Esposizione ragionata delle più significative pronunce della Cassazione in materia tributaria
Andrea A. Salemme
20 Marzo 2017
Anche per il 2016 vale la considerazione che il tema del procedimento amministrativo occupa ampia parte della giurisprudenza di legittimità, spiccando come un leitmotive che apre la disamina con le applicazioni degli insegnamenti sull'utilizzabilità, sempre e comunque, di documenti pur irritualmente acquisiti dall'Amministrazione Finanziaria per concluderla con l'avvertita necessità della rimessione alla Corte di Giustizia dell'UE della questione relativa alla tenuta euro-unitaria della disciplina interna dell'iter doganale, non contemplante, pur con riferimento a tributi armonizzati, l'obbligatorietà di un momento di interlocuzione preventiva rispetto all'adozione dell'atto. Nel mezzo, eclatanti novità si registrano nei settori della tassazione degli aggregati societari e del trust autodichiarato, mentre l'autorevolezza delle Sezioni Unite offre contributi di chiarezza, certezza e semplificazione nelle macro-aree dell'IRAP e dell'IVA.
Questioni relative ai presupposti in sé del procedimento amministrativo: i problemi posti dalla c.d. lista Falciani in generale...
L'analisi del tema dei presupposti in sé del procedimento obbliga a recuperare una delle ultime pronunce del 2015, ossia Cass. civ., sez. VI-T., 23 dicembre 2015, dep. 23 dicembre 2015,n. 25951, sulla c.d. lista Falciani. È noto come l'oggetto fosse l'utilizzabilità, in ambito tributario, ai fini di un accertamento, dei dati bancari trasmessi dall'Autorità Finanziaria francese a quella italiana ai sensi della Direttiva n. 77/799/CEE, senza onere di preventiva verifica da parte dell'Autorità destinataria, sebbene acquisiti con modalità illecite ed in violazione del diritto alla riservatezza bancaria.
La questione era assai spinosa, perché la soluzione adottata nel merito dai giudici (non tributari ma) penali pur sullo stesso oggetto era per l'inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191 c.p.p.: ad esempio, con decreto del 4 ottobre 2011, il GIP di Pinerolo aveva disposto l'archiviazione del procedimento penale e, contestualmente, aveva ordinato al PM di procedere “alla distruzione dei documenti,dei supporti, e degli atti concernenti l'illegale raccolta di informazioni in danno dell'indagato”. Nel caso di specie, a giudizio del GIP, il procedimento penale era basato su “documenti riservati illecitamente acquisiti e sottratti dalla banca-dati informatica della HSBC Private Banking di Ginevra dall'ex dipendente Falciani Hervé”.
La S.C., in ambito tributario, si è mostrata di diverso avviso. Infatti Cass. civ., sez. VI-T., n. 25951 del 2015, cit., ribadisce che “l'Amministrazione Finanziaria, nell'attività di contrasto e accertamento dell'evasione fiscale, può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sono perciò utilizzabili, nell'accertamento e nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all'estero e ottenuti dal fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria”.
La giustificazione logica di siffatte affermazioni si rinviene nelle due ordinanze gemelle di cui a Cass. civ., sez. VI-T., 28 aprile 2015, nn. 8605 e 8606, le quali avevano avuto modo di spiegare come dalla constatazione che sia gli artt. 39, comma 2, e 41, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 sia l'art. 55, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972“prendono esplicitamente in considerazione l'utilizzo di elementi ‘comunque' acquisiti, e perciò [acquisiti] anche nell'esercizio di attività istruttorie attuate con modalità diverse da quelle indicate nel D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33, e nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51”, possa ricavarsi l'esistenza nel giudizio tributario – altro e distinto dal procedimento penale, sottoposto a regole proprio non automaticamente estensibili al primo – “un principio generale di non tipicità della prova che consente l'utilizzabilità – in linea di massima – di qualsiasi elemento che il giudice correttamente qualifichi come possibile punto di appoggio per dimostrare l'esistenza un fatto rilevante e non direttamente conosciuto. Ciò che trova, peraltro, un limite quando gli elementi probatori siano stati direttamente acquisiti dall'Amministrazione in spregio di un diritto fondamentale del contribuente” (paragrafi 6.20 e 8.10 delle rispettive motivazioni in diritto). Peraltro, già con sentenza 19 giugno 2001, n. 8344, la sez. V della Corte di Cassazione aveva chiarito che “non esiste …nell'ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle proveillegittimamente acquisite”, sicché l'inutilizzabilità sancita per il rito penale dall'art. 191 c.p.p.“vale,ovviamente, soltanto all'interno di tale specifico sistema procedurale”.
