenti di imposta, regolarmente eseguiti” (lettera e), la “sussistenza dei requisiti per fruire di deduzioni, detrazioni o regimi agevolativi, precedentemente negati” (lettera g) e l' “errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall'amministrazione” (lettera h).

Il potere di autotutela (latamente inteso, nella duplice veste di annullamento e di rinuncia all'imposizione) non può essere esercitato senza limiti.

L'art. 2, comma 2°, del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, dispone che “non si procede all'annullamento d'ufficio, o alla rinuncia all'imposizione in caso di autoaccertamento, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato favorevole all'Amministrazione Finanziaria”.

La circostanza che il giudicato debba essere favorevole all'Amministrazione Finanziaria, id est che deve avere rigettato le censure del contribuente, è facilmente comprensibile: infatti, “ove il giudicato fosse favorevole al contribuente, verrebbe a mancare l'oggetto stesso dell'annullamento per essere stato l'atto eliminato ope iudicis dalla pronuncia di accoglimento del ricorso” (G. Fransoni, Giudicato tributario e attività dell'amministrazione finanziaria, Milano, 2001).

Deve evidenziarsi che non qualsiasi giudicato impedisce il riesame in autotutela; come illustrato nella stessa Relazione Ministeriale al D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, affinchè la preclusione possa operare è necessario che il giudice si sia pronunciato sulla fondatezza sostanziale della pretesa del contribuente, potendo, al contrario, l'annullamento d'ufficio essere consentito nell'ipotesi in cui il ricorso sia stato dichiarato inammissibile o sia stato respinto per motivi non di merito.

Inoltre, l'oggetto del giudicato va identificato con i soli motivi di impugnazione, esaminati dal giudice e ritenuti infondati.

Ne consegue, logicamente, come nel caso di sentenza di merito, ma parziale, per avere deciso solo alcuni punti, su quelli non coperti dalla statuizione e, quindi, dal giudicato, sia possibile esperire il rimedio dell'autotutela.

Sul fronte degli effetti che conseguono all'annullamento in via di autotutela, sovvengono i chiarimenti forniti dalla stessa Agenzia delle Entrate nella Circolare 5 agosto 1998, n. 198, laddove viene affermato che “l'annullamento dell'atto, da qualunque organo sia stato disposto, travolge necessariamente e automaticamente tutti gli altri atti a esso consequenziali (ad esempio, il ritiro di un avviso di accertamento determina, automaticamente, la nullità delle cartelle di pagamento emesse in base all'avviso stesso) e comporta l'obbligo di restituzione delle somme indebitamente riscosse. Sarebbe, infatti, del tutto contraddittorio che l'amministrazione annullasse un atto in quanto lo riconosce illegittimo e infondato, e poi lasciasse che le procedure di riscossione proseguano indisturbate ovvero trattenesse le somme riscosse in forza di esso”.

All'annullamento dell'atto segue l'emissione di un nuovo provvedimento impositivo emendato dai vizi che avevano inficiato il precedente (principio di perennità della potestà amministrativa), rinnovazione che è possibile quando:

a) l'atto originario sia annullato;

b) non sia decorso il termine di decadenza;

c) non costituisca elusione del giudicato.

In evidenza

Cass. civ., sez. trib., sent. 20 novembre 2006, n. 24620: : “Il potere dell'Amministrazione di procedere alla sostituzione dei propri atti in via di autotutela, a sostegno della pretesa alla realizzazione del credito d'imposta, deve essere esercitato entro il termine accordato per il compimento dell'atto sostituito e senza lesione dei principi che regolano il contraddittorio processuale (è perciò precluso da un eventuale giudicato formatosi sul rapporto tributario controverso).

Inoltre, occorre la riconosciuta presenza di una causa di nullità formale dell'atto sostituito (nel caso di specie per omessa indicazione delle aliquote d'imposta), che deve essere preventivamente annullato, posto che in caso contrario si incorrerebbe in una violazione dell'art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che consente modificazioni dell'avviso di accertamento soltanto in caso di sopravvenienza di nuovi elementi di conoscenza da parte dell'Ufficio”.

