Profili elusivi della scissione: analisi storica e prospettica

Davide Attilio Rossetti
12 Settembre 2016

La scissione è sempre stata oggetto di attenzione da parte dell'Amministrazione finanziaria la quale, accanto ad un suo impiego “fisiologico” volto a realizzare una più razionale prosecuzione dell'attività d'impresa, ne ha identificato un utilizzo “patologico”, se impiegato quale strumento di ripartizione o di circolazione “indiretta” degli assets. Tale approccio va riletto alla luce del nuovo concetto di abuso del diritto: l'art. 10-bis della Legge del 27 luglio 2000 n. 212, che ha (ri)collocato al centro del concetto di “elusività” la necessità che un'operazione sia “indebita”, ossia contrastante con la ratio legis, non essendo più sufficiente la mera constatazione dell'assenza di valide ragioni extrafiscali alla base dell'operazione.
Premessa

L'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, ricomprendendo le scissioni nel novero delle operazioni potenzialmente elusive, richiedeva che il risparmio fiscale conseguito tramite tali operazioni fosse qualificabile come “indebito”, al fine di poterle ritenere elusive.

Elusione fiscale
Occorre ricordare che in materia di elusione fiscale della scissione, accanto alla applicazione della norma antielusiva generale di cui all'art. 37-bis coesiste la norma antielusiva ad hoc di cui all'art. 173, co. 10, del TUIR, il cui scopo è quello di contrastare il c.d. “commercio delle bare fiscali”, ossia la realizzazione di operazioni con società prive di capacità produttiva poste in essere al fine di attuare la compensazione intersoggettiva delle perdite fiscali di una società con gli utili imponibili dell'altra, introducendo un divieto assoluto al riporto delle stesse qualora non sussistano quelle minime condizioni di vitalità economica previste dalla norma. Come ritenuto dall'Amministrazione finanziaria (Risoluzione 30 giugno 2009 n. 168/E, Circolare n. 9/E del 9 marzo 2010) e dalla dottrina (Associazione italiana Dottori Commercialisti Norma di comportamento 10/2006 n. 165) l'art. 37-bis, ovvero la norma generale in materia di abuso del diritto, trovava spazio al di fuori del campo di applicazione dell'art. 172, co. 10.

Ciononostante, nell'interpretazione giurisprudenziale (Cass. civ., ss.uu., 23 dicembre 2008, n. 30057, Cass. civ., 20 luglio 2007, n. 16097 Cass. civ., 8 aprile 2009, n. 8487, Cass. civ. 21 febbraio 2011, n. 1372 e Cass. civ., 4 giugno 2014, n. 12502) e ministeriale (Risoluzione 2 ottobre 2009 n. 256/E), tale requisito finiva per essere ignorato e l'intero concetto di abuso veniva ricondotto all'assenza di “valide ragioni economiche” alla base della condotta realizzata.

Tale circostanza è stata rinvenuta dall'Amministrazione finanziaria sia nel caso in cui il contribuente ricorresse alla scissione in luogo dello scioglimento del vincolo societario ed assegnazione dei beni ai soci – conseguendo, in tal modo, un asserito indebito risparmio d'imposta – sia nel caso in cui la scissione fosse seguita dalla successiva cessione delle partecipazioni: lo share deal costituiva il mezzo per aggirare il più gravoso – ma “fisiologico” agli occhi dell'Amministrazione – carico impositivo derivante dall'asset deal.

Scissione vs ripartizione dei beni ai soci

È indubbio che, anche in presenza di specifici provvedimenti agevolativi (quale ad. es., il regime temporaneo agevolativo introdotto dall'art. 1, commi da 115 a 120, della L. 28 dicembre 2015, n. 208, relativo all'assegnazione e cessione ai soci di taluni beni mobili e immobili nonché per la trasformazione in società semplici delle società che gestiscono tali beni), il regime neutrale della scissione sia più vantaggioso rispetto all'imposizione derivante dall'estromissione dei beni dal regime d'impresa; ciò non dovrebbe tuttavia essere sufficiente per considerare la scissione elusiva “tout court”* diversamente da quanto ritenuto dall'Amministrazione finanziaria, che ha individuato in tali ipotesi i presupposti di un indebito risparmio d'imposta, consistente nel rinviare sine die la tassazione delle plusvalenze latenti sui beni oggetto di riassetto, sottraendosi all'imposizione prevista per la liquidazione delle società. Indici di elusività sono stati individuati, in taluni casi, nell'inclusione nella compagine societaria – a ristretta base familiare – di nuovi soci legati con i soci preesistenti da vincoli di parentela e disinteressati alla futura conduzione del business, il cui ingresso sarebbe dunque avvenuto – agli occhi dell'Amministrazione finanziaria – al solo fine di far concorrere gli stessi alla futura ripartizione degli assets societari (Parere n. 22 del 9/5/2007 del Comitato Consultivo per l'applicazione delle norme antielusive).

