Il patto di famiglia e i profili critici dell'imposizione diretta in capo al beneficiario imprenditoreFonte: DPR 22 dicembre 1986 n. 917
12 Maggio 2017
L'art. 58, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, rubricato “Plusvalenze”, al comma uno dispone che: “il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell'azienda stessa; l'azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa”.
La previsione di legge, tesa a non considerare prodotta in seno al reddito di impresa del dante causa la plusvalenza derivante dal trasferimento di azienda operato a titolo gratuito, realizza il c.d. “principio di neutralità dell'imposta” di cui si ritiene opportuno precisarne brevemente il contenuto e la ragione d'essere.
In caso di trasferimento oneroso dell'azienda, eventuali plusvalori derivanti dal valore economico, rispetto al valore contabile, ne comporterebbero l'imposizione in capo al cedente. In caso di trasferimento gratuito, alle condizioni di legge previste, tale imposizione è “neutralizzata” nei confronti del donante, per realizzarsi in capo al beneficiario nel momento in cui sarà quest'ultimo a cedere il bene ricevuto e a realizzare, a sua volta, la plusvalenza (in altri termini, il principio di neutralità realizza un differimento temporale dell'imposizione). In via generale, la neutralizzazione dell'imposta in capo al disponente consente di agevolare il passaggio generazionale dell'azienda, atto considerato dal legislatore meritevole di tutela perché preordinato a dare continuità all'attività di impresa.
La previsione di una immediata tassazione delle plusvalenze realizzate in forza del trasferimento gratuito dell'azienda costituirebbe, quindi, un evidente ostacolo all'utilizzo dell'istituto da parte dei soggetti interessati, concretizzandosi nella sostanziale privazione delle risorse finanziarie dell'azienda assegnata o di quelle personali del disponente (in forza di un atto gratuito), che vanificherebbe l'intento del legislatore di agevolare, e non ostacolare, il ricorso all'istituto in questione.
A mente dell'art. 768-bis c.c. “È patto di famiglia il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”.
In estrema sintesi, il Patto di famiglia rappresenta un contratto che, in via anticipata rispetto alle disposizioni successorie, permette di prevenire eventuali liti ereditarie, di evitare la disgregazione dell'azienda o delle partecipazioni societarie e di assegnare tali beni a soggetti ritenuti capaci di assicurare la continuità dell'impresa e, per l'effetto, di tutelarne la produttività e l'occupazione.
Riguardo alla imposizione diretta conseguente la stipula di un Patto di famiglia, una parte della dottrina e l'Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, risposta del 3 novembre 2005 ad interpello promosso dalla DRE di Basilicata) ritengono che:
Rebus sic stantibus, acclarata la volontà del legislatore, attraverso il meccanismo della continuità dei valori fiscalmente riconosciuti, di “neutralizzare” l'imposizione diretta in caso di trasferimento gratuito dell'azienda secondo le modalità di cui all'art. 58 del TUIR, appare evidente come l'interpretazione secondo cui il valore dell'azienda ricevuta a seguito del Patto di famiglia costituisce un componente positivo del reddito di impresa del familiare beneficiario, possa compromettere, vanificandola in nuce, la ragion d'essere dell'istituto.
È evidente, infatti, che in tal caso il regime della neutralità fiscale del Patto di famiglia opererebbe, di fatto, solo nei confronti del disponente, lasciando esposto il beneficiario, se soggetto già imprenditore, ad un immediato prelievo fiscale sui valori acquisiti gratuitamente e confluiti nella propria azienda, realizzando in tal modo una sopravvenienza attiva, e ad un secondo prelievo nel caso di successiva cessione a titolo oneroso con realizzo di plusvalenza. Ovvio, quindi, il conseguente affievolimento dell'interesse al ricorso e all'applicazione concreta dell'istituto.
Non a caso, sotto tale profilo, seppure riguardo ad una ipotesi generale di tassazione in capo al soggetto beneficiario imprenditore dell'azienda acquisita con atto gratuito, autorevole dottrina non ha mancato di precisare che “tale interpretazione è incoerente con lo spirito della norma inteso ad agevolare il trasferimento gratuito dell'azienda in continuità di valori ma potrebbe (addirittura – n.d.r.) determinare effetti impositivi di gran lunga peggiorativi” (M. LEO, “Le imposte sui redditi nel Testo unico”, Giuffré Editore, 2014, e nello stesso senso, segnatamente al Patto di famiglia, S. CAPOLUPO, “Effetti della (incerta) natura giuridica del patto di famiglia sul relativo regime fiscale”, Il Fisco, n. 40/2016). La difesa del contribuente: la dubbia attrazione del Patto di famiglia nel novero delle sopravvenienze attive tassabili in capo al beneficiario
Deve qui necessariamente premettersi che il Patto di famiglia è un istituto introdotto per la prima volta con la Legge 14 febbraio 2006, n. 55. Il suo carattere innovativo rispetto alle previgenti norme di disciplina della determinazione del reddito di impresa, non disgiunto da una formulazione normativa che non ha mancato di generare incertezze già nella dottrina civilistica, non poteva non avere ripercussioni in materia tributaria.
