Il primato del diritto comunitario sulle norme processuali interne
14 Ottobre 2015
Attenuazione del principio dispositivo e delle preclusioni
Nell'ordinamento comunitario la regolamentazione del processo resta una prerogativa degli ordinamenti nazionali purché non impedisca l'uniforme applicazione del diritto sostanziale comunitario e purché assicuri una tutela equivalente delle situazioni giuridiche soggettive di fonte comunitaria rispetto a quelle di diritto interno. Il divieto di applicare il diritto nazionale in contrasto con il diritto comunitario, che incombe su tutti i giudici degli Stati membri, in quanto giudici dell'Unione Europea, ha, quindi, avuto delle rilevanti conseguenze processuali nel giudizio civile ed in quello tributario, comportando, da un lato, l'attenuazione del principio dispositivo e del rigido sistema delle preclusioni e, dall'altro, il possibile superamento del giudicato nazionale.
In primo luogo, la Suprema Corte ha riconosciuto che la verifica della compatibilità del diritto interno con quello comunitario non è condizionata alla deduzione di uno specifico motivo e, analogamente a quanto avviene per lo "ius superveniens" e per la dichiarazione d'illegittimità costituzionale, può essere svolta anche d'ufficio o, comunque, sollecitata dalla parte interessata per la prima volta nel giudizio di legittimità. Il potere-dovere del giudice di conformarsi al diritto comunitario nella decisione della controversia implica, difatti, la necessaria disapplicazione delle regole processuali di diritto interno che, precludendo in sede di legittimità l'esame di questioni non specificamente dedotte dal ricorrente e l'introduzione di nuove questioni di fatto, impediscono la piena applicazione delle norme comunitarie (cfr. Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2006, n. 26948, in cui il problema dell'accertamento dei nuovi presupposti di fatto è stato risolto dallo stesso giudice di legittimità, senza necessità di rinvio al giudice di merito, consideratone il carattere pacifico e non contestato; così sez. trib., 2 luglio 2014, n. 15032; sez. I, 3 febbraio 2006, n. 2420). La disapplicazione della disciplina sul condono
In particolare, in ambito tributario tale principio è stato ripetutamente applicato con riferimento all'istituto del condono. E' stato, difatti, affermato che le disposizioni della legge 27 dicembre 2002 n. 289, che consentono di definire una controversia con l'Amministrazione finanziaria evitando il pagamento delle sanzioni connesse al ritardato od omesso versamento dell'IVA, devono essere disapplicate a prescindere da specifiche deduzioni di parte e senza che possano ostarvi preclusioni procedimentali o processuali (quale, nella specie, il carattere "chiuso" del giudizio di cassazione). A questa conclusione si è pervenuti in quanto la disciplina “de qua” risulta in contrasto con gli obblighi previsti dagli artt. 2 e 22 della VI direttiva del Consiglio (17 maggio 1977, n. 388 CEE) in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative all'IVA, secondo l'interpretazione resa dalla Corte di giustizia nella sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06, che ascrive a dette norme comunitarie portata generale. In questo senso si è pronunciata la Suprema Corta (Cass. civ., sez. trib., 26 settembre 2014, n. 20435) con specifico riguardo all'art. 9-bis, L. 27 dicembre 2002, n. 289, ma la medesima soluzione può estendersi a tutte le forme di condono - sia premiale, sia clemenziale - che, incidendo sulla corretta riscossione di quanto dovuto, risultino nocive per il funzionamento del sistema comune dell'imposta sul valore aggiunto.
Per completezza va ricordato però che, secondo quanto ritenuto dalle sez. un., n. 3676/2010, l'art. 16 della legge n. 289 del 2002, nella parte in cui prevede la definizione delle liti pendenti, nonché la sospensione dei termini d'impugnazione, non comporta una rinuncia dell'Amministrazione all'accertamento dell'imposta (già effettuato e contestato nella sua legittimità), bensì la definizione di una lite in corso con il contribuente, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite al momento della domanda di definizione, per cui garantisce la riscossione di un credito tributario incerto sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti. Ne consegue che la disposizione “de qua” non può essere disapplicata, nelle controversie in materia d'IVA, per contrasto con la disciplina comunitaria neppure a seguito della sentenza della Corte di Giustizia C-132/06 cit. Il giudicato nazionale in contrasto col diritto comunitario
Va, inoltre, segnalato che il potere-dovere del giudice nazionale di conformarsi al diritto comunitario, anche disapplicando le regole processuali di diritto interno, ha determinato talvolta il travolgimento del giudicato nazionale. Ad esempio, secondo Cass. civ., sez. trib., 29 dicembre 2010, n. 26285, la CTR non avrebbe potuto rilevare l'inammissibilità per tardiva costituzione dei gravami proposti dall'Agenzia delle Entrate, in questo modo impedendo il recupero di un aiuto di Stato reso obbligatorio in virtù di una decisione esecutiva della Commissione europea, in quanto erogato in contrasto con il diritto comunitario. La pronuncia precisa che, avendo la decisione impugnata invaso il campo di competenza della Commissione europea, procedendo ad una ricostruzione diversa da quella da quest'ultima effettuata in materia di aiuti di stato, la Commissione tributaria regionale non avrebbe potuto rilevare la formazione del giudicato atteso che "il diritto comunitario osta all'applicazione di una disposizione del diritto nazionale come l'art. 2909 c.c., volta a sancire il principio dell'autorità della cosa giudicata, nei limiti in cui detta disposizione ostacoli il recupero di un aiuto di Stato la cui incompatibilità con il mercato comune sia stata accertata con decisione della Commissione delle Comunità europee divenuta definitiva" (così CGUE, Grande sez., 18 luglio 2007, C- 119/05, Lucchini).