… (Segue) e nel confronto con il rito penale
Il confronto con il rito penale è più problematico di quanto possa sembrare a prima vista, dal momento che esso, come il giudizio tributario, sottopone i casi di inutilizzabilità della prova ad un'esplicita previsione di legge in tal senso, ma, a differenza di questo, riserva il tema della deviazione dal modello legale delle modalità di acquisizione delle prove - peraltro non nella fase delle indagini, ma tout court nel giudizio – al paradigma delle nullità. Per rendersene conto, valga risalire a Cass. pen., sez. VI, 13 febbraio 1998, n. 3460, proiettata a proclamare, con efficacia successivamente mai più messa in discussione. che “l'art. 191 c.p.p., nel prevedere l'inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita, si riferisce solamente al caso di prove assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, cioè di prove in sé e per sé illegittime perché vietate, e non [a quello] dell'assunzione di prove previste dalla legge (quale l'esame testimoniale) senza l'osservanza delle regole formali dettate per le modalità di acquisizione. La mancata osservanza delle formalità di acquisizione delle prove può porsi, eventualmente, sul piano della nullità della prova, sempre che tale sanzione sia prevista con riferimento alla singola violazione, in base al principio di tassatività delle nullità sancito dall'art. 177 c.p.p.”.
Se poi si ritenesse percorribile la strada della valorizzasse in sé del dato processuale della consistenza documentale delle informazioni bancarie pur illecitamente acquisite, si aprirebbe un varco per superare ogni questione in specie di inammissibilità (alla stessa maniera di quanto suole affermarsi per le videoregistrazioni effettuate dai privati con telecamere di sicurezza, di cui Cass. pen., sez. II, 4 febbraio 2015, n. 6515, qualificandole “prove documentali”, afferma l'acquisibilità tout court ex art. 234 c.p.p., “sicché i fotogrammi estrapolati da detti filmati ed inseriti in annotazioni di servizio non possono essere considerati prove illegittimamente acquisite e non ricadono nella sanzione processuale di inutilizzabilità”).
Comunque, per ora, l'unico precedente penalistico sulla lista Falciani nella giurisprudenza di legittimità, intervenuto in caso in cui l'indagato aveva sollecitato “il G.I.P. - già richiesto del provvedimento di archiviazione da parte della procura della Repubblica - di vagliare [altresì] la [propria] richiesta di distruzione dei documenti” ed il G.I.P., fissata d'iniziativa udienza camerale, aveva accolto la richiesta di archiviazione ma rigettato l'altra, dopo aver evidenziato che l'indagato non aveva titolo per chiedere la distruzione dei documenti, atteso che siffatta iniziativa è dall'art. 240, commi 2 e 3, c.p.p. riservata al P.M., rimane arretrato su una considerazione anticipata, osservando che, ad ogni modo, “l'inutilizzabilità degli atti illegalmente formati a mente dell'art. 240 c.p.p., comma 2, nella attuale formulazione, non preclude che gli stessi possano valere come spunto di indagine, così come accade per gli scritti anonimi” (ultime due righe della motivazione in diritto). Nella specie, del resto, detta considerazione era sufficiente ad escludere il diritto dell'indagato – menzionato nella lista di cui si tratta – a liberarsene come prova a carico attraverso la sua eliminazione fisica.
Per concludere, tornando al diritto tributario, ultimamente la posizione di Cass. civ., sez. VI-T., n. 25951 del 2015, cit., trovasi ribadita da Cass. civ., sez. VI-T., 1° settembre 2016, n.17503. L'Agenzia delle Entrate aveva denunziato la violazione dell'art. 12 del D.L. n. 78/2009 (conv. nella L.n. 102/2009), per avere il giudice di merito erroneamente affermato l'inutilizzabilità della documentazione posta a fondamento dell'accertamento a carico del contribuente acquisita nell'ambito di attività di collaborazione informativa internazionale tra Francia e Italia. La S.C. ripete che sono utilizzabili ai fini della pretesa fiscale, nel contraddittorio con il contribuente, i dati bancari trasmessi da Autorità Finanziarie estere a quella italiana, ai sensi della Direttiva 77/799/CEE del 19 dicembre 1977, senza nessun onere preventivo di verifica da parte delle Autorità destinataria.