Appare evidente come la potestà sostitutiva non possa risolversi in quella integrativa, in quanto il potere di accertamento integrativo ha per presupposto un atto (l'avviso di accertamento originariamente adottato) che continua ad esistere e non viene sostituito dal nuovo avviso di accertamento il quale, nella ricorrenza della conoscenza di nuovi elementi da parte dell'ufficio, integra e modifica l'oggetto ed il contenuto del primitivo atto cooperando all'integrale determinazione progressiva dell'oggetto dell'imposta. Ciascun atto conserva, quindi, la propria autonoma esistenza ed efficacia, con tutte le conseguenze che ne derivano anche in tema di impugnazione.

L'atto di autotutela, invece, assume ad oggetto un precedente atto di accertamento che è illegittimo ed al quale si sostituisce con innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell'atto, costituiti dai destinatari, dall'oggetto e dal contenuto e può condurre alla mera eliminazione dal mondo giuridico, del precedente o alla sua eliminazione ed alla sua contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato (Cass., civ., sez. trib., sent. 22 giugno 2007, n. 14637).

In evidenza:
Cass. civ., sez. trib., sent. 7 novembre 2005, n. 21567: “L'art. 43, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 disciplina solo le integrazioni o modificazioni dell'accertamento tributario che comportino una maggior pretesa fiscale, imponendo che negli avvisi integrativi siano specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell'ufficio delle imposte. Invece, la modificazione in diminuzione della pretesa fiscale, non integrando una "nuova" pretesa tributaria, ma soltanto una pretesa "minore", non necessita di una forma o di una motivazione particolari, né di uno specifico "avviso" notificato al contribuente”.

Sulla natura giuridica del potere di autotutela

Il riesame in autotutela può avvenire, secondo la normativa regolamentare, o ex officio (art. 2, comma 1°, D.M. 11 febbraio 1997, n. 37), oppure su richiesta del contribuente (art. 2, comma 1° ed art. 5 del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37).

A prescindere dalle predette modalità di avvio del procedimento, un ruolo centrale nella trattazione dell'istituto in esame è rivestito dall'individuazione della natura giuridica del potere di autotutela; in altre parole, ci si interroga se vi sia o meno un dovere di agire in capo all'Amministrazione Finanziaria.

Al fine di trovare una soluzione a tale interrogativo sembrerebbe opportuno rifarsi ai principi di cui alla Carta Costituzionale (artt. 23, 53 e 97) che regolano l'attività impositiva, la quale deve essere informata ad una tassazione giusta ed imparziale.

In evidenza:
Circolare del Ministero delle Finanze, 8 luglio 1997, n. 195/E, la quale afferma come il riesame in autotutela si basi proprio sull'interesse al ripristino della legalità tributaria, interesse che “in campo tributario sussiste certamente quando consista nella necessità di assicurare che il contribuente sia destinatario di una tassazione in misura giusta e conforme alle regole dell'ordinamento e di soddisfare l'esigenza di eliminare per tempo un contenzioso inutile ed oneroso”.

L'ordinamento conferisce, quindi, rilevanza alla “giusta imposizione”, la quale sembrerebbe di per sé sola sufficiente a giustificare il ritiro in autotutela del provvedimento interessato, senza che venga in gioco alcuna comparazione degli interessi (come accade, invece, nel diritto amministrativo).

In evidenza:
Autorevole Dottrina (F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2009) ha affermato che nel diritto tributario, “non essendovi discrezionalità, l'esercizio dei poteri di autotutela non presuppone valutazioni di convenienza: il ritiro o la correzione di un atto viziato vanno compiuti in applicazione della regola della buona fede, cui deve attenersi l'Amministrazione; la correzione presuppone dunque il vizio e null'altro; ossia è giustificata soltanto dal dovere di ogni pubblica Amministrazione di ripristinare la legalità”.

Pertanto, il riesame in autotutela da parte dell'Amministrazione Finanziaria si configura quale attività doverosa, finalizzata alla determinazione dell'imposta secondo le prescrizioni legislative nel rispetto del principio di capacità contributiva, sicchè ogni qualvolta, ad una prima sommaria delibazione, venga rilevata una patologia che potrebbe, prima facie, inficiare la corretta determinazione dell'obbligazione impositiva, l'Ufficio non avrebbe alcuna discrezionalità a procedere o meno alla valutazione ed all'esame del provvedimento.