Analogamente, in altri casi, l'Amministrazione ha dato rilievo alla riduzione del numero dei soci ai soli membri del medesimo nucleo familiare (Parere n. 24 del 21/9/2005 del Comitato Consultivo per l'applicazione delle norme antielusive) o all'unipersonalità della società beneficiaria neo costituenda (Parere n. 17 del 13/7/2005 del Comitato Consultivo per l'applicazione delle norme antielusive), senza che fossero enunciate ragioni imprenditoriali a supporto di tali scelte. Talora, al contrario, l'elusività dell'operazione derivante dalla mancanza di strategie imprenditoriali conseguenti alla scissione è stata dedotta dall'assenza di prospettive di ingresso di nuovi soci – e dei rispettivi capitali – nella società beneficiaria, unitamente alla previsione per quest'ultima di un oggetto sociale molto ampio (tale da includere sia l'attività di gestione immobiliare, sia diverse attività commerciali), a cui faceva tuttavia riscontro, de facto, la mera gestione di un solo immobile concesso in locazione (Parere n.8 del 22/3/2007 del Comitato consultivo per l'applicazione delle norme antielusive). Irrilevante è stata considerata la generica (quanto indimostrata) prospettazione di un'irrisolvibile situazione di conflittualità tra i soci che avrebbe determinato uno stato di inattività gestionale (Parere n. 18 del 13/7/2005 del Comitato Consultivo per l'applicazione delle norme antielusive); diversamente, tale “disaccordo” avrebbe potuto assumere importanza nell'escludere l'elusività qualora ne fossero stati evidenziati i possibili riflessi negativi sull'operatività del business societario (Parere n. 34 del 14/10/2005 del Comitato Consultivo per l'applicazione delle norme antielusive).

*In evidenza

Ai fini delle imposte dirette, alla neutralità della scissione (per i soci e la società) ex art. 173 TUIR, corrisponde l'assoggettamento a tassazione della eventuale plusvalenza derivante dalla destinazione dei beni a finalità estranee all'impresa (ex artt. 85, comma 2, e 86, comma 1, lett. c), del TUIR per la società e per i soci ex art. 47, comma 7, del TUIR). In materia di imposte indirette, alla scissione, con applicazione dell'imposta di registro in misura fissa (art. 4, comma 1, lett b), tariffa parte I allegata al d.P.R. n. 131/1986) e sua collocazione fuori campo IVA (art. 2 comma 3, lett. f), del d.P.R. n. 633/1972), corrisponde l'assoggettamento ad IVA delle assegnazioni di beni ai soci (art. 2, n. 6, del d.P.R. n. 633/1972).

Accanto agli indici menzionati, rilievo è stato dato anche all'assenza di una benché minima struttura aziendale della società scindenda (testimoniato dal fatto che i bilanci non indicavano la presenza di dipendenti, collaboratori, fornitori, uffici, etc) (Parere n. 13 del 22/03/2007 del Comitato Consultivo per l'applicazione delle norme antielusive), nonché alla disdetta dei contratti di locazione stipulati con soggetti terzi, in favore di una crescente utilizzazione diretta delle unità immobiliari da parte degli azionisti (Parere n. 18 del 16/5/2006 del Comitato Consultivo per l'applicazione delle norme antielusive. Ciò era indice – secondo il Comitato – della volontà di passare da una attività imprenditoriale ad una gestione “unanimistica” alla stregua di una comunione pro indiviso).

Ciononostante, anche in vigenza dell'art. 37-bis, la posizione del Fisco non sembra potesse essere condivisa.