Utilizzabilità degli elementi probatori e rispetto del termine di verifica
Il tema della lista Falciani suggerisce un collegamento con quello, solo apparentemente distante, del rispetto del termine di verifica ex art. 12, comma 5, st. contr. Invero, se si ritenesse detto termine perentorio, si porrebbe un problema analogo a quello affrontato dalla giurisprudenza di legittimità sulla lista Falciani circa l'utilizzabilità o meno degli elementi probatori raccolti dopo la sua consumazione.
Nondimeno Cass. civ., sez.VI-T., con ordinanza n. 1334 del 26 gennaio 2016, ribadisce il costante insegnamento per cui, “in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, né la nullità di tali atti può ricavarsi dalla ‘ratio' delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell'Amministrazione” (in termini, da ultimo, Cass. civ., sez. V, 5 ottobre 2012, n. 17002).
Conseguentemente la violazione dell'art. 12, comma 5, st. contr. – vuoi perché il termine da esso indicato è solo ordinatorio (Cass. civ., sez. V, 17 luglio 2014, n. 16323), vuoi perché la sua violazione non è assistita da un'espressa sanzione procedimentale e oltre processuale, neppure ricavabile implicitamente dal sistema (Cass. civ., sez. V, 15 aprile 2015, n. 7584) – giammai determina la nullità degli atti successivi, quali il processo verbale di constatazione e l'avviso di accertamento.
D'altronde, se si opinasse diversamente, il potere accertativo dell'A.F. spirerebbe non per ragioni intrinseche, ma solo per ragioni estrinseche ed anzi del tutto estemporanee, siccome correlate al preteso maggior disagio arrecato al contribuente da una verifica più lunga di quanto prescritto (Cass. civ., sez. VI-T., 9 luglio 2013, n. 17010).
Utilizzabilità degli elementi probatori e disciplina degli accessi
Questioni sull'utilizzabilità degli elementi probatori ricorrono anche in Cass. civ., sez. V, 18 marzo 2016, n. 5382, con riferimento ad accessi, ispezioni e verifiche. Lo snodo critico verte sull'estensione dell'area di inutilizzabilità derivante dall'acquisizione di documenti – ma in realtà non solo di essi – al di fuori degli specifici limiti di accesso autorizzati dal Procuratore della Repubblica ai sensi dell'art. 52 d.P.R. n. 633 del 1972 in tema di IVA, nonché, per le imposte dirette, del richiamo di cui all'art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973. Afferma la Corte che detta inutilizzabilità “non si estende alle prove e/o alle fonti di prova che trovano nell'accesso una mera occasione, come le informazioni di terzi e le dichiarazioni del contribuente raccolte nell'ambito di un accesso non autorizzato, ovvero le operazioni di verifica e riscontro dei movimenti bancari effettuate secondo i criteri di cui all'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in quanto collegate all'accesso in rapporto di mera occasionalità”. L'occasionalità, dunque, pur costituendo un parametro necessitante di specificazioni già a livello teorico, prima ancora che casistico, segna il discrimen della legittimità delle acquisizioni.
Pare nondimeno il caso di ricordare che vi sono accessi ed accessi. Il tema è bene sintetizzato da Cass. civ., 18 dicembre 2014, n. 26829, la quale ricorda che “l'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, prevede, al primo comma, l'accesso degli impiegati dell'Amministrazione Finanziaria presso i locali adibiti all'esercizio dell'attività commerciale, agricola, artistica o professionale, ovvero presso i locali adibiti ad uso promiscuo (e, dunque, anche abitativo) e, al secondo comma, l'accesso presso i locali adibiti ad uso diverso e, dunque, esclusivamente abitativo”. Quale la conseguenza? “Nel primo caso, è richiesta la semplice autorizzazione del capo dell'ufficio e del procuratore della Repubblica, senza l'indicazione di specifici presupposti, ponendosi tali autorizzazioni come meri adempimenti procedimentali, legati alla necessità che la perquisizione sia avallata da un'autorità gerarchicamente o funzionalmente sovraordinata; nel secondo caso, invece, l'autorizzazione del procuratore della Repubblica presuppone la sussistenza di gravi indizi di violazione tributaria, trovando il suo fondamento nell'inviolabilità del domicilio di cui all'art. 14 Cost. Ne consegue che, in tale ultima ipotesi, l'effettiva sussistenza dei gravi indizi di violazione tributaria è soggetta alla verifica della legittimità formale e sostanziale della pretesa impositiva, che coinvolge la legittimità del procedimento accertativo su cui la stessa si fonda”. La distinzione tra l'uno e l'altro tipo di accesso è a tal punto profonda che l'autorizzazione data per il primo non può valere anche per il secondo e viceversa. Invero – giusta Cass. civ., sez. V, 20 ottobre 2011, n. 21779 – “l'autorizzazione all'accesso data dal procuratore della Repubblica, ai sensi del primo (in locali adibiti ‘anche' ad abitazione) ovvero del secondo comma (in locali diversi, come quelli adibiti ‘solo' ad abitazione) dell'art. 52 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, legittima solo lo specifico accesso autorizzato e l'autorizzazione data in base all'una previsione normativa non è sostituibile con quella data in forza dell'altra previsione normativa”: ragioni di stretta osservanza della littera legis si uniscono ad una visione garantistica dei diritti umani, tra cui si annovera la libertà di disporre del domicilio, nel senso che la specificità dell'autorizzazione è viepiù funzionale a “limitare al massimo l'indubbio ‘vulnus' al principio costituzionale di inviolabilità del domicilio comunque derivante dalla previsione dell'accesso”.