Va tuttavia evidenziato che nello stesso anno La Corte (Sez. trib, 15 dicembre 2010, n. 25320) ha rigettato il ricorso per cassazione con cui l'Amministrazione finanziaria chiedeva fosse ritenuto ammissibile l'appello, ancorché proposto in violazione del termine ex art. 327 c.p.c., affermando che il diritto comunitario, così come costantemente interpretato anche dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europa, non impone al giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne da cui deriva l'autorità di cosa giudicata di una decisione, nemmeno quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario, salve le ipotesi assolutamente eccezionali in cui ricorrano discriminazioni tra situazioni di diritto comunitario e situazioni di diritto interno ovvero quelle in cui sia reso in pratica impossibile o estremamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario. Alla diversa conclusione la Suprema Corte è giunta in base all'orientamento della stessa Corte di Giustizia (tra le altre: CGUE, sez. II, 3 settembre 2009, C-2/08 Olimpiclub; sez. I, 16 marzo 2006, C-234/04 Kapferer; sez. II, 10 luglio 2014, C-213/13, Impresa Pizzarotti), che ha sempre riconosciuto l'importanza della cosa giudicata negli ordinamenti dell'Unione e degli Stati membri al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia. Si è, inoltre, sottolineata l'eccezionalità dell'inoperatività del giudicato nazionale nell'ambito dell'ordinamento comunitario, ammessa solo in caso di violazione della competenza esclusiva della Commissione in materia di aiuti di Stato (cfr. sentenza Lucchini cit.) oppure in caso di contrasto con norme comunitarie tese a reprimere pratiche abusive in materia d'iva (sentenza Olimpiclub cit.).
La problematica del superamento del giudicato nazionale, incompatibile con il diritto comunitario, è particolarmente avvertita nel settore tributario alla luce di quell'orientamento giurisprudenziale, secondo cui il giudicato tributario relativo ai presupposti d'imposta si estende nei giudizi riguardanti altri periodi d'imposta relativamente agli elementi costitutivi della fattispecie che, riferendosi ad una pluralità di periodi d'imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all'applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente (cfr., per tutte, Cass. civ., sez. un., 16 giugno 2006, n. 13916, che ha ribaltato la posizione di id., n. 1873 del 14/07/1962, secondo cui nelle controversie relative all'accertamento delle imposte periodiche, i limiti della cosa giudicata sono quelli della controversia tributaria cui la decisione si riferisce, sicché la sua efficacia preclusiva non si estende agli accertamenti successivi). In riferimento a tali elementi, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato è stata considerata coerente non solo con l'oggetto del giudizio tributario, che attraverso l'impugnazione dell'atto mira all'accertamento nel merito della pretesa tributaria, entro i limiti posti dalle domande di parte, e quindi ad una pronuncia sostitutiva dell'accertamento dell'Amministrazione finanziaria, ma anche con la considerazione unitaria del tributo dettata dalla sua stessa ciclicità, la quale impone, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e di effettività della tutela giurisdizionale, di valorizzare l'efficacia regolamentare del giudicato tributario, quale "norma agendi" cui devono conformarsi tanto l'Amministrazione finanziaria quanto il contribuente nell'individuazione dei presupposti impositivi relativi ai successivi periodi d'imposta.