Nell'ordinamento esiste(va) infatti uno strumento ad hoc per contrastare l'uso improprio dello schermo societario: la disciplina per le società di comodo (Salvo la possibilità di identificare aree grigie in cui una società, pur non soddisfando i requisiti di operatività per integrare la disciplina delle società non operative, non svolga un'effettiva attività commerciale, come ipotizzato dall'Agenzia delle Entrate, nella Circolare 29/03/2013 n. 7/E: “Si osserva, in proposito, che potrebbe ricorrere il caso in cui una società che, pur non svolgendo un'effettiva attività commerciale ai sensi dell'art. 87, comma 1, lett. d), del TUIR, produca ricavi effettivi superiori a quelli presunti previsti, per il caso specifico, dalla disciplina delle "società non operative". In tale ipotesi, la cessione della partecipazione detenuta nella medesima non integra i presupposti per usufruire dell'esenzione anche in presenza di una società non "di comodo"), di cui la stessa Amministrazione finanziaria ne ha evidenziato la chiara – sebbene non esclusiva (Circolare 29/03/2013 n. 7/E: “Va preliminarmente osservato come tale ultima disciplina sia stata concepita per contrastare le società che, indipendentemente dall'oggetto sociale adottato, gestiscono il proprio patrimonio essenzialmente nell'interesse dei soci senza esercitare un'effettiva attività d'impresa [cfr. Circolare 2 febbraio 2007, n. 5/E]. […] la disciplina in esame intende scoraggiare la permanenza in vita di società, costituite senza finalità elusive, ma prive di obiettivi imprenditoriali concreti e immediati, cioè di società che per diverse ragioni non svolgono alcuna effettiva attività imprenditoriale.”) – natura antielusiva (Circolare 2 febbraio 2007, n. 5/E, secondo cui “Le modifiche apportate dal citato articolo 35 hanno reso più efficaci le disposizioni sulle società non operative, accentuandone le finalità antielusive” riconfermando tale assunto nel paragrafo 4.1. in cui si fa espresso riferimento alla “disciplina antielusiva sulle società di comodo”), testimoniata anche dal ricorso all'interpello disapplicativo di cui all'art. 37-bis, comma 8 (Circolare del 18 maggio 2000 n. 99/E, paragrafo 4).

Ne deriva che l'applicazione dell'art. 37-bis alle fattispecie già soggette alla disciplina sulle società non operative comportava per il contribuente un forte pregiudizio alla certezza del diritto, in merito al regime concretamente applicabile. A maggior ragione ove si consideri che la legittimità delle scissioni aventi ad oggetto singoliassets” (e non solo aziende o rami d'azienda) è stata espressamente stabilita dal legislatore con l'abrogazione dell'art. 123-bis del vecchio TUIR (Nell'art. 123-bis, in vigore fino al 7 novembre 1997 venivano disconosciuti i vantaggi tributari derivanti dalla scissione nell'ipotesi di “scissioni non aventi per oggetto aziende o complessi aziendali, anche sotto forma di partecipazioni, ovvero in quelle di assegnazione ai partecipanti di ciascuno dei soggetti beneficiari di azioni o quote in misura non proporzionale alle rispettive partecipazioni nella società scissa”.

La ratio della norma abrogata era quello di impedire la scissione di singoli cespiti con risultati equiparabili all'assegnazione ai soci, in elusione al previgente art. 54, co. 1, lett. d) del TUIR) e la riformulazione dell'art. 176 (cfr. anche OIC n. 4, paragrafo 1, secondo cui il patrimonio trasferito a ciascuna beneficiaria non deve essere necessariamente costituito da una o più aziende o rami di azienda, ma può anche essere composto da singoli beni o gruppi di beni).

Share deal vs asset deal

L'elusività della scissione ai fini tributari è stata contestata anche sotto il profilo della circolazione “indiretta” di beni (share deal), ritenuta più vantaggiosa rispetto alla cessione diretta degli stessi, detenuti dalla società (asset deal).

