L'imposta di registro negli atti a contenuto plurimo, con particolare riguardo alle cessione di credito

Simone Marzo
05 Settembre 2016

Venuto meno il carattere di commutatività originariamente connaturato alla “tassa” di registro, l'attuale configurazione giuridica del tributo ha portato a qualificare lo stesso come un'imposta sulla “attività giuridica”. Il fatto rivelatore di capacità contributiva sotteso all'applicazione dell'imposta è infatti il compimento di una data attività giuridica produttiva di effetti ritenuti rilevanti dal legislatore, sul presupposto che tale attività e tali effetti costituiscano indici di forza economica e, quindi, di attitudine alla contribuzione.
L'imposta di registro come imposta sulla “attività giuridica” o sugli “effetti giuridici”

Venuto meno il carattere di commutatività originariamente connaturato alla “tassa” di registro, l'attuale configurazione giuridica del tributo ha portato a qualificare lo stesso come un'imposta sulla “attività giuridica”. Il fatto rivelatore di capacità contributiva sotteso all'applicazione dell'imposta è infatti il compimento di una data attività giuridica (non necessariamente di diritto privato) produttiva di effetti ritenuti rilevanti dal legislatore, sul presupposto che tale attività e tali effetti costituiscano indici di forza economica e, quindi, di attitudine alla contribuzione. Il presupposto impositivo a tal fine individuato dalla legge è la formazione dell'atto attraverso cui l'attività giuridica si esplica; in particolare, la formazione di uno degli atti indicati dalla legge come soggetti a registrazione.

L'imposta di registro colpisce l'atto non nella sua materialità, ma in relazione al suo contenuto giuridico, ovvero in relazione agli effetti giuridici che è idoneo a produrre. Tale principio trova espressione nell'art. 20 TUR, in forza del quale “l'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”. Tale norma, infatti, più che indicare un ovvio criterio ermeneutico, concorre ad individuare l'oggetto stesso del tributo di registro negli effetti giuridici che l'atto è idoneo a produrre. In sostanza, l'imposta di registro può essere definita come l'imposta sugli “effetti giuridici” derivanti dal compimento di una data attività giuridica.

La tassazione degli atti a contenuto plurimo

Il principio secondo cui l'imposta di registro colpisce gli effetti giuridici dell'atto più che l'atto nella sua materialità, costituisce il fondamento della norma dettata dall'art. 21 TUR in materia di registrazione degli atti a contenuto plurimo. Secondo tale disposizione, “se un atto contiene più disposizioni che non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, ciascuna è soggetta ad imposta come se fosse un atto distinto”; al contrario, in base al secondo comma dello stesso articolo, “se le disposizioni contenute nell'atto derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre, l'imposta si applica come se l'atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla impostazione più onerosa”.

Nel contesto dell'art. 21 TUR, la nozione di “atto” equivale a quella di “documento” (ad esempio, un'unica scrittura privata, ovvero un unico atto pubblico); più problematica è la definizione di “disposizione”.

Sia in dottrina che nella giurisprudenza è ormai tralatizia l'affermazione secondo cui con l'espressione “disposizioni”, il legislatore avrebbe inteso riferirsi a diversi negozi giuridici, ovvero a più “manifestazioni di volontà capaci di produrre effetti giuridici” (in giurisprudenza, cfr., Cass. civ., sez. trib., sent. 4 maggio 2009, n. 10180, Tassazione della cessione d'azienda e della cessione dei contratti di locazione immobiliare).

Tale affermazione non appare, invero, del tutto condivisibile. Nel testo unico di cui al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 il termine “atto” è utilizzato in senso atecnico, ovvero “in una accezione talmente onnicomprensiva da risultare sostanzialmente sfornita di un preciso sostrato giuridico” (così, V. Uckmar, R. Dominici, voce Registro (imposta di), in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1996). Ed infatti, secondo l'elencazione tariffaria l'assoggettamento ad imposta non è limitato ai soli “atti giuridici in senso stretto”, tantomeno ai soli “negozi giuridici” (che, come noto, costituiscono una species del più ampio genus degli atti giuridici in senso stretto).

Ebbene, identificando le “disposizioni” di cui all'art. 21 TUR con i “negozi giuridici”, l'art. 21, comma 1, TUR dovrebbe operare soltanto laddove in un unico documento siano contenuti più negozi giuridici e non, invece, qualora vi siano più “atti” di natura non negoziale, anche se si trattasse di atti che, considerati singolarmente, sarebbero soggetti a registrazione. Sembra però che nulla, nel testo o nella ratio della legge, autorizzi a concludere in tal senso.

Un esempio può forse aiutare a comprendere la questione.