Tale conclusione non risulta sconfessata da quanto previsto dall'art. 2, comma 1°, del D.M. 11 febbraio 1997, n. 37, a tenore del quale “l'Amministrazione Finanziaria può procedere all'annullamento”, in quanto tale disposizione non codifica in alcun modo il profilo della discrezionalità, la quale non può configurarsi né al momento dell'avvio del procedimento (per le ragioni supra esposte), né in fase istruttoria (contra, K. Scarpa, L'autotutela tributaria, in Riv. dir. trib., 2001, I, pag. 481).

Nella fase istruttoria si esplica l'attività valutativa dell'Ufficio la quale, ove si traduca nel riscontro della sussistenza della patologia denunciata o riscontrata, fa sì che lo stesso sia obbligato ad emanare il provvedimento sostitutivo di quello inizialmente viziato (attività vincolata), avendo discrezionalità solo nella determinazione del contenuto dell'atto.

Tutela del contribuente avverso il silenzio – inadempimento dell'Ufficio sull'istanza di autotutela

Avuta considerazione della doverosità, in capo all'Ufficio, di procedere al riesame della richiesta di autotutela presentata dal contribuente, occorre comprendere se, a seguito del mancato esercizio di tale potere, l'ordinamento appresti degli strumenti a tutela del contribuente.

Si tratta dell'ipotesi del silenzio- inadempimento, fatto giuridico privo di natura provvedimentale il quale, proprio in virtù di tale connotazione, sembrerebbe non poter essere riconducibile nel catalogo degli atti di cui all'art. 19, comma , D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Tuttavia, non si può trascurare di considerare che il suddetto articolo prevede l'impugnabilità del rifiuto tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti (lettera g), fattispecie, quella appena menzionata in cui, così come accade nel caso di silenzio- inadempimento a seguito di istanza di autotutela, difetta un provvedimento espresso impugnabile.

Pertanto, avuta considerazione del fatto che il silenzio- inadempimento comporta, comunque, una lesione immediata e diretta della sfera giuridica del contribuente, la quale concretizza l'interesse a ricorrere ai sensi dell'art. 100 c.p.c.. tale contegno potrebbe costituire oggetto di ricorso (da proporre trascorsi i novanta giorni che sono riconosciuti all'Amministrazione Finanziaria per concludere il procedimento in esame).

Si pensi, esemplificativamente, di un avviso di accertamento in relazione al quale, proposta la domanda di autotutela, non seguita da alcun riscontro da parte dell'Amministrazione Finanziaria, venga notificata intimazione di pagamento; avuta considerazione del fatto che l'intimazione può essere impugnata solo per vizi propri, è evidente, quindi, la lesione della sfera giuridica del contribuente, in particolare laddove lo stesso abbia lasciato altresì trascorrere i tempi per presentare ricorso. Le proposizione dell'istanza di autotutela non sospende, infatti, i termini per l'instaurazione del giudizio; pertanto, in tal caso sarebbe preferibile sia azionare il rimedio dell'autotutela, sia agire in giudizio.

Pertanto, non sembrerebbe che possano esserci ostacoli di sorta per ritenere direttamente impugnabile, innanzi al giudice tributario, un fatto giuridico, quale il silenzio –inadempimento, facendo valere l'illegittimità di tale contegno.

Autorevole Dottrina (F. Tesauro, Riesame degli atti impositivi e tutela del contribuente, in Profili autoritativi e consensuali del diritto tributario, a cura di S. La Rosa, Milano, 2008; T. Tassani, L'annullamento d'ufficio dell'amministrazione finanziaria tra teoria ed applicazione pratica, in Rass. trib., 1999, I) ha, tuttavia, fornito un'interpretazione differente, facendo leva sull'art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, il quale prevede espressamente che sono devolute alla giurisdizione tributaria “tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie”.

Tale articolo costituisce per tale Autorevole Dottrina referente normativo per poter ammettere un'impugnazione differita di tale silenzio, da far valere proponendo gravame avverso l'atto successivamente emanato, il quale sarebbe da considerare illegittimo in quanto emesso a seguito del mancato esercizio del potere-dovere di autotutela.