A tale proposito, si è già riferito che l'Amministrazione finanziaria e parte della dottrina ritengono di dover considerare il valore netto dell'azienda ricevuta dal beneficiario/soggetto imprenditore e da questi utilizzata nell'esercizio di impresa come un componente positivo del reddito di impresa.
Ai sensi dell'art. 88, c. 3, lett. b), del TUIR, infatti: “3. Sono inoltre considerati sopravvenienze attive: (…) b) i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui alle lettere g) e h) del comma 1 dell'art. 85 e quelli per l'acquisto di beni ammortizzabili indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato”.
Orbene, ai fini della sua attrazione nel reddito di impresa del beneficiario, soggetto imprenditore, ci si chiede se il Patto di famiglia abbia una effettiva natura di “atto di liberalità” del disponente.
Invero, come è stato osservato di recente, l'assoggettamento al reddito di impresa del beneficiario del Patto di famiglia si basa sul sovrapponimento delle categorie della liberalità e dell'atto gratuito. Se, infatti, le due categorie non fossero sovrapponibili ne conseguirebbe che, anche nel caso in cui l'assegnatario fosse un imprenditore, il trasferimento dell'azienda non potrebbe essere qualificato come sopravvenienza attiva, con conseguente inoperatività dell'art. 88 che, difatti, tratta delle liberalità e non degli atti a titolo gratuito (cfr. S. CARUNCHIO, Patto di famiglia: l'inquadramento tributario e civilistico, Fondazione Nazionale dei Commercialisti, Roma, 31 ottobre 2016).
A tale proposito, deve subito evidenziarsi che soffermandosi sul significato del termine “liberalità” riportato nell'art. 88 citato, autorevole dottrina ha ritenuto che esso sia idoneo ad abbracciare tutti gli arricchimenti patrimoniali dell'imprenditore diversi da quelli che trovino titolo nell'erogazione di contributi e che non siano bilanciati da un corrispondente peso economico in capo al beneficiario, a nulla rilevando la differenza, meramente civilistica, tra atti di liberalità e di gratuità (G. FALSITTA, “Ulteriori precisazioni e proposte sulla "questione fiscale" delle procedure concorsuali”, in “La tassazione delle plusvalenze e sopravvenienze nelle imposte sui redditi”, Padova, 1986; M. BEGHIN, “I contributi e le liberalità a favore delle imprese”, Milano, 1997).
Sennonché, deve pure evidenziarsi che, in via generale, la prassi interpretativa del diritto tributario ritiene che laddove un termine abbia un significato comune diverso da quello tecnico, il legislatore lo assuma nel suo significato tecnico. Per altrettanto autorevole dottrina, consegue che quando la norma tributaria rinvia a termini appartenenti ad istituti di altri settori dell'ordinamento, il termine utilizzato assume il significato di quello attribuito nel settore di appartenenza (F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Utet, 2006).
Ciò posto in termini di premessa, deve rilevarsi che in tema di reddito di impresa non esiste né una definizione di “atto di liberalità” né una definizione di Patto di famiglia, sicché, qualora si optasse per la generale prassi interpretativa del diritto tributario, ai fini dell'inquadramento della disciplina del Patto di famiglia occorrerebbe rifarsi alla disciplina civilistica di provenienza. Sotto quest'ultimo profilo, non pochi dubbi potrebbero avanzarsi riguardo all'assunto secondo cui l'azienda ricevuta dal beneficiario costituisce un componente positivo del reddito di impresa a causa della natura di “liberalità” del Patto di famiglia.
In primo luogo a favore della diversa tesi della natura non liberale, stricto sensu, dell'istituto in esame militerebbe il dato normativo della disciplina civilistica, la cui norma di riferimento è inserita nel Titolo IV del Libro Secondo del codice civile, quindi tra le norme relative alla “divisione”, e non nel Titolo V disciplinante la “donazione”. Inoltre, a differenza dell'art. 769 c.c., laddove è previsto che “La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l'altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un'obbligazione”, nell'art. 768-bis c.c., riguardo al Patto di famiglia, non è riportato il riferimento esplicito allo “spirito di liberalità”.
Deve ritenersi che la ragione di una tale differenziazione sia da ricondurre a quella di esplicitare la sostanziale differenza tra i due istituti che si fondano su principi diversi: la donazione, infatti, è caratterizzata, oltre che dall'incremento del patrimonio altrui, dalla presenza nel soggetto donante dell'elemento soggettivo dello spirito di liberalità con depauperamento del patrimonio personale (cfr. Trib. Grosseto, 25 marzo 2015, n. 300), mentre, viceversa, il Patto di famiglia ha la precipua e diversa funzione di “fornire all'imprenditore uno strumento giuridico per salvaguardare la continuità nella gestione dell'impresa, preservando l'integrità e la funzionalità dell'azienda” (Trib. Reggio Emilia, 19 luglio 2012).