Si pensi alla dichiarazione di quietanza di un debito preesistente, soggetta a registrazione in termine fisso con imposta proporzionale ai sensi dell'art. 6 della tariffa, parte I, allegata al TUR (salvo che sia rilasciata per scrittura privata non autenticata) ed in relazione alla quale la natura negoziale o di dichiarazione di volontà è pacificamente esclusa (cfr., da ultimo, Cass. civ., SS.UU., 22 settembre 2014, n. 19888). Laddove in un unico atto pubblico quietanza vengano rilasciate più quietanza in relazione a diversi rapporti obbligatori, non v'è dubbio che trovi applicazione l'art. 21 TUR, in materia di registrazione degli atti a contenuto plurimo, seppure le “disposizioni” contenute nell'unico atto pubblico (ovvero le distinte dichiarazioni di quietanza) non siano qualificabili “negozi giuridici” né “manifestazioni di volontà idonee a produrre effetti giuridici” (poiché la dichiarazione di quietanza non è una manifestazione di volontà).

In linea di principio, quindi, l'identificazione tra “disposizioni” e “negozi giuridici” non appare corretta.

Sembra invece che con il termine “disposizione”, l'art. 21 TUR intenda riferirsi a ciò che, negli altri articoli del testo unico, è indicato con il termine “atto”; in sostanza, l'art. 21 disciplina il caso in cui un solo documento costituisca il sostrato materiale in cui sono contenuti una pluralità di “atti” soggetti a registrazione secondo l'elenco tariffario allegato alla legge. Ancor più precisamente, si può ritenere che il senso dell'art. 21 sia questo: quando con un unico atto materiale si producano effetti giuridici riconducibili a più di uno dei “tipi” indicati dalla legge come oggetto del tributo, l'imposta si applica avendo riguardo a ciascuno di tale effetto giuridico, prescindendo dalla unitarietà cartolare del documento.

Stabilito che per “disposizione” debba intendersi l'effetto giuridico scaturente da una data attività giuridica (effetto giuridico che, come visto, costituisce il vero oggetto del tributo), occorre verificare in che modo ed entro quali limiti l'imposta trovi applicazione nei casi in cui da un unico atto scaturiscano una pluralità di effetti giuridici. Di tale questione si occupa l'art. 21 del testo unico.

Per comprendere i termini del problema sembra opportuno partire ancora una volta da un caso esemplificativo. Qualsiasi contratto di compravendita ha come effetti giuridici il trasferimento della proprietà del bene compravenduto e la nascita dell'obbligazione di pagarne il prezzo; produce poi in capo al venditore gli obblighi di consegnare la cosa venduta e di garantire il bene dai vizi e dall'evizione (altri effetti giuridici scaturenti dal contratto di compravendita).

Anche se nell'atto nulla si dicesse circa tali effetti, non si può negare che questi costituirebbero “effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione” e che, dunque, dovrebbero essere presi in considerazione ai fini dell'applicazione dell'imposta “anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente” dell'atto stesso, ai sensi del sopra richiamato art. 20 TUR Posto infine che, a norma dell'art. 21 TUR, se un atto contiene più “disposizioni”, queste devono essere considerate come se fossero atti distinti, diviene necessario verificare cosa impedisca di applicare ad un unico atto di compravendita l'imposta di registro sopra ciascuno degli effetti giuridici prodotti da tale atto (trasferimento della proprietà; obbligo di pagare il prezzo; ecc.).

Secondo l'insegnamento tradizionale tale impedimento sorgerebbe dall'aver identificato le diverse “disposizioni” alla stregua di diversi “negozi giuridici”; così, nel caso della compravendita, il negozio posto in essere è uno, mentre il trasferimento della proprietà e tutti gli obblighi scaturenti dal contratto sono, per l'appunto, solo effetti giuridici dell'unico negozio.

A parere di chi scrive tale impostazione non è del tutto convincente, perché fondata su un presupposto (l'identificazione tra le “disposizioni” di cui all'art. 21 TUR ed i negozi giuridici) in linea di principio errato (potendo esserci “disposizioni” aventi pacifica natura non negoziale eppure, altrettanto pacificamente, oggetto di autonoma considerazione ai fini dell'applicazione dell'imposta).

Sembra invece che l'impossibilità di assoggettare autonomamente a tassazione tutte le “disposizioni” contenute nell'atto (ovvero tutti gli effetti scaturenti dallo stesso) discenda dalla circostanza per cui tutte tali disposizioni “derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre”; pertanto, ai sensi dell'art. 21, comma 2, TUR, l'imposta deve essere applicata come se l'atto contenesse la sola disposizione che dà luogo alla imposizione più onerosa

Il nesso di derivazione tra più disposizioni

Il nesso di derivazione che deve avvincere le molteplici disposizioni contenute in un atto affinché queste siano considerate unitariamente ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro è comunemente individuato in un rapporto di connessione “assolutamente necessaria per esigenza obiettiva del negozio giuridico e non già una connessione voluta dai contraenti”; ancora: “deve sussistere“ una oggettiva necessità giuridica e contrattuale di connessione o compenetrazione, a nulla rilevando l'esistenza di una mera connessione soggettiva” (Cass. civ., 13 febbraio 1951; Cass. civ., 20 marzo 1972 n. 844; Cass. civ., 5 luglio 1973 n. 1886)” (così, la già citata Cass. civ., sez. trib., 4 maggio 2009, n. 10180).