Peraltro, nel 2016, il potere autorizzatorio del Procuratore della Repubblica è finito di per se stesso, in termini generali, sotto la lente d'ingrandimento delle Sezioni Unite, chiamate a scandagliarne la possibilità di critica ad opera del contribuente, titolare di un interesse antagonista rispetto alle risultanze evincibili dagli esiti dell'attività autorizzata.
Sostiene dunque SS.UU., 2 maggio 2016, n. 8587, che, “in tema di verifica fiscale, l'autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica, ai sensi dell'art. 52, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, per consentire l'esame di documenti rispetto ai quali sia stato eccepito il segreto professionale è impugnabile davanti al giudice tributario solo se sia stato impugnato l'atto conclusivo del procedimento di verifica, essendo detta autorizzazione un atto infraprocedimentale, non impugnabile autonomamente; ciò non determina un vuoto di tutela giurisdizionale, poiché, se il procedimento di verifica non si è concluso con l'emanazione di un atto impositivo o se tale atto non è stato impugnato, l'autorizzazione illegittima resta impugnabile davanti al giudice ordinario, in quanto lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge”.
Centralità procedimentale della dichiarazione
Momento essenziale del procedimento è quello della dichiarazione, per quanto atto, non dell'A.F. ma dello stesso contribuente, che per di più può compiere errori od omissioni. Per SS.UU., 30 giugno 2016, n. 13378, “in caso di errori od omissioni nella dichiarazione dei redditi, la dichiarazione integrativa può essere presentata non oltre i termini di cui all'art. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973 se diretta ad evitare un danno della P.A. (art. 2, comma 8, D.P.R. n. 322 del 1998), mentre, se intesa, ai sensi del successivo comma 8-bis, ad emendare errori od omissioni in danno del contribuente, incontra il termine per la presentazione della dichiarazione per il periodo d'imposta successivo, con compensazione del credito eventualmente risultante, fermo restando che il contribuente può chiedere il rimborso entro quarantotto mesi dal versamento e, in ogni caso, sempre opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria dell'Amministrazione Finanziaria”.
La regola fondamentale è dunque quella per cui il contribuente ha sempre la possibilità di opporre la natura erronea di appostazioni contenute in dichiarazione a fronte di un'infondata pretesa dell'A.F. Più problematica è l'affermazione dell'impossibilità per il medesimo di presentare un'integrativa a favore oltre l'anno, pur entro il limite dei termini per l'accertamento, indipendentemente dal fatto – e qui, ci si permetter di sottolineare, sta il punto – che dalla dichiarazione emerga o meno un credito da utilizzare in compensazione: se detto credito non emerge, invero, il contribuente potrebbe pur sempre essere esposto all'azione dell'A.F., cui dovrebbe resistere opponendo l'errore. Par dunque di poter leggere nell'assetto normativo attuale una lacuna che, a meno di voler pensare ad un'interpretazione ortopedica, nondimeno di difficile percorribilità dopo la ricostruzione della convergenza disciplinare dipanata in termini compiuti dal Massimo Consesso, esige una riparazione a livello legislativo: la qual osservazione pare d'altronde in linea con la risposta all'interrogazione parlamentare presso la Camera dei Deputati del 28 aprile 2016, n. 5-08512, a termini della quale si apre lo spazio per un intervento inteso a garantire l'uniformità dei termini di integrazione delle dichiarazioni dei redditi, con ricalcolo per così dire trasversale dei termini di accertamento pur a fronte di integrative a favore, in guisa da non penalizzare l'esercizio del potere accertativo da parte dell'A.F.