Approfondimento:
Con lo share deal, infatti, il cedente della partecipazione beneficia di un carico impositivo inferiore (se soggetto IRPEF non imprenditore mediante imposta sostitutiva sul capital gain (da partecipazione non qualificata) o parziale esenzione (da partecipazione qualificata), se soggetto IRPEF imprenditore ed IRES mediante applicazione del regime di participation exemption. Anche a livello delle imposte indirette lo share deal è assoggettato ad un minor carico fiscale, in quanto esente da IVA e soggetto ad imposta di registro in misura fissa).

In particolare, l'Amministrazione finanziaria (cfr. Risoluzione 02/10/2009 n. 256/E) ha considerato elusiva la creazione di una societàcontenitore” (di immobili, di azienda, ecc.) e la successiva vendita delle partecipazioni in essa detenute, con l'esclusivo fine di spostare la tassazione dai beni di primo grado (gli immobili, l'azienda, ecc..) ai beni di secondo grado (titoli partecipativi) soggetti a un più mite regime impositivo (capital gain).

Quali indici di elusività, l'Amministrazione ha dato rilievo sia al lasso di tempo intercorrente tra la scissione societaria e cessione delle partecipazioni, sia alla tipologia di attività svolte dalle società beneficiarie, nella fase intercorrente tra la scissione e la cessione. Nel primo caso è stata ritenuta elusiva la scissione seguita dalla immediata cessione delle partecipazioni (Risoluzione 21 febbraio 2002 n. 53/E e Risoluzione n. 166/E del 3 novembre 2000), considerata quale fase strumentale alla realizzazione di uno share deal in luogo di un asset deal.

In evidenza:
Nel caso di specie, i soci persone fisiche avrebbero potuto beneficiare del meno oneroso regime di tassazione sui capital gains ex art. 68, comma 3, del TUIR rispetto a quello ordinario di tassazione sulla cessione di azienda o ramo d'azienda ai sensi dell'art. 86, comma 2, del TUIR (Risoluzione 07/04/2009 n. 97/E).

Nel secondo caso (Risoluzione 09 luglio 2002 n. 224/E), sebbene la cessione delle partecipazioni non fosse avvenuta immediatamente dopo la scissione, l'attività posta in essere dalle beneficiarie non poteva essere considerata a livello qualitativo una “reale” riorganizzazione del business ante-scissione (nel parere si sottolinea che il business aziendale avrebbe richiesto il compimento di tutti quegli atti, gestionali, economici e finanziari idonei a garantire l'esecuzione ed il perfezionamento dell'intero progetto edificatorio; diversamente le beneficiarie si erano limitate a meri interventi di urbanizzazione e valorizzazione dei terreni attribuiti, in vista – secondo l'Amministrazione finanziaria – della successiva cessione delle stesse), in quanto di fatto limitata ad incrementare il valore delle partecipazioni ricevute a seguito della scissione (tramite interventi di urbanizzazione e valorizzazione dei terreni attribuiti) in vista delle loro successiva cessione.

Nemmeno lo scopo di realizzare un ricambio generazionale (Parere n. 28 del 4/10/2006 del Comitato Consultivo) in seno alla società ovvero il fine di attuare una separazione tra attività produttiva e immobiliare-finanziaria (al cui acquisto il buyer non era interessato) sono state considerata valide ragioni economiche, tali da porre la scissione al riparo da contestazioni di elusività, se ad essa avesse fatto seguito la cessione delle partecipazioni societarie (Parere n. 27 del 4/10/2006 del Comitato Consultivo).

Ciononostante, anche in vigenza dell'art. 37-bis le contestazioni di elusività mosse dall'Amministrazione finanziaria non sembravano convincenti. Al riguardo, non era (e non è tutt'ora) possibile individuare nell'ordinamento alcuna norma fiscale o extrafiscale in ragione della quale la cessione delle partecipazioni in luogo dei beni di una societàpotesse essere considerata, ex se, un'operazione “indebita” e quindi elusiva. Nell'ordinamento vi è, anzi, espressione del principio contrario, dove con l'art. 176, comma 3, del TUIR, è stato eliminato dal novero delle operazioni elusive ex art. 37-bis il conferimento d'azienda e la successiva cessione della partecipazione. In tal modo si è voluto equiparare la posizione dei soggetti che gestiscono l'azienda tramite società (i quali possono optare tra la l'asset deal e lo share deal) a quella di coloro che gestiscono l'azienda -senza avvalersi dello strumento societario, bensì – direttamente, per i quali non è ammessa tale scelta, se non previo conferimento dell'azienda in società (G. Zizzo, Le vicende straordinarie nel reddito d'impresa, in G. Falsitta (a cura di), Manuale di diritto tributario. Parte speciale. Il sistema delle imposte in Italia, Ancona, 2008).