Secondo la dottrina, il rapporto di derivazione rilevante ai fini dell'art. 21 TUR sarebbe un rapporto “di dipendenza reciproca tra le varie disposizioni, e non solo unilaterale; ovvero gli effetti giuridici di una o più disposizioni devono essere reciprocamente subordinati al prodursi degli effetti giuridici scaturenti da altra o altre disposizioni” (così, cfr., O. Di Paola, commento all'art. 21, in N. D'Amati, La nuova disciplina dell'imposta di registro, cit.).

Tale definizione è di immediata comprensione se applicata ad ipotesi semplici, quale il singolo atto negoziale tipico. Riprendendo l'esempio della compravendita, è evidente che l'obbligo di pagare il prezzo in capo al compratore deriva direttamente dall'avere il venditore (con il proprio consenso) trasferito la proprietà del bene e dall'essersi assunto gli obblighi connessi (per l'appunto) alla vendita.

In tal senso, tutti gli effetti giuridici scaturenti dall'atto di compravendita (quindi, tutte le disposizioni espresse o ricavabili in via ermeneutica dall'atto) sono avvinte da una connessione “oggettiva, necessaria ed inscindibile”. Ne consegue che l'imposta di registro colpisce l'atto nella sua unitarietà, secondo le modalità stabilite dalla legge (quanto, ad esempio, a determinazione della base imponibile, ecc.).

Altrettanto agevolmente si può escludere la sussistenza del nesso di derivazione laddove con un unico atto il venditore venda più beni a più soggetti acquirenti. In tale ipotesi, la decisione di stipulare più compravendite in un unico atto non risente di valutazioni di tipo giuridico o economico (se non quelle connesse all'eventuale risparmio derivante dalla stipula di un unico atto, che restano però irrilevanti ai fini dell'applicazione dell'imposta) e, quindi, non è in grado di influenzare il regime impositivo di tale atto. Si tratta, in definitiva, di una connessione meramente documentale che in nulla incide sull'autonomia sostanziale dei singoli contratti e che, quindi, è del tutto irrilevante ai fini dell'art. 21 TUR (il caso dell'unico atto pubblico mediante il quale uno o più soggetti venditori trasferiscono quote di società di persone a più soggetti acquirenti è stato ripetutamente affrontato e risolto nel senso appena indicato nella recente dalla giurisprudenza di legittimità; cfr., tra le più recenti, Cass. civ., sez. VI-T, 15 settembre 2015, n. 18122; Cass. civ., sez. VI-T, 19 febbraio 2015, n. 3300; Cass. civ., sez. VI-T, 5 novembre 2014, n. 23518; Cass. civ., sez. VI-T, 29 ottobre 2014, n. 22899; Cass. civ., sez. VI-T 11 settembre 2014, n. 19245 e n. 19246; cfr. anche la Risoluzione dell'Agenzia delle Entrate n. 35/E del 2 aprile 2015).

Negozi misti e negozi collegati

Vi sono però ipotesi in cui la connessione tra più atti va oltre la mera contestualità documentale, assumendo forme più intense e giuridicamente qualificate. Si tratta delle ipotesi in cui l'attività giuridica è volta alla realizzazione di operazioni economiche complesse, non raggiungibili ponendo in essere atti riconducibili ad un unico tipo negoziale.

Le fattispecie che vengono in rilievo sono quelle del contratto misto (o complesso) e del collegamento contrattuale.

Il contratto misto, riconducibile alla più ampia categoria del contratto atipico (o, secondo alcuni, consistente in una “variante intermedia” tra il contratto tipico e quello atipico), è quello contraddistinto dalla commistione fra elementi propri di diversi tipi contrattuali nominati, ovvero “risultante della combinazione di una pluralità di frammenti di schemi tipici che si fondono e condizionano vicendevolmente” (così, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit.). Come detto, il contratto misto è strumentale al raggiungimento di effetti giuridici (e, in ultima analisi, economici) non raggiungibili con la conclusione di un negozio tipico, ma mediante la predisposizione in un negozio (unitario) in cui figurano elementi (o “disposizioni”) di tipi contrattuali diversi.

Altre volte accade che l'operazione economica che le parti si prefiggono di compiere sia realizzabile soltanto mediante una pluralità di negozi, autonomi tra loro ma finalisticamente e causalmente collegati. Più in particolare, il collegamento negoziale giuridicamente rilevante si ha quando la volontà delle parti o la natura stessa dei contratti fanno si che “l'uno dipenda dall'altro (così, V. Roppo, Il contratto, cit.), nel senso che “lo svolgimento e le vicende dell'uno [contratto; n.d.a.] si ripercuotono sull'altro condizionandone la validità e l'esecuzione” (così, F. Carresi, Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, cit.).