Nel caso di stipula di un Patto di famiglia, quindi, in capo al disponente più che lo spirito di liberalità rileverebbe lo spirito imprenditoriale, che lo porterebbe ad adottare un atto riconducibile all'esercizio di impresa, ovverosia scegliere uno o più eredi ritenuti dotati delle necessarie capacità imprenditoriali utili per proseguire l'attività di impresa, assicurandone continuità economica, produttività e salvaguardia di occupazioni lavorative.
Sotto tale profilo, da un lato deve osservarsi che se in ambito civilistico per potersi avere una liberalità e non un mero atto a titolo gratuito è necessario che una delle parti sia mossa dall'elemento psicologico di “arricchire” o “effettuare un'attribuzione senza corrispettivo” (cfr. G. VECCHIO, Le liberalità atipiche, Torino, 2000), dall'altro lato, tale elemento mancherebbe nel Patto di famiglia laddove, come visto, il disponente parrebbe mosso da scelte di tipo imprenditoriale più che dalla volontà di arricchire il beneficiario della disposizione (cfr. M.C. ANDRINI, Il patto di famiglia, Milano).
Sul punto, è altresì utile rilevare che anche per la giurisprudenza di legittimità “contrariamente a quanto pure si è ipotizzato in passato (Cass. civ., sez. 1^, 20 novembre 1992, n. 12401), la giurisprudenza più recente ha ben chiarito che occorre distinguere non solo tra negozio a titolo gratuito e negozio a titolo oneroso, ma anche tra gratuità e liberalità“ (Cass. civ., 5 dicembre 1998, n. 12325). Inoltre, sempre per i Massimi Giudici “In particolare l'assenza di corrispettivo, se è sufficiente a caratterizzare i negozi a titolo gratuito (così distinguendoli da quelli a titolo oneroso), non basta invece a individuare i caratteri della donazione, per la cui sussistenza sono necessari, oltre all'incremento del patrimonio altrui, la concorrenza di un elemento soggettivo (lo spirito di liberalità) consistente nella consapevolezza di attribuire ad altri un vantaggio patrimoniale senza esservi in alcun modo costretti, e di un elemento di carattere obbiettivo, dato dal depauperamento di chi ha disposto del diritto o ha assunto l'obbligazione” (Cass. civ., 12 marzo 2008, n. 6739; Cass. civ. 24 giugno 2015, n. 13087).
Alla luce di ciò e per concludere per quanto qui rileva, “Si può dunque avere un negozio che, benché gratuito, non è manifestazione di liberalità” (Cass. civ., 4 novembre 2015, n. 22567, cfr. anche Cass. civ., 24 giugno 2015, n. 13087).
Ferma quest'ultima premessa e proseguendo nell'analisi, sempre con riferimento alla natura non liberale del Patto di famiglia e quindi della sua possibile esclusione dal novero delle sopravvenienze tassabili ai sensi dell'art. 88, TUIR, deve annotarsi che la stessa Agenzia delle Entrate, con due distinte circolari, seppure sul punto identiche e riferite alle imposte indirette (Circolare n. 3/E/2008, richiamata da Circolare 18/E/2013) ha prima precisato che la finalità del patto di famiglia riposa “nell'intento di regolamentare il passaggio generazionale delle aziende mediante effetti anticipatori della successione” e, dopo, che esso seppure riconducibile nell'ambito degli atti a titolo gratuito resta “caratterizzato dall'intento – non prettamente donativo – di prevenire liti ereditarie e lo smembramento di aziende o partecipazioni societarie ovvero l'assegnazione di tali beni a soggetti inidonei ad assicurare la continuità gestionale degli stessi”.
Alla luce di tali documenti di prassi, quindi, può affermarsi che, seppure pacificamente rientrante nella categoria degli atti a titolo gratuito, in tema di liberalità dell'atto, anche per l'Agenzia delle Entrate il Patto di famiglia non si caratterizza per la presenza di un animus donandi da parte del soggetto disponente, quanto piuttosto, come visto, per la volontà di regolamentare in vita il passaggio generazionale dell'azienda, prevenire liti ereditarie ed evitare lo smembramento dell'azienda assegnandola ad un soggetto familiare capace di assicurare la prosecuzione dell'attività e di garantire, se non rinunciata, la liquidazione della quota di legittima spettante agli altri soggetti partecipanti al contratto.