Sia che si ritenga il silenzio-inadempimento impugnabile direttamente, sia che si accolga la tesi dell'impugnazione differita, il giudice tributario sarà chiamato ad accertare la violazione dell'obbligo, da parte dell'Amministrazione, di pronunciarsi sull'istanza di autotutela, valutazione che comprende, inevitabilmente, anche l'esame della fondatezza dell'istanza presentata dal contribuente su cui si è formato il silenzio dell'Ufficio, avuta considerazione del fatto che il potere dell'Amministrazione Finanziaria si risolve nell'attuazione doverosa del corretto rapporto impositivo.

Ciò non comporta, tuttavia, che il giudice tributario possa annullare l'atto impositivo stabilendo il contenuto che avrebbe dovuto assumere il provvedimento di autotutela, in quanto tale effetto il contribuente lo ottiene solo impugnando il suddetto atto entro i termini posti dalla legge.

L'unica pronuncia che il giudice tributario potrà emettere sarà di condanna dell'Ufficio all'emissione di un provvedimento (positivo o negativo che sia) di autotutela.

Tutela risarcitoria avverso il silenzio-inadempimento alla richiesta di autotutela

Oltre all'impugnazione del fatto giuridico costituito dal silenzio inadempimento dell'Amministrazione o dell'atto ad esso successivo, il contribuente potrebbe anche richiedere il risarcimento dei danni eventualmente subiti in conseguenza di tale contegno dell'Ufficio.

A tal fine occorre che sussistano gli elementi costitutivi dell'illecito, ai sensi dell'art. 2043 c.c., vale a dire la condotta, l'evento, il danno ingiusto ed il nesso eziologico.

Come notorio, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza 22 luglio 1999, n. 500 hanno statuito (operando una vera e propria rivoluzione copernicana rispetto al precedente orientamento) che la tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. deve essere assicurata non solo a seguito della lesione di un diritto soggettivo, ma anche di un interesse legittimo.

Sulla scorta di tale pronuncia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto la responsabilità aquiliana anche in conseguenza del comportamento illegittimo posto in essere dall'Amministrazione Finanziaria.

In evidenza:

Cass. civ., ss.uu., 15 ottobre 1999, n. 722: “L'attività della P.A., anche nel campo tributario, deve svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dalla norma primaria del neminem ledere, per cui è consentito al giudice ordinario - al quale è pur sempre vietato stabilire se il potere discrezionale sia stato, o meno, opportunamente esercitato - accertare se vi sia stato da parte della stessa amministrazione un comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo; infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, dettati dall'art. 97 Cost., la Pubblica Amministrazione è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall'art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua sua attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario”.

Pertanto, nel caso di comportamento contra ius dell'Amministrazione Finanziaria, il sindacato giurisdizionale si risolve nell'accertare se l'atto emanato dalla predetta non solo sia illegittimo, ma anche che lo stesso sia il risultato quantomeno di una condotta colposa.

Relativamente a tale ultimo aspetto soggettivo, viene in gioco la riferibilità all'apparato pubblico della condotta lesiva posta in essere dal funzionario persona fisica.

In evidenza:
Cass. civ., sez. III, sent. 8 ottobre 2007, n. 20986: “Affinchè ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l'evento dannoso, anche la riferibilità all'amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l'attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell'attività dell'ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell'ambito delle attribuzioni dell'ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all'amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell'agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l'attività del dipendente e la P.A”.

Posti questi principi generali, ne discende come nel caso di silenzio inadempimento a seguito di una richiesta di autotutela, l'Amministrazione Finanziaria possa essere ritenuta responsabile in linea di principio, ai sensi dell'art. 2043 c.c., per tale comportamento ove lo stesso abbia recato danno al contribuente (salva la possibilità, poi, di rivalersi sul funzionario ai sensi dell'art. 28 della Costituzione).

Tale danno deve considerarsi, infatti, connotato da ingiustizia in quanto “in realtà deriva dal compimento dell'atto illegittimo, essendo l'intervento in autotutela solo il mezzo che avrebbe potuto eliminarne tempestivamente gli effetti” (Cass. civ., sez. III, sent. 19 gennaio 2010, n. 698).