Nell'insegnamento della dottrina e della giurisprudenza (da ultimo, Cass. civ., sez. lav., 4 novembre 2015, n. 22513; cfr., anche, Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2005, n. 14611), la differenza tra contratti misti e contratti collegati è chiara: il contratto misto è un negozio unico, con causa unitaria ed inscindibile, nella quale si combinano elementi di tipi contrattuali diversi; nel collegamento contrattuale, invece, vi sono più contratti, ciascuno con la propria causa distinta ed autosufficiente rispetto a quella degli altri.

Alla distinzione appena messa in luce tra contratti misti e contratti collegati la più recente giurisprudenza della Suprema Corte riconduce il criterio identificativo del nesso di derivazione tra disposizioni ai fini dell'applicazione dell'art. 21 TUR. Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, infatti, “la distinzione tra il d.P.R. n. 131/1986, art. 21, commi 1 e 2 [ovvero tra atti contenenti disposizioni tra loro derivanti ed atti contenenti disposizioni autonome; n.d.a.] coglie la differenza fra il negozio complesso ed i negozi collegati, in virtù della quale il negozio complesso è contrassegnato da una causa unica, là dove, nel collegamento negoziale, distinti ed autonomi negozi si riannodano ad una fattispecie complessa pluricausale, della quale ciascuno realizza una parte, ma pur sempre in base ad interessi immediati ed autonomamente identificabili” (così le già citate Cass. civ., sez. VI-T, 11 settembre 2014, n. 19245 e n. 19246, poi riprese da Cass. civ., sez. VI-T, 29 ottobre 2014, n. 22899; Cass. civ., sez. VI-T, 5 novembre 2014, n. 23518; Cass. civ., sez. VI-T, 19 febbraio 2015, n. 3300 e Cass. civ., sez. VI-T, 15 settembre 2015, n. 18122, in tema di contratti collegati di cessione di quote sociali, e da Cass. civ., sez. trib., 5 agosto 2015, n. 16417, in materia di cessione di crediti in garanzia, su cui si tornerà di seguito).

In sostanza, il nesso di derivazione tra più disposizioni rilevante ai fini dell'art. 21 TUR è individuato nell'unicità causale che avvince i distinti elementi di un unico negozio (tipico o misto), in contrapposizione alla pluralità di cause individuabili nei plurimi negozi tra loro collegati.

Dall'affermazione di tale principio discendono alcuni corollari.

In primo luogo, risulta confermato quanto detto in precedenza in merito all'erroneità della tesi che tende a sovrapporre, agli effetti dell'art. 21 TUR, il concetto di “disposizione” a quello di “negozio giuridico”; nella chiara impostazione della Cassazione la tassazione unitaria ex art. 21, comma 1, TUR può trovare applicazione soltanto se le diverse disposizioni (o effetti giuridici) promanano da un unico negozio (anche se atipico o misto), e non invece se discendono da una pluralità di negozi, nemmeno se tra loro collegati. In sostanza, due negozi giuridici distinti non possono mai ritenersi connessi agli effetti dell'art. 21 TUR. Ne consegue che le “disposizioni tra loro derivanti” di cui tratta l'art. 21 TUR non possono essere individuate in distinti negozi giuridici, quand'anche tra loro collegati.

Come ulteriore corollario del principio affermato dalla Cassazione deve ritenersi che, nel caso di attività negoziale complessa, la verifica circa la sussistenza del vincolo di derivazione tra le molteplici disposizioni contenute in un atto debba concentrarsi essenzialmente sugli aspetti causali del negozio.

Pertanto, ell'ambito di una attività giuridica complessa che ha trovato materiale espressione in un unico documento, qualora le diverse “disposizioni” trovino fondamento in una giustificazione oggettiva unitaria e siano perciò avvinte da un'unica causa in concreto, potranno ritenersi “necessariamente derivanti le une dalle altre” ai sensi dell'art. 21 TUR, e saranno assoggettate ad imposta unitariamente ai sensi del comma 2 del citato articolo; in caso contrario, le disposizioni verranno assoggettate ad imposta “come se fossero atti distinti”.

Un caso concreto: la cessione di credito

La necessità di procedere ad un esame caso per caso dell'attività giuridica posta in essere, al fine di stabilire la corretta applicazione della disciplina in materia di registrazione degli atti a contenuto plurimo, emerge con particolare evidenza quando agli atti (o alle “disposizioni”) in questione non sia attribuibile una giustificazione causale tipica.

Una delle fattispecie di maggiore rilevanza (anche, ma non solo, pratica) è costituita dalla cessione del credito.

Senza addentrarsi nel risalente dibattito tra chi considera la cessione del credito una figura negoziale autonoma e chi nega tale natura, può ritenersi un dato sufficientemente condiviso quello secondo cui tale fattispecie è priva di una sua causa tipica, potendo assolvere a svariate funzioni oggettive. Secondo la tesi prevalente, la cessione del credito consiste in “un negozio a causa variabile (cfr., ex plurimis, Cass. civ., nn. 15955/2005,17162/2002,4796/2001), che può assolvere a diverse funzioni (vendita, donazione, adempimento e garanzia), nel quale il trasferimento del credito può avvenire a titolo gratuito o oneroso” (così, Cass. civ., sez. III, 3 aprile 2009, n. 8145); un atto in relazione al quale, peraltro, “la legge prescinde dallo scopo per cui si attua il trasferimento di crediti e si interessa unicamente dei suoi effetti” (così, Cass. civ., sez. III, 6 giugno 2006, n. 13253, che rinvia ad altri più risalenti arresti).

