L'art. 1 del D.Lgs. n. 128/2015 recepisce, all'interno dell'ordinamento tributario, principi che erano immanenti nella giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e della Corte di Cassazione, permettendo l'entrata in vigore dell'attesissimo intervento legislativo sulla vexata quaestio della rilevanza penale dell'abuso del diritto tributario.Il presente lavoro si propone quale riflessione sulla nuova disciplina di cui all'art. 10-bis della L. n. 212/2000, procedendo da una rapida analisi dell'intervento legislativo, primo passo per comprenderne la portata innovativa, per giungere all'esame del regime sanzionatorio applicabile ai giudizi ancora pendenti in tema di elusione fiscale.
Premessa
Il rapporto, mutato nel tempo, tra la figura, dai contorni incerti, dell'abuso del diritto, inteso come impiego anormale od esuberante di una norma giuridica allo scopo di conseguire finalità diverse da quelle sue proprie, e il diritto penale, con i suoi requisiti di tassatività e determinatezza, è da sempre quaestio delicata.
Con l'introduzione del nuovo articolo 10-bis, rubricato “Disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale”, all'interno dello Statuto del contribuente (la collocazione della disposizione all'interno della Legge 27 luglio 2000, n. 212 non è priva di rilevanza, in quanto conferisce valenza generale all'istituto, in modo tale da renderlo operante per tutti i tipi di imposte, fatta eccezione – per espressa previsione legislativa – per i diritti doganali di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 43/1973) ad opera del D.Lgs. n. 128/2015, si è finalmente restituita la materia ai principi generali del diritto penale, segnando una netta inversione di rotta rispetto agli arresti giurisprudenziali intervenuti nel tempo.
Nel corso degli anni, infatti, la vicenda dell'abuso del diritto ha finito con l'assumere una fisionomia che rischiava di avere connotati non sufficientemente precisi e determinati, che si sono riflessi in passaggi applicativi non facilmente prevedibili, determinando profondi spazi di discrezionalità giudiziaria.
È in tale contesto di “oscurità normativa” che irrompe allora la nuova disciplina dell'abuso del diritto, primo intervento legislativo in materia, i cui limiti e ambiti applicativi sono stati delineati dal Giudice delle Leggi con la pronuncia n. 40272/2015, la quale costituisce in questo senso un sicuro riferimento.
Ma procediamo con ordine.
La nuova disciplina di cui all'art. 10-bis della L.n. 212/2000
Come detto, il D.Lgs.n. 128/2015 introduce un nuovo articolo 10-bisnello Statuto del contribuente, il quale unifica le nozioni di abuso del diritto ed elusione fiscale in un'unica definizione (art. 10-bis, comma 1), con la conseguente abrogazione dell'art. 37-bisdel d.P.R. n. 600/1973(art. 1, co. 2, che reindirizza tutti i previgenti rinvii in favore della disposizione abrogata al nuovo art. 10-bis), e stabilisce l'irrilevanza penale delle condotte abusive, che potranno essere sanzionate solo amministrativamente (art. 10-bis, comma 13).
Il nucleo della definizione è ora composto da tre elementi fondamentali:
(i) assenza di "sostanza economica" delle operazioni effettuate;
(ii) realizzazione di un "vantaggio fiscale indebito";
(iii) la circostanza che il vantaggio risulti l'effetto essenziale dell'operazione.
La norma chiarisce inoltre in modo analitico il significato dei termini “operazioni prive di sostanza economica” e “vantaggi fiscali indebiti”.
In particolare, sono “operazioni prive di sostanza economica” i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. In particolare, sono indici di mancanza di sostanza economica la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.
Quanto ai “vantaggi fiscali indebiti”, essi consistono nei benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi del diritto tributario.
In ogni caso, il comma 3 pone una clausola di esclusione suscettibile di operare anche nel caso in cui i predetti elementi costitutivi siano presenti: essa è rappresentata dalla presenza di valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine amministrativo e gestionale, che rispondono a esigenze di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa. Si può ritenere che, con tale previsione, il legislatore abbia configurato una vera e propria esimente per il contribuente, in quanto non è la mancanza di valide ragioni extrafiscali ad essere elemento costitutivo dell'abuso del diritto, ma è la presenza delle stesse che costituisce un elemento impeditivo.
I tratti qualificanti dell'abuso del diritto risultano dunque desumibili in negativo; infatti, i commi 4 e 12 dell'art. 10-bis descrivono quali comportamenti non configurano abuso del diritto, ribadendo, rispettivamente, il principio della libertà economica “di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge” e il fatto che “l'abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere riconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”.