Alla base di tale equiparazione vi è la constatazione che la cessione della partecipazione esente ricevuta a fronte del conferimento neutrale d'azienda non pregiudica gli interessi erariali: il risparmio fiscale per il cedente derivante dalla participation exemption è infatti controbilanciato dall'impossibilità per l'acquirente di dedurre il costo fiscale sotto forma di ammortamenti (ammesso, invece, nell'ipotesi di asset deal).

L'art. 176, comma 3 è, dunque, espressione di un principio generale di fungibilità tra asset deal e share deal – la cui collocazione all'interno dell'art. 176 ha uno scopo puramente “didascalico”, senza alcuna intenzione di limitarne l'applicazione a tale fattispecie – applicabile anche alle riorganizzazioni aziendali attuate a mezzo di scissione.

In evidenza:
D. Stevanato, Scissione dell'azienda e cessione delle quote: dov'è l'elusione? in “Dialoghi di dir. trib.”, 2007, secondo cui secondo cui la norma di cui al comma 3 dell'art. 176 del TUIR probabilmente “è stata calata in un contesto già regolato, giacché il conferimento di aziende in neutralità d'imposta ha un proprio peculiare regime fiscale, mentre non esiste una analoga operazione nell'ambito delle scissioni, che sono sempre fiscalmente neutre, indipendentemente da quanto viene trasferito alla beneficiaria. Sarebbe insomma stato un pò più complesso e stravagante costruire appositamente una norma per l'ipotesi di ‘scissione dell'azienda' (che non è un istituto fiscale a sé stante, com'è invece ‘il conferimento di aziende') e successiva cessione delle quote, di quanto non fosse regolare il conferimento neutrale di azienda. Il legislatore avrebbe però anche potuto non dire nulla, e l'art. 176, comma 3, sembra più che altro avere una funzione scaramantica e didascalica, contro il rischio di miopi interpretazioni di segno contrario (che purtroppo, non a caso, si stanno materializzando in relazione alla scissione di aziende”).
Prospettive evolutive alla luce del nuovo concetto di elusione

Come sopra anticipato, in vigenza dell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 nell'intenzione originaria del legislatore l'elusione andava verificata in base all'esistenza di vantaggi fiscali “indebiti”, ossia derivanti dall'aggiramento di obblighi e divieti che pur senza violare direttamente alcuna norma giuridica, si ponessero in contrasto con la ratio legis delle norme fiscali o dell'ordinamento tributario; le valide ragioni economiche, se rilevanti, potevano costituire, al più, un'esimente per il contribuente. Tuttavia, tale principio è stato interpretato in un'ottica di tutela delle ragioni erariali, giungendo ad affermare che, in presenza di più soluzioni concesse al contribuente, la scelta per la soluzione più conveniente dal punto di vista fiscale avrebbe dovuto essere giustificata dalla presenza di “valide ragioni extrafiscali”, la cui prova rimaneva in capo al contribuente. Si arrivava, dunque, a far coincidere la soluzione non elusiva con quella pro fisco e a negare, de facto, cittadinanza al principio del “legittimo risparmio d'imposta”. Al contrario, la ricerca della natura “indebita” del vantaggio fiscale avrebbe dovuto partire dall'analisi di cosa si intendesse per uso corretto e distorto degli strumenti giuridici; che lo stesso art. 37-bis mirasse a tale scopo, si coglie chiaramente dalla sentenza della Cassazione del 5/12/2014, n. 2578, nella quale le Sezioni Unite hanno ritenuto non elusiva ex art. 37-bis un'operazione in cui una società cedeva un immobile strumentale ad una società di leasing per poi mantenerne la disponibilità attraverso un contratto di lease-back, allo scopo di godere del regime di imputazione fiscale dei canoni, più rapido rispetto al meccanismo dell'ammortamento. Ciò in quanto in contribuente si era avvalso di una facoltà concessa dall'ordinamento - i.e., l'opzione tra il mantenimento del bene in proprietà o in lease-back – a cui era correlato un vantaggio fiscale previsto indiscriminatamente per tutti gli imprenditori che utilizzassero l'immobile in leasing. In quanto conforme alla ratio legis della norma fiscale applicabile, nessun vantaggio “indebito” era stato conseguito dal contribuente, a prescindere dal fatto che le uniche motivazioni economiche fossero prettamente di carattere fiscale.