In effetti, ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto di costringere il privato ad affrontare spese legali e d'altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità dell'Amministrazione Finanziaria permane ed è innegabile.

Tuttavia sul punto bisogna rilevare che la connotazione “oggettivata” dell'elemento colposo deve collegarsi all'esistenza di elementi e dati di fatto tali da far ritenere la violazione delle norme che regolano l'attività amministrativa grave e palese quali, esemplificativamente ma non esaustivamente, la chiarezza ed univocità della norma tributaria, la presenza di orientamenti giurisprudenziali conformi, la linearità e semplicità della fattispecie (di difficile dimostrazione appare, invece, l'evidenza di un contegno doloso).

Chiarito, quindi, che il contribuente di fronte al silenzio inadempimento serbato dall'Amministrazione Finanziaria possa azionare pretesa risarcitoria innanzi al giudice ordinario (entro l'ordinario termine di prescrizione), occorre verificare se tale giudizio debba essere sospeso in attesa di quello eventualmente instaurato in sede tributaria con l'impugnazione dell'atto di cui il contribuente aveva richiesto l'annullamento in autotutela (avuta considerazione del fatto che la proposizione dell'istanza di autotutela non sospende i termini per ricorrere) o di quello, sempre pendente innanzi alla Commissione tributaria, proposto avverso il silenzio inadempimento o avverso il provvedimento successivo al provvedimento di cui il contribuente ha chiesto l'annullamento in sede di autotutela.

Al riguardo occorre osservare come i due giudizi (quello tributario e quello civile) presentino degli oggetti diversi.

In sede tributaria, nel caso di ricorso avverso il silenzio inadempimento o avverso il provvedimento successivo al provvedimento di cui il contribuente ha chiesto il riesame in sede di autotutela, la valutazione in ordine all'antigiuridicità del comportamento dell'Amministrazione, evincibile anche dall'esame del provvedimento impositivo in relazione al quale il contribuente ha avanzato richiesta di autotutela, non involge il profilo dell'accertamento della colpevolezza nelle modalità dell'agire dell'Ufficio, il quale entra in gioco solo nel giudizio risarcitorio innanzi al giudice ordinario.

In pratica, il giudice tributario si limita ad accertare il dovere in capo all'Ufficio, nella fattispecie specifica, di procedere all'esame in autotutela dell'atto impositivo, avuta considerazione della presunta illegittimità dello stesso, in quanto apparentemente difforme dalla sua disciplina legale.

Il solo aspetto dell'illegittimità rileva, invece, nel processo instaurato tramite l'impugnazione dell'atto impositivo oggetto della richiesta in autotutela.

Tuttavia, al fine della tutela risarcitoria, non è sufficiente riscontrare la sola illegittimità dell'atto ma, altresì, il fatto che lo stesso sia il risultato di un comportamento colpevole dell'Amministrazione Finanziaria. In altre parole, il giudice civile si limita ad accertare “che il danno conseguente all'atto illegittimo ha esplicato tutti i suoi effetti, per non essere la Pubblica Amministrazione tempestivamente intervenuta ad evitarli, con i mezzi che la legge le attribuisce” (Cass. civ., sez. III, sent. 19 gennaio 2010, n. 698).

Ne deriva, pertanto, come la diversità dell'oggetto dei giudizi non consenta di poter affermare l'esistenza di una pregiudizialità del giudizio tributario rispetto a quello civile.

In conclusione

Dall'analisi svolta emerge come sussiste il dovere, in capo all'Amministrazione Finanziaria, di riesaminare il proprio operato fornendone riscontro al contribuente ogni qualvolta lo stesso faccia valere una presunta illegittimità del provvedimento impositivo.

Qualora l'Amministrazione venga meno a tale dovere, l'ordinamento appresta al contribuente strumenti diretti a far sì che lo stesso possa sia ottenere una pronuncia con cui il giudice tributario obblighi l'Ufficio ad esaminare il provvedimento di cui viene denunziata l'illegittimità, sia agire in sede civile per vedersi ristorato dei danni subiti (quali, esemplificativamente, le spese legali per proporre ricorso).

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