Infatti, ai sensi dell'art. 768-quater, commi 1 e 2, c.c.: “Al contratto devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell'imprenditore. Gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti; i contraenti possono convenire che la liquidazione, in tutto o in parte, avvenga in natura”.
Si ponga mente, a tale proposito, all'ipotesi di un'azienda del disponente fortemente patrimonializzata ed al conseguente onere dell'imprenditore beneficiario di procedere alla liquidazione in denaro della quota del coniuge e degli altri legittimari con una provvista finanziaria della propria azienda, in seno alla quale, per l'effetto, si verrebbe a determinare una situazione di minore liquidità e possibili conseguenze sul piano economico in termini di interessi. Tale ultima previsione normativa porterebbe, quindi, ad escludere la natura di liberalità del Patto di famiglia (cfr. S. CARUNCHIO, Patto di famiglia: l'inquadramento tributario e civilistico, cit.).
Alla luce di tutto quanto sin qui riportato potrebbe affermarsi, in conclusione, che l'insieme degli scopi sottesi al Patto di famiglia non pare ricondurre la fattispecie all'atto di mera liberalità per la semplice volontà del soggetto disponente di voler semplicemente donare all'esclusivo e disinteressato scopo di arricchire una terza persona, quanto piuttosto al diverso, e più complesso, scopo di favorire la continuità aziendale. Ciò posto, potrebbe quindi ritenersi che l'atto di mera liberalità indicato dall'art. 88, TUIR, quale presupposto per l'attrazione del componente positivo del reddito di impresa, non possa comprendere il Patto di famiglia, con la conseguenza che nei confronti di quest'ultimo resterebbero neutralizzati, sia per il disponente sia per il beneficiario imprenditore, i plusvalori dell'azienda oggetto del Patto stesso sino al momento del successivo ed eventuale trasferimento dell'azienda da parte dell'assegnatario. Segue: l'obiettiva incertezza circa la portata e l'ambito di applicazione delle disposizioni tributarie e le conseguenze sul piano sanzionatorio
Come già rilevato, il Patto di famiglia è un istituto introdotto per la prima volta con la Legge 14 febbraio 2006, n. 55. Con riferimento alla possibilità di applicare all'istituto in esame la disciplina dettata dall'art. 88 citato, si riscontrano sia la mancanza di precedenti giurisprudenziali, sia l'esistenza di differenti e contrastanti interpretazioni della dottrina.
A ciò si aggiunga che, dopo l'entrata in vigore della Legge n. 55/2006, il legislatore tributario si è disinteressato della materia, omettendo di formulare qualsiasi disposizione che potesse inquadrare fiscalmente il citato istituto e che in seno all'imposizione diretta mancano documenti di prassi amministrativa chiarificatori della fattispecie (cfr., Consiglio Nazionale del Notariato, studio n. 36-2011/T, Profili fiscali del passaggio generazionale d'impresa, secondo cui “non si può non considerare come tale tipizzazione [del patto di famiglia in quanto contratto] non sia stata accompagnata da una specifica regolamentazione di diritto tributario, ciò che ha comportato una inevitabile incertezza applicativa, con un notevole effetto disincentivante rispetto alla concreta adozione dello strumento”).
Nei confronti del beneficiario/imprenditore, quindi, l'attrazione nel reddito di impresa di una sopravvenienza attiva comporterebbe la determinazione di una imposta dovuta conseguente ad una disciplina di legge ambigua sul piano civilistico e non specificatamente disciplinata in ambito tributario. Da tali premesse potrebbe farsi discendere una (eventuale) condotta contra legem che non sarebbe ascrivibile né a dolo, né a colpa.
Sul piano processuale-tributario, da parte del difensore, potrebbe quindi invocarsi l'applicazione dell'art. 8 D.Lgs. n. 546/1992 e dell'art. 10, c. 3, L. 212/2000, sulla base dei quali il Legislatore ha fondato la scusabilità dell'illecito tributario sul dato dell'obbiettiva incertezza della norma prevedendo che il Giudice tributario debba dichiarare la non applicabilità delle sanzioni previste dalle leggi tributarie quando la violazione sia, come nel caso che ci occupa, giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce.
Sul punto, e per quanto qui rileva, deve conclusivamente annotarsi che al fine dell'applicazione dell'art. 8, D.Lgs. n. 546/1992 per il Giudice di legittimità: “l'essenza del fenomeno 'incertezza normativa oggettiva' si può rilevare attraverso una serie di fatti indice, che spetta al giudice accertare e valutare nel loro valore indicativo, e che sono stati individuati a titolo di esempio e, quindi, non esaustivamente:
1) nella difficoltà d'individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge; 2) nella difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) nella difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) … ; 5) nella mancanza di una prassi amministrativa o nell'adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) …; 8) …; 9) …; 10) nel contrasto tra opinioni dottrinali; 11) … ” (Cass. civ., 12 marzo 2013, n. 6189). |