Tralasciando le ipotesi in cui la cessione di crediti venga posta in essere isolatamente (ipotesi nella quale l'atto è pacificamente soggetto ad imposta di registro in termine fisso, con aliquota dello 0,50%, ex art. 6 della tariffa, parte prima, allegata al TUR, da applicare sulla base imponibile determinata ai sensi dell'art. 49 TUR), ai fini che qui interessano vengono in rilievo le fattispecie in cui la cessione del credito si inserisce in contesti giuridici ed economici più complessi: la cessione in garanzia e la cessione c.d. solvendi causa.

La cessione in garanzia

L'autonomia causale della cessione del credito è evidente nell'ipotesi della cessione in garanzia. Tale operazione consiste nel trasferimento del credito che il debitore-cedente vanta verso un terzo debitor debitoris, in favore del proprio creditore-cessionario, allo scopo di garantire l'adempimento di un altro credito. In linea di massima e salvo possibili variazioni, la cessione del credito a scopo di garanzia si pattuisce con l'accordo che l'esigibilità del credito ceduto resti subordinata alla infruttuosa scadenza del credito garantito e che la cessione sia risolutivamente condizionata all'adempimento del credito garantito medesimo.

In tale fattispecie la presenza di due negozi causalmente autonomi, seppur tra loro collegati, è evidente. Vi è un rapporto obbligatorio principale che non richiede necessariamente di essere “accompagnato” dal negozio accessorio (la cessione in garanzia) e che è connotato da una propria autonoma causa; vi è poi la cessione in garanzia, negozio accessorio (tali sono, per definizione, i negozi di garanzia) che trova la sua causa in concreto nella funzione di “rafforzamento” del credito garantito.

Alla luce di quanto detto in precedenza ne consegue che la cessione di un credito con lo scopo di garantire l'adempimento di un altro credito non possa ritenersi avvinto al rapporto principale da un nesso di connessione “oggettiva, necessaria ed inscindibile”. Non si può dunque ritenere che la cessione del credito “derivi necessariamente, per la sua intrinseca natura” dal contratto da cui sorge il credito garantito, con l'effetto che la cessione del credito in garanzia sarà assoggettata ad imposta di registro “come se fosse un atto distinto” (come in effetti è, nonostante l'eventuale contestualità documentale).

In tal senso si sono espressi prima l'Amministrazione Finanziaria (Agenzia delle Entrate, Risoluzione n. 278/E del 4 luglio 2008) e, di recente, la Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. trib., 5 agosto 2015, n. 16417).

Nella risoluzione n. 278/E del 2008 l'Agenzia delle Entrate ha esaminato il caso di una cessione di crediti effettuata in garanzia del pagamento di canoni di leasing, cessione che il contribuente riteneva “strutturalmente compenetrata nell'operazione di locazione finanziaria”; considerato che le operazioni di leasing, quali operazioni finanziarie, rientrano nel campo di applicazione dell'Imposta sul valore aggiunto, seppure essendone esenti, in virtù del principio di alternatività tra IVA ed imposta di registro sancito dagli artt. 5 e 40 TUR, il contribuente istante riteneva che la complessa operazione finanziaria posta in essere, considerata nella sua “sostanziale unitarietà”, avrebbe dovuto ritenersi rientrante nel campo di applicazione dell'IVA e quindi sottratta all'applicazione dell'imposta di registro. Concordemente a quanto rilevato in precedenza, invece, l'Agenzia ha ritenuto che il collegamento negoziale istituito dalle parti “non fa venir meno la causa giuridica di ogni singolo contratto e con essa il relativo regime giuridico e fiscale e che, nel caso di specie, “le cause giuridiche che caratterizzano, rispettivamente, il contratto di cessione di crediti ed il contratto di leasing non sono riconducibili ad un'unica ragione economico-sociale”. Per tali ragioni, la cessione di crediti deve essere autonomamente considerata ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro ed assoggettata ad imposta, ai sensi dell'art. 6 della Tariffa, parte prima, allegata al TUR.

Nella richiamata Risoluzione l'Agenzia esamina anche un'altra questione sovente sollevata in materia di applicazione dell'imposta di registro alla cessione di crediti in garanzia ed alla quale sembra opportuno dedicare un cenno anche in questa sede. Si tratta del rilievo secondo cui l'art. 6 della Tariffa, all'ultimo periodo, stabilisce che sono soggetti a registrazione in termine fisso, con aliquota dello 0,50%, le “garanzie reali e personali a favore di terzi, se non richieste dalla legge”.