In questo contesto, si è reso tuttavia necessario puntualizzare che qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico di durata, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, il riconoscimento della capacità espansiva del giudicato, in ordine alla soluzione delle questioni di fatto e di diritto relative al punto fondamentale comune ad entrambe la cause, presuppone la compatibilità del giudicato con i principi fondamentali del diritto comunitario applicabili nel caso concreto. Ne consegue che il giudice successivamente adito per l'accertamento della medesima obbligazione di durata con riferimento ad un diverso periodo deve coordinare il principio del giudicato con il principio di effettività cui è improntato il diritto comunitario, evitando il conflitto tra l'efficacia del giudicato e l'esercizio dei diritti riconosciuti dall'ordinamento giuridico comunitario (cfr. sentenza Olimpiclub cit.). Così Sez. lav., 25 novembre 2009, n. 24784, in una controversia concernente l'asserito inadempimento dell'obbligo di inviare le prescritte comunicazioni reddituali alla Cassa Nazionale Forense da parte di un avvocato, cittadino di un paese dell'Unione Europea, iscritto all'Albo professionale e alla cassa previdenziale del paese di provenienza, ha ritenuto che il giudicato affermativo degli obblighi dichiarativi/contributivi previsti e sanzionati dalla legge n. 576/1980, formatosi in altro giudizio tra le stesse parti e con riferimento ad un diverso periodo impositivo, non esimeva il giudice di merito dal verificare se l'accertamento dell'obbligazione a carico del professionista contrastasse con i principi comunitari in tema di libertà di stabilimento, di divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità e di applicazione di più regimi previdenziali e contributivi. In particolare, poi, le controversie in materia d'IVA richiedono il rispetto di norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale e dalla sua proiezione anche oltre il periodo d'imposta che ne costituisce specifico oggetto, ove ciò impedisca – sempre secondo la sentenza Olimpiclub cit – il contrasto dell'abuso del diritto, che è uno degli strumenti tesi a garantire la piena applicazione del sistema armonizzato d'imposta (cfr. Cass. civ., sez. trib., 19 maggio 2010, n. 12249, che ha disconosciuto il valore di giudicato esterno di sentenze che, pronunciatesi con riferimento ad avvisi di accertamento in materia d'IVA relativi a anni diversi di imposta, avevano escluso che un contratto di comodato di impianti sportivi, stipulato fra una società ed un'associazione sportiva al solo fine di ottenere un risparmio fiscale, integrasse gli estremi dell'abuso di diritto - pronuncia resa all'esito della citata decisione della Corte di Giustizia, a cui era stata rimessa da Sez. trib., 21 dicembre 2007, n. 26996; 5 ottobre 2012, n. 16996, che ha negato il valore di giudicato esterno a sentenze di merito che, pronunciandosi con riferimento ad avvisi di accertamento in materia d'IVA emessi in contestazione di fatture per operazioni inesistenti in ordine ad anni diversi di imposta, avevano escluso la fittizietà di tali operazioni). In conclusione
In conclusione, non esiste una regola rigida ed univoca, ma occorre, di volta in volta, verificare la conciliabilità degli strumenti processuali interni con il diritto comunitario. Tale compatibilità è stata ravvisata, ad esempio (Cass. civ., sez. trib., 19 settembre 2012, n. 15740), con riferimento al regime processuale della prescrizione per decorso del termine triennale di cui all'art. 221 del Regolamento CEE n. 2913/1992, che non è rilevabile d'ufficio, né deducibile per la prima volta in appello posto che, a norma degli artt. 2938 e 2969 c.c., sia l'eccezione di prescrizione dell'obbligazione tributaria sia l'eccezione di decadenza dell'Amministrazione finanziaria dal potere di chiedere al contribuente l'adempimento di tale obbligazione non sono rilevabili d'ufficio. In ordine a tale profilo, difatti, nulla disponendo la normativa comunitaria, la disciplina è rimessa alla legislazione nazionale purché il regime processuale non sia deteriore rispetto a quello ordinariamente previsto e non sia tale da rendere eccessivamente difficile l'esercizio delle pretese fondate sul diritto comunitario.
Così la necessità che il giudice nazionale, in quanto giudice europeo, garantisca l'applicazione dell'ordinamento sovranazionale, verificando la conformità degli istituti processuali al principio di effettività di cui all'art. 19, par. 2 TUE, determina una (sia pur limitata) flessibilità del nostro modello processuale. Va, tuttavia, ribadito che le regole processuali restano di competenza degli Stati membri e, quindi, tendenzialmente vanno rispettate. Ciò risulta del resto confermato dalla stessa giurisprudenza comunitaria con riferimento al giudicato nazionale in contrasto con il diritto comunitario, la cui intangibilità è stata messa in discussione alquanto raramente. Invero, il giudicato interno è stato superato solo in un caso d'interferenza tra un provvedimento giudiziario nazionale ed una decisione definitiva di un organo dell'Unione europea in una materia di sua esclusiva competenza (aiuti di Stato), mentre il giudicato esterno solo con riferimento all'espansione dell'efficacia della sentenza a periodi d'imposta diversi da quelli che ne costituiscono lo specifico oggetto e, cioè, con riguardo ad una particolare configurazione del giudicato nel settore tributario. |