Conseguentemente, i rapporti fra la categoria dell'abuso del diritto tributario e la materia penale, per come essi erano stati finora intesi in sede giurisprudenziale, ne escono mutati. Se prima della riforma, infatti, in assenza di una specifica previsione normativa sul punto, ci si chiedeva se il generale divieto di abuso del diritto potesse assumere rilevanza penale integrando il precetto, ora non solo si chiarisce espressamente che "le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie" (art. 10-bis, comma 13) (da sottolineare il riferimento alle "leggi penali tributarie" e non esclusivamente ai reati di cui al D.Lgs. n. 74/2000), ma si qualifica l'integrazione delle fattispecie penal-tributarie come condizione negativa per la configurabilità dell'abuso (art. 10-bis, comma 12).
Dal combinato disposto dei commi 12 e 13 dell'art. 10-bis, emerge dunque come i rapporti fra il campo di applicazione dell'abuso del diritto e l'intervento del presidio penalistico siano improntati alla mutua esclusione: l'abuso del diritto non può essere contestato se l'operazione perseguita dal soggetto agente è suscettibile di ingenerare responsabilità penale; quest'ultima, d'altro canto, non può poggiare su di una contestazione di abuso del diritto, che però potrà comportare l'applicazione delle sanzioni amministrative (art. 10-bis, comma 13).
In altre parole, non potranno essere perseguite penalmente le condotte qualificate come abusive ai sensi del nuovo art. 10-bis, anche nel caso in cui venga contestata una maggiore imposta in misura superiore alle soglie previste dagli artt. 3,4 e 5 del D.Lgs. n. 74/2000.
Pare difficile, allora, negare la qualificazione del comma 13 come clausola di esclusione della tipicità, cosicché, stante la sua idoneità a esplicare effetti al di là del giudicato exart. 2, comma 2, c.p., sarà da subito possibilefar presente che il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Prime applicazioni giurisprudenziali: la legalità ritrovata e la retroattività della nuova disciplina dell'abuso del diritto
Proprio sulla rilevanza delle condotte prima qualificate come elusive (ora riconducibili alla norma antiabusiva), è intervenuta la Terza Sezione Penale della Suprema Corte con la decisionen. 40272 del 1° ottobre 2015 (dep. 7 ottobre 2015), la quale:
ha fornito una prima lettura dell'art. 10-bis;
si è soffermata sugli aspetti sanzionatori.
Quanto al primo profilo, la sentenza ripercorre in maniera ermeneutica gli elementi peculiari sopra descritti che consentono di qualificare una condotta come abusiva, affermando, in relazione al citato comma 12 dell'art. 10-bis, che l'abuso “postula l'assenza, nel comportamento elusivo del contribuente, di tratti riconducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, della fraudolenza”. Ciò “imprime alla disciplina dell'abuso caratteri di residualità”, rimanendo “impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali– sempre, naturalmente, che ne sussistano i requisiti –nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive”.
Parimenti, prosegue la Corte, “rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi che [...] operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione”.
La pronuncia de quo, alla luce dell'unificazione dei due concetti di abuso ed elusione, introduce quindi una indubbia novità in tema di sanzioni rispetto ai precedenti orientamenti nei quali era stata affermata, da un lato, l'irrilevanza penale dell'abuso del diritto e, dall'altro, la possibilità di configurare condotte penalmente rilevanti nei casi di operazioni elusive.
Nel primo caso, l'assenza nell'ordinamento tributario di una norma ad hoc antiabusiva, non consentiva di ricollegare alla sua violazione una sanzione penale senza ledere i principi di determinatezza e tassatività; nel secondo caso, a partire dal 2011, in particolare con la nota sentenza Dolce & Gabbana (cfr.Cass. civ., sez. II, 22 novembre 2011, n. 7739, ma ancor prima: Cass. civ., sez. III, 18 marzo 2011, n. 26723), cominciò a consolidarsi l'orientamento teso a considerare penalmente rilevanti quelle condotte di elusione fiscale (quest'ultima concepita quale sottocategoria dell'abuso del diritto) poste in essere in violazione di una specifica norma antielusiva (cfr. Cass. pen., sez. III, 6 marzo 2013, n. 19100; Cass. pen., sez. III, 12 giugno 2013, n. 33187; Cass. pen., sez. trib., 23 maggio 2013, n. 36894), che veniva individuata nell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 (abrogato dall'art. 1, co. 2, del D.lgs. n. 128 del 2015), per cui, i giudici ritenevano che al superamento delle previste soglie di punibilità, le operazioni elusive finivano con l'integrare reati tributari, andando a violare le relative disposizioni (cfr.Cass. pen., sez. III, 12 giugno 2013, n. 33187), con la conseguenza che la rettifica antielusiva, che comportava il superamento della soglia di rilevanza penale, integrava il delitto di dichiarazione infedele (Cfr. Cass. pen., sez. trib., 23 maggio 2013, n. 36894).