È stato infatti sostenuto che la cessione di crediti in garanzia possa ritenersi assoggettata ad imposta proporzionale di registro solo se prestata da un soggetto terzo rispetto al rapporto da cui scaturisce il credito garantito, mentre non sarebbe soggetta a registro laddove il cedente in garanzia sia lo stesso debitore del credito garantito, in quanto in tale ipotesi non si tratterebbe di “garanzia personale a favore di terzo”, ma a favore dello stesso prestatore (in tal senso si esprime A. Busani, L'imposta di registro, cit.).

Seguendo tale impostazione dovrebbe ritenersi che la cessione di crediti in garanzia, non consistendo in un “atto indicato nella tariffa” esuli dal campo di applicazione dell'imposta di registro e non necessiti di registrazione né in termine fisso né in caso d'uso; infine, se presentato volontariamente per la registrazione, sconterebbe l'imposta in misura fissa. L'Agenzia delle Entrate respinge tale impostazione, affermando che l'art. 6 della Tariffa va interpretato “nel senso che si applica l'imposta di registro nella misura proporzionale dello 0,50 in presenza delle seguenti fattispecie:

  • cessioni di crediti;
  • compensazioni e remissioni di debiti;
  • quietanze, tranne quelle rilasciate mediante scrittura privata non autenticata;
  • garanzie reali e personali a favore di terzi, se non richieste dalla legge.

Nel citato contesto normativo, la cessione di crediti rileva autonomamente”.

Alle medesime conclusioni, come detto, è recentemente giunta anche la Suprema Corte, nella sentenza n. 16417/2015. In tale occasione la Corte richiama innanzitutto i propri precedenti (già citati in precedenza) secondo cui il discrimine tra disposizioni derivanti e disposizioni autonome rispecchia quello tra negozio complesso e negozi collegati. Nel caso di specie tale, peraltro, “la cessione del credito, per la sua finalità di garanzia, ai fini dell'esecuzione del contratto di apertura già concluso, risulta vicenda accidentale rispetto all'operazione di finanziamento, sia pure collegata all'apertura di credito”; per tale motivo, sempre secondo la Suprema Corte, non sussistono i presupposti per la tassazione unitaria delle due disposizioni, poiché “tra esse non intercorre, in virtù della legge o per esigenza obiettiva del contratto (e non per mera volontà delle parti), un vincolo di connessione o compenetrazione, immediata e necessaria, tale da consentire di ravvisare una causa reale unitaria, che compenetri e riassuma le distinte giustificazioni causali dei due negozi”.

La cessione solvendi causa

Può in taluni casi accadere che la cessione del credito, anziché essere finalizzata a garantire l'esatto adempimento di un'obbligazione scaturente da un rapporto negoziale distinto (seppure collegato), costituisca essa stessa la prestazione alla quale una delle parti contraenti si obbliga. Si pensi all'ipotesi in cui le parti, anziché adottare gli schemi tipici della compravendita o del mutuo, stabiliscano che la controprestazione per il trasferimento del bene o per la messa a disposizione della somma data a mutuo sia costituita dalla cessione di un credito anziché dal pagamento di una somma di denaro.

In teoria, anche in questo caso l'intera operazione potrebbe essere ricostruita in termini di pluralità di negozi collegati. Potrebbe cioè ipotizzarsi che la cessione del credito costituisca un atto negoziale autonomo, anche se collegato al contratto in base al quale viene trasferita la proprietà. In particolare, secondo tale impostazione, vi sarebbe un contratto (quello principale) che obbliga le parti a concludere un altro contratto (quello di cessione del credito) il quale, pur essendo collegato al primo, ne resterebbe causalmente autonomo (non diversamente da quanto accade tra contratto preliminare e definitivo).

Detta ricostruzione sembra però troppo astratta. Così ragionando, in effetti, qualunque negozio avente ad oggetto una pluralità di prestazioni potrebbe essere “decostruito” fino ad individuare più atti negoziali collegati (ciascuno avente ad oggetto una delle diverse “prestazioni” dedotte in contratto) a loro volta costituenti l'oggetto del contratto principale.

Sembra invece più aderente alla realtà (giuridica oltre che fattuale) ritenere che la cessione del credito c.d. “solvendi causa” non costituisca un autonomo negozio giuridico collegato ad un negozio principale, bensì una mera “prestazione contrattuale”, ovvero un effetto giuridico del contratto, non diversamente dal trasferimento di proprietà del bene compravenduto tra venditore ed acquirente.

Alla luce di tali considerazioni, nel caso in cui la cessione del credito sia effettuata con causa solutoria, essa non integrerebbe un negozio giuridico autonomo ma collegato al rapporto negoziale in cui tale cessione si inserisce; in tale ipotesi, invece, la cessione del credito costituirebbe una mera “disposizione” ovvero, riprendendo la definizione adottata nei paragrafi precedenti, un effetto giuridico del contratto (atipico o complesso) dal quale scaturisce. Tale effetto giuridico dovrebbe però ritenersi strutturalmente e causalmente connesso con gli altri scaturenti dal contratto stipulato, trovando in tale contratto l'unica causa oggettiva. Ne conseguirebbe l'applicabilità dell'art. 21, comma 2, TUR.