Questo è l'approccio adottato dal nuovo art. 10-bis della L. n. 212/2000 (tale approccio è pienamente in linea con l'orientamento della Corte di Giustizia. Cfr. C-255/02, Halifax; C-425/06 Part Service, C-277/09, RBS Deutschland Holding) dove, accanto al “recupero” della nozione di vantaggio “indebito” posta al centro della definizione (Cfr. Relazione Illustrativa al D.Lgs. n. 128 del 2015), il legislatore ha previsto che la contestazione dell'elusione debba necessariamente passare attraverso un'analisi step-by-step della condotta potenzialmente elusiva (Cfr. Studio del Notariato n. 56-2016/T), conferendo alla stessa maggiore oggettività rispetto al passato. Il primo ed il secondo step prevedono la verifica dell'esistenza (o meno) di norme che concedono al contribuente la possibilità di optare per regimi di tassazione che comportano un diverso carico fiscale, e quindi l'inesistenza di norme che vietano il comportamento posto in essere (in presenza di un divieto, si entrerebbe nel campo dell'evasione, non già dell'elusione).

All'esito di tali verifiche, in assenza di regimi di tassazione opzionali, la condotta non potrebbe essere considerata elusiva per definizione (mancando la possibilità stessa di aggirare la disciplina “naturale” applicandone una “indebita”). Il terzo ed il quarto step prevedono laverifica che la scelta operata sia coerente alla ratio legis della norma optata (identificata all'interno delle possibili opzioni di cui allo step 1), ma anche che l'operazione possegga una “sostanza economica”.

L'assenza di sostanza economica è ravvisabile sia per le operazioni prive di sostanza economica tout courti.e., le operazioni “circolari” che non producono alcuna modifica della situazione economica e patrimoniale del contribuente – sia per quelle dove una modifica è avvenuta, ma attraverso forme e strumenti giuridici non coerenti o conformi a normali logiche di mercato (“Il nuovo abuso del diritto”, Analisi normativa e casi pratici, Eutekne, gennaio 2016). In tale ottica, l'operazione è priva di “sostanza economica” dunque, quando lo strumento giuridico scelto non è lo stesso che avrebbe adottato un operatore medio del settore, in relazione al risultato da raggiungere. Solo se l'operazione risulta essere indebita e priva di sostanza economica entra in gioco la valutazione delle “valide ragioni extrafiscali”, quale ultimo possibile test in grado di escluderne la elusività. Al riguardo, sono tali le ragioni anche di carattere organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente, il cui onere di allegazione è in capo al contribuente (Art. 10-bis, co. 3, L. n. 212/2000).

Con l'art. 10-bis si assiste, dunque, alla enunciazione legislativa del principio del legittimo risparmio d'imposta.

Un esempio di legittimo risparmio fiscale è fornito dalla stessa Relazione Illustrativa al D.Lgs. n. 128 del 2015 e riguarda il caso in cui si ponga in essere una operazione straordinaria (fiscalmente neutrale) in luogo di procedere alla liquidazione della società; entrambe le “opzioni”, pur comportando un diverso carico fiscale, sono poste dal legislatore sul medesimo piano, e quindi nessuna aggiramento della ratio legis potrà essere individuato nell'adottare la soluzione più conveniente a livello fiscale. In quest'ottica di apertura si inserisce, inoltre, il comma 12 dell'art. 10-bis, in cui viene evidenziato il carattere residuale della norma antiabusiva, affermando che “l'abuso del diritto può essere dimostrato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti, contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”.