Da questo scenario discende che, con la nuova disciplina, l'irrilevanza penale riguarderà anche le fattispecie elusive e non solo quelle di abuso, che già in passato non costituivano illecito penale.
Tuttavia, occorre porre particolare attenzione al citato passaggio della sentenza in commento, in quanto, con esso, ritornando sul concetto di evasione e sulla sua rilevanza penale, la Suprema Corte, muovendo dall'assunto che la fattispecie di abuso del diritto presenta carattere di residualità e indeterminatezza, poiché non contempla ipotesi specificamente tipizzate, arriva a concludere che non si può applicare l'esclusione della rilevanza penale, prevista per l'abuso del diritto, alla violazione di specifiche norme che nell'ordinamento fiscale hanno una finalità chiaramente antielusiva (è il caso ad esempio della disciplina Ace o della disciplina Cfc). Queste ipotesi, al contrario, possono integrare fattispecie di illecito e quindi di evasione che risultano punibili penalmente al verificarsi dei presupposti di legge.
Evidente il ritorno al canone della legalità, in quanto alla definizione della tipicità contribuisce ora anche l'art. 10-bis, che ridisegna per sottrazione le fattispecie di reato, escludendo dal loro perimetro i comportamenti rientranti nella nozione di abuso del diritto.
Successivamente, a commento del comma 3 del nuovo art. 10-bis, la sentenza in esame chiarisce anche il significato di “non marginali ragioni extrafiscali”, affermando che si tratta di motivazioni “di ordine organizzativo o gestionale che rispondo a una finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente. Per cogliere la non marginalità delle ragioni extrafiscali occorre guardare all'intrinseca valenza di tali ragioni rispetto al compimento dell'operazione di cui si sindaca l'abusività”.
Quanto al secondo profilo, occorre soffermarsi sulla portata del regime transitorio, per cui viene previsto che le nuove disposizioni hanno efficacia dal 1° ottobre 2015, con effetto retroattivo sulle operazioni poste in essere in data anteriore per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo.
Su tale ultimo aspetto, gli ermellini, nell'obiettivo di dirimere ogni perplessità interpretativa, hanno ritenuto corretto quanto sostenuto dalla difesa, ossia che l'avvenuta notifica dell'atto impositivo pone un limite all'applicazione retroattiva dell'art. 10-bis nel procedimento amministrativo; ma non spiega alcun effetto sul piano penale, stante il principio generale enunciato dall'art.2 del codice penale, il quale non soffre qui alcuna limitazione, nemmeno rispetto ai casi in cui, invece, sia stato già notificato l'atto impositivo da parte dell'amministrazione finanziaria.
Tale principio, come noto, sebbene non trovi copertura nell'art. 25 co. 2 Cost., assume comunque rango costituzionale ex art. 3 Cost., come affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale (cfr.Corte Cost., 22 luglio 2011, n. 236; Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394; Corte Cost., 19 giugno 2008, n. 215; Corte Cost., 18 luglio 2013, n. 210), secondo la quale, il legislatore ordinario può derogare al principio della retroattività della legge sopravvenuta più favorevole solo se tale deroga è sorretta da ragionevoli motivi: sia giustificata, cioè, dalla necessità di preservare interessi contrapposti di analogo rilievo.
In questo caso, la previsione d'inapplicabilità della statuizione d'irrilevanza penale delle operazioni abusive anche alle operazioni poste in essere prima della data del 1° ottobre 2015 per le quali non sia stato già emanato il relativo atti impositivo non sembra in alcun modo giustificabile: sarebbe stato, infatti, del tutto irragionevole far dipendere l'applicazione di un determinato trattamento penale di un'operazione asseritamente abusiva da un fatto – la notifica dell'atto impositivo – rimesso alla discrezionalità dell'Agenzia delle Entrate che è libera di decidere quando procedere alla sua notifica entro il termine perentorio di legge.
Peraltro, alle medesime conclusioni, di portata più ampia rispetto al dato letterale della norma sul regime transitorio, è pervenuta la Corte attraverso una lettura costituzionalmente orientata della norma in relazione all'art. 117 Cost., che vincola il legislatore al rispetto degli obblighi internazionali tra cui quelli derivanti dall'art. 7 Cedu così come interpretato dalla Corte Edu nella sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009 (cfr. Corte Edu, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, n. 10249/03).
Ed infatti, la disposizione convenzionale, che stabilisce il divieto di applicazione retroattiva della legge penale più severa, riconosce implicitamente anche il principio della retroattività della legge penale meno severa, per cui “se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all'imputato”.