In tal senso si è espressa la Suprema Corte in una ormai non recente pronuncia (Cass. civ., sez. I, 14 febbraio 1992, n. 1820). Il caso prospettato alla Corte era quello di un finanziamento erogato ad una società a fronte della cessione, da parte di quest'ultima, delle annualità residue di un credito vantato contro un terzo soggetto. Ebbene, a fronte delle doglianze dell'Amministrazione Finanziaria, secondo cui “arbitrariamente la Commissione impugnata ha ravvisato nella pattuizione esaminata un contratto unitario, sostenendo quindi la mancanza di autonomia della cessione del credito rispetto al mutuo”, i giudici di legittimità hanno replicato che “la Commissione ha correttamente identificato il regolamento in questione come un finanziamento contro cessione pro solvendo di credito. Ed ha ritenuto quindi, tale cessione, inscindibile funzionalmente e logicamente dalla struttura del finanziamento”.

Il contratto atipico di mutuo contro cessione di credito costituisce quindi un contratto unitario, in cui le diverse “disposizioni” (la messa a disposizione della somma di denaro da un lato; la cessione dei crediti dall'altro) devono ritenersi funzionalmente e logicamente inscindibili; esse rappresentano, quindi “disposizioni che derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre”, con la conseguente applicabilità della tassazione unitaria ex art. 21, comma 2, TUR.

La cessione solvendi causa non contestuale

Un'ipotesi ulteriore rispetto a quelle sin qui esaminate potrebbe individuarsi nella cessione del credito con causa solutoria che però non venga disposta contestualmente al negozio da cui scaturisce l'obbligazione da adempiere (si pensi al creditore che accetti dal debitore la cessione di un proprio credito in luogo della prestazione originariamente dedotta in contratto).

Nell'ambito di tale ipotesi si possono a loro volta distinguere due fattispecie:

  1. quella della cessione di credito in luogo dell'adempimento ex art. 1198 c.c. e
  2. quella dell'estinzione dell'obbligazione per novazione oggettiva ex art. 1230 c.c..

L'applicabilità dell'art. 21 TUR alle ipotesi indicate potrebbe apparire già di per sé discutibile considerando che, in questi casi, si tratta per definizione di atti non formalmente unitari né contestuali rispetto al negozio da cui scaturisce l'obbligazione estinta.

Peraltro, la sola assenza di contestualità materiale o cronologica potrebbe non essere decisiva. Una conferma in tal senso sembra trarsi dalla sentenza della Cassazione n. 16417 del 5 agosto 2015, dove si afferma la non contestualità dei due atti, pur costituendo “elemento di segno contrario”rispetto alla possibilità di ritenerli connessi agli effetti dell'art. 21, comma 2, TUR, non è a tal fine decisiva, restando comunque possibile “ricercare una causa reale ed unitaria di un complessivo regolamento negoziale, al fine della riqualificazione dei due distinti atti” (causa unitaria che, specie come visto in precedenza, la Suprema Corte ha comunque escluso).

Sembra invece decisivo il rilievo per cui, sia alla datio in solutum con cessione di crediti sia all'estinzione dell'obbligazione per novazione oggettiva viene comunemente attribuita natura negoziale, seppure con la differenza che, mentre nella cessione di credito in luogo dell'adempimento l'obbligazione originaria si estingue soltanto con la riscossione del credito ceduto (salvo contraria volontà delle parti), la novazione oggettiva ha efficacia consensuale e comporta l'estinzione dell'obbligazione originaria fin dal momento della conclusione dell'accordo novativo. A prescindere dalla diversità delle cause proprie di ciascuna delle due figure negoziali (mera causa solutoria di una obbligazione precedente, per la datio in solutum; causa estintiva di un'obbligazione e costitutiva di un nuovo rapporto obbligatorio, nella novazione oggettiva), sembra che in nessuna delle due ipotesi alla cessione del credito possa attribuirsi la natura di mero “atto solutorio” derivante necessariamente, per la sua intrinseca natura, dal rapporto negoziale da cui scaturisce l'obbligazione che si estingue.

In entrambe le ipotesi, in definitiva, l'accordo delle parti di estinguere l'obbligazione preesistente (ad esempio quella di pagare il prezzo di una compravendita) mediante la cessione di un credito anziché con la prestazione originariamente prevista, trova fondamento in una causa oggettivamente diversa da quella posta a fondamento del negozio da cui tale obbligazione originaria scaturiva. Pertanto, conformemente ai criteri applicativi della norma messi in luce in precedenza, ne discende l'inapplicabilità alle fattispecie in esame l'art. 21, comma 2, TUR.

Conclusioni

All'esito di quanto sin qui detto sembra opportuno tracciare un quadro di sintesi, con alcune brevi considerazioni conclusive.