In evidenza:
Il nuovo trend è rimarcato dallo stesso co. 4, in base al quale “non è possibile configurare una condotta abusiva laddove il contribuente scelga, per dare luogo all'estinzione di una società, di procedere a una fusione anziché alla liquidazione. È vero che la prima operazione è a carattere neutrale e la seconda ha, invece, natura realizzativa, ma nessuna disposizione tributaria mostra preferenza per l'una o per l'altra operazione; sono due operazioni messe sullo stesso piano, ancorché disciplinate da regole fiscali diverse. Affinché si configuri un abuso andrà dimostrato il vantaggio fiscale indebito concretamente conseguito e, cioè, l'aggiramento della ratio legis o dei principi dell'ordinamento tributario”.

Ciò detto, alla luce del nuovo art. 10-bis difficilmente le operazioni di scissione trattate nei paragrafi precedenti potrebbero essere ancora tacciate di elusività dall'Amministrazione finanziaria. Ciò in quanto, applicando l'approccio step-by-step, la scissione si colloca tra le alternative concesse dall'ordinamento al contribuente (step 1) la cui funzione tipica – ossia la ratio – consiste nell'essere uno strumento di riorganizzazione aziendale (step 3), come risulta dall'utilizzo che ne fanno gli operatori economici (step 4). Che la scelta per l'operazione straordinaria fiscalmente neutrale sia posta su un piano di equivalenza da parte del legislatore – rispetto alla cessione o liquidazione degli assets – è sottolineato nella stessa Relazione governativa (Relazione Illustrativa al D.Lgs. n. 128/2015).

Tali argomenti – accanto a quelli sopra svolti alla portata di norma residuale, dovrebbero far concludere per la non elusività delle operazioni esaminate dall'Amministrazione finanziaria nei casi sopra trattati, senza nemmeno ricorrere alla valutazione delle “valide ragioni extrafiscali”, ma semplicemente in base alla valutazione che sia la scissione, alternativa alla liquidazione/assegnazione che quella seguita dalla successiva cessione di partecipazioni non si pongono in contrasto con la funzione giuridica ed economica della scissione, né con altri principi del sistema tributario.

Conclusioni

In vigenza dell'art. 37-bis l'“architrave” dell'elusione fiscale era costituito dall'esistenza o meno di valide ragioni extrafiscali, che il contribuente era tenuto a provare ogni qualvolta avesse posto in essere operazioni al di fuori della via maestra, per definizione pro fisco, tracciata dall'Amministrazione finanziaria.

Nella nuova formulazione dell'art. 10-bis trova spazio il concetto di legittimo risparmio d'imposta – espressione del principio di libera iniziativa economica e base di ogni stato liberale – che si manifesta ogniqualvolta il contribuente opti per una tra le varie opzioni concesse dall'ordinamento che si ponga in coerenza con la ratio giuridica dell'operazione e venga considerata normale dagli operatori di mercato.

Diversamente, nel nuovo concetto di “abuso del diritto ed elusione fiscale” uno spazio residuale è riservato alla verifica circa l'esistenza di valide ragioni di mercato, la cui verifica – come sopra argomentato – non sarà nemmeno più necessaria in relazione alle ipotesi di scissione.

Alla luce di ciò, in attesa di sviluppi di prassi e giurisprudenziali sul tema, è lecito sperare che nell'ordinamento tributario italiano si sia finalmente aperto uno spiraglio per il riconoscimento del principio anglosassone per cui “every man is entitled if he can to order his affairs so that the tax attaching under the appropriate Acts is less than it otherwise would be”*.

*Approfondimento
È la celebre frase pronunciata da Lord Tomlin nel caso “Duke of Westminster v Commissioners of Inland Revenue [1935] All ER 259 (H.L.)”, deciso dalla Camera dei Lord nel 1935, e si riferisce alla contestazione di elusività mossa dall'autorità fiscale inglese nei confronti del Duca di Westminster e relativa al tax saving motive su cui si giustificava l'adozione di una inconsueta forma giuridica alla base della regolamentazione dei rapporti contrattuali con il personale di servitù, scelta apertamente finalizzata a consentire la deducibilità delle somme pagate a titolo di salario. Nel riconoscere che il risparmio fiscale conseguito fosse legittimo, la Corte ha negato l'esistenza di un principio di prevalenza della sostanza sulla forma contrattuale scelta dal taxpayer, ritenendo che “The substance is that which results from the legal rights and obligations of the parties ascertained upon ordinary legal principles”.

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