In definitiva, pur trattandosi di una modifica di una norma extrapenale, la disposizione in discorso dà luogo a una vera e propriaabolitio criminis parziale. Tale conclusione comporta ricadute di ben vasta portata sul piano applicativo: in quanto abolitiva del reato, infatti, la valenza retroattiva dell'art. 10-bis travolge il giudicato “con ben immaginabili effetti pratici di dimensioni non marginali, resi ancora più complessi e delicati dal fatto che il giudice chiamato a provvedere sarà 'costretto' a rivalutare il fatto, per poter decidere se la condotta punita integra o no una figura di abuso del diritto” (così Mucciarelli, Abuso del diritto e reati tributari: la Corte di Cassazione fissa limiti e ambiti applicativi, in Dir. pen. cont., 9 ottobre 2015).
Conclusioni
La novella legislativa in commento è da accogliere con parere positivo in quanto, almeno in linea teorica, volta ad eliminare le gravi incertezze e i dubbi interpretativi che, in assenza di una norma ad hoc, si sono registrati nell'elaborazione del concetto di abuso del diritto ad opera della Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e della Corte di Cassazione. Eppure, alcuni profili problematici restano sullo sfondo.
In evidenza
Il concetto di abuso del diritto è stato elaborato in ambito comunitario a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia del 21 febbraio 2006, nella causa C-255/02, Halifax, la quale ha sancito che costituiscono comportamento abusivo le operazioni che, nonostante il rispetto formale delle disposizioni di riferimento, procurano “un vantaggio fiscale il cui riconoscimento è contrario all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni”. Tale principio comunitario è poi stato recepito dalla Cassazione civile a Sezioni Unite con tre sentenze del 23 dicembre 2008 (n. 30055, 30056 e 30057), le quali hanno affermato che il comportamento abusivo sussiste quando vi sono due elementi:
a) un utilizzo distorto, ancorché non contrastante con alcuna specifica disposizione, di uno strumento giuridico dell'ordinamento che determina un risparmio fiscale;
b) il fatto che l'aspettativa di tale risparmio rappresenta lo scopo esclusivo o essenziale del ricorso al predetto strumento giuridico, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili.
Innanzitutto, l'esigenza di approfondire e dettagliare la nozione di abuso del diritto: la nozione 'classica' di abuso del diritto si incentra, infatti, sulla sua natura atipica, per sé incompatibile con l'illecito penale, esempio massimo di tipicità dell'illecito. Sicché l'idea stessa di abuso del diritto con rilevanza penale, ancorché in negativo, determina l'insorgere dell'esigenza di una definizione autonoma, valevole esclusivamente per la materia rispetto alla quale è stato introdotto (quella tributaria). Ciò darebbe contezza anche di un'altra peculiarità, ovvero l'equiparazione tra elusione e abuso del diritto, dal momento che l'elusione fiscale era colta come una specie (almeno parzialmente tipizzata) del genere abuso del diritto (per sua natura atipico).
In secondo luogo, in relazione al comma 12, il principale aspetto problematico rimane la definizione delle specifiche disposizioni tributarie che restano passibili di integrare il precetto penale, ovvero occorrerà stabilire quali norme tributarie siano in grado di incidere sui presupposti dell'obbligazione tributaria.
Infine, la sentenza della Cassazione in commento può dar luogo a letture fuorvianti, laddove si ritenga che qualsiasi condotta di abuso del diritto non abbia rilevanza penale, non potendosi ritenere integrata alcuna fattispecie criminosa di cui al D. Lgs. n. 74/2000 in presenza di una vicenda di abuso del diritto.
Tuttavia, tale interpretazione non può trovare accoglimento, in quanto il confine tra condotte aventi rilevanza solo in sede amministrativa tributaria e condotte rilevanti in sede penale è dato dalla circostanza che il contribuente abbia o meno posto in essere comportamenti fraudolenti, ingannevoli, mendaci nei confronti del fisco. Invero, se tali circostanze siano rinvenibili nel caso di specie, allora, alla luce dei nuovi artt. 1 lett. g-bis) e g-ter), 3 e 4 del D. Lgs. n. 74/2000, potranno comunque essere contestati i delitti di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione mendace, anche laddove le operazioni contrattuali falsamente rappresentate dal contribuente possano essere qualificate in termini di abuso del diritto in sede amministrativa.
Guida all'approfondimento
Santoriello-Perini, La riforma dei reati tributari (D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158), Giuffré, Milano, 2016.
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Sommario
La nuova disciplina di cui all'art. 10-bis della L.n. 212/2000
Prime applicazioni giurisprudenziali: la legalità ritrovata e la retroattività della nuova disciplina dell'abuso del diritto