In primo luogo, l'aver configurato l'imposta di registro come un'imposta sugli effetti giuridici prodotti dal compimento di determinati atti comporta che la sua applicazione non possa prescindere da una attenta valutazione di tali atti, onde poter verificare se, ed in che modo, gli effetti che ne scaturiscono debbano esservi assoggettati.

Atteso poi che gli atti assunti dalla legge come presupposto del tributo sono individuati mediante un'elencazione casistica dal contenuto assai variegato, sembra logico che, nel dettare le regole di applicazione dell'imposta, la legge si sia limitata a fissare i principi generali, lasciando all'interprete la concreta individuazione della regola del caso da applicare alla singola fattispecie.

Con riguardo agli atti a contenuto plurimo, tale principio è stato individuato nell'esistenza del vincolo di derivazione tra le diverse disposizioni, la cui sussistenza ne consente la tassazione unitaria ai sensi dell'art. 21, comma 2, TUR.

La verifica circa l'esistenza di tale vincolo non è sempre agevole, soprattutto nell'ambito di attività negoziali complesse. Per tali ipotesi, tuttavia, un valido criterio di indagine è stato individuato nell'esame degli elementi causali dell'attività negoziale posta in essere. Assimilando il concetto di derivazione espresso nell'art. 21 TUR a quello di unicità causale, si mette l'interprete in grado di valutare l'attività giuridica di cui si tratta secondo schemi che, pur nella loro complessità, dovrebbero ritenersi ormai sufficientemente chiari ed attendibili.

Tale criterio, peraltro, mostra l'apprezzabile vantaggio di consentire una valutazione della stessa operazione giuridica per mezzo degli stessi schemi teorici, sia che si tratti di individuarne le conseguenze giuridiche per le parti sia che si tratti di stabilirne il regime fiscale, assicurando così la coerenza complessiva dell'ordinamento.

Sembra quindi, per concludere, che quello individuato dalla giurisprudenza possa fungere da valido criterio di applicazione dell'imposta nelle fattispecie negoziali complesse; ciò tuttavia non fa venir meno, ed anzi rende ancora più avvertita la necessità di operare un esame caso per caso, soprattutto in presenza di atti il cui elemento causale (e la cui stessa natura giuridica) è variabile, come avviene con riguardo alla cessione del credito.

Guida all'approfondimento

Sulla natura e l'oggetto dell'imposta di registro:

Busani A., L'imposta di registro, Milano, 2009;

D'Amati N., La nuova disciplina dell'imposta di registro, Torino, 1989;

Dolfin N., voce Registro (imposta di), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Milano, 2006;

Uckmar V., Dominici R., voce Registro (imposta di), in Dig. disc. priv., Sez. comm., Torino, 1996.

Sull'art. 21 TUR:

Di Paola O., commento all'art. 21, in N. D'Amati, La nuova disciplina dell'imposta di registro;

Nussi M., commento all'art. 21, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu, F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie, tomo IV - Iva e imposte sui trasferimenti, a cura di G. Marongiu, Padova, 2011;

Sulla classificazione dei fatti giuridicamente rilevanti e, nell'ambito di questi, sulla distinzione tra atti giuridici in senso stretto e negozi giuridici:

Bigliazzi Geri L., Breccia U., Busnelli F.D., Natoli U., Diritto civile, vol. 1, t. 2, Fatti e atti giuridici, Torino, 1986;

Santoro-Passarelli F., Le dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1957.

Sui negozi misti e collegati e sulle differenze tra le due fattispecie:

Carresi F., Il contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, continuato da L. Mengoni, vol. XXXI, t. 1, Milano, 1987;

Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2009;

Roppo V., Il contratto, Milano, 2000.

Sul concetto di causa del contratto

Criscuolo F., Autonomia negoziale e autonomia contrattuale, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2008;

F. Gazzoni F., Manuale di diritto privato, cit.;

Roppo V., Il contratto, cit..

Sulla natura e la causa della cessione del credito:

Mancini T., La cessione dei crediti, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 9, Torino, 1999;

Gazzoni F., Manuale di diritto privato, cit.;

Roppo V., Il contratto, cit.

Sulla cessione del credito in garanzia:

Mancini T., La cessione dei crediti, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, cit., p. 464;

Valentino D., commento all'art. 1260 c.c., in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di G. Perlingieri, Napoli, 2010, libro 4, t. I, da cui ampi rinvii a dottrina e giurisprudenza;

Sulla causa di garanzia, come funzione di “rafforzamento del credito”:

Roppo V., Il contratto, cit.

Sulla natura e le differenze strutturali tra datio in solutum e novazione oggettiva:

Cannata C.A., Prosperetti M., Visintini G., con note di aggiornamento di Corradi E., L'adempimento delle obbligazioni, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 9, cit..

Di Prisco N., I modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall'adempimento, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 9, cit.;

Gazzoni F., Manuale di diritto privato, cit.;

Sulla nozione e sulla natura giuridica degli “atti solutori”:

N. Rondinone, L'“attività” nel codice civile, Milano, 2001.

Sommario