Comunanza di materia suggerisce di ricordare a questo punto anche SS.UU., 8 settembre 2016, n. 17758, per cui, “in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è [– bensì –] consentita l'iscrizione a ruolo dell'imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, potendo il fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi nonché da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi dell'anagrafe tributaria, ai sensi degli artt. 54-bis e 60 del d.P.R. n. 633 del 1972”; tuttavia, in sede di impugnazione della cartella, è “fatta salva”, comunque, “l'eventuale dimostrazione, a cura del contribuente, che la deduzione d'imposta, eseguita entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, riguard[a] acquisti fatti da un soggetto passivo d'imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili”. Pertanto può concludersi che, in assonanza con la parte conclusiva della massima di SS.UU., n. 13378 del 2016, dianzi evocata, nuovamente la chiave processuale consente la quadratura del cerchio, salvaguardando la posizione del contribuente, giacché l'(imprescindibile) osservanza degli obblighi di registrazione, in costanza dei requisiti sostanziali, permette al medesimo di provare (alla stregua di un riparto che lo onera in tal senso) la legittimità della deduzione, con l'effetto di abilitarlo a superare sul piano della sostanza le preclusioni derivanti da violazioni formali.
Differenza tra procedimento amministrativo e giudizio in relazione alle cartelle esattoriali
Il punto di massima emersione della differenza ontologica, e non solo strutturale, tra procedimento amministrativo e giudizio si registra a proposito dell'impugnazione delle cartelle esattoriali. SS.UU., 17 novembre 2016, n. 23397, sostiene che il semplice spirare di un termine, ancorché decadenziale, per impugnare un atto amministrativo non è in grado di mutare natura e consistenza dell'atto stesso. Più in particolare, “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui all'art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l'effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche la cd. ‘conversione' del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo l'art. 3, commi 9 e 10, della l. n. 335 del 1995) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell'art. 2953 c.c.”, giacché quest'ultimo articolo “si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell'attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l'avviso di addebito dell'INPS, che, dall'1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto (art. 30 del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., dalla l n. 122 del 2010)”.
L'opinione fatta propria dalle Sezioni Unite va in direzione contraria rispetto ad un indirizzo, che aveva trovato spazio anche recentemente, propenso invece a ritenere che la mancata opposizione a cartella determinasse l'intangibilità della pretesa dalla stessa espressa, per l'effetto non più soggetta ad estinzione per prescrizione, “potendo prescriversi soltanto l'azione diretta all'esecuzione del titolo così definitivamente formatosi che, in difetto di diverse disposizioni e in sostanziale conformità a quanto previsto dall'art. 2953 c.c., è soggetta al termine decennale ordinario di cui all'art. 2946 c.c.” (Cass. civ., sez. IV, 15 marzo 2016, n. 5060).
La questione è affatto delicata, atteso che l'inidoneità (ora) o l'idoneità (in passato) dell'incontrovertibilità processuale a ridondare sulla pretesa di per se stessa considerata pone sul tappeto il tema cardinale della valenza dell'atto amministrativo (cartella ma anche ed anzi soprattutto avviso di accertamento) in giudizi paralleli: basti considerare che, portando ad estreme conseguenze la sentenza delle Sezioni Unite, una volta limitata siffatta incontrovertibilità alla mera irretrattabilità del credito, esclusa alcuna vocazione ad una stabilità della pretesa paragonabile al giudicato, la spendita dell'atto amministrativo in uno di tali giudizi, in cui viene in rilievo come presupposto, non esime chi vuole avvalersene dall'allegazione e dalla prova dei presupposti della pretesa stessa.
Tassazione degli aggregati societari
Le Sezioni Unite, con le due sentenze gemelle nn. 12190 e 12191 del 14 giugno 2016, sono intervenute sulla disciplina fiscale delle società consortili, ritenendo che la causa consortile non osti allo svolgimento, da parte della società consortile, di una distinta attività commerciale con scopo di lucro.
L'Ufficio aveva contestato l'indebita compensazione tra i ricavi che il consorzio avrebbe dovuto trasferire alla consorziata ed il contributo che quest'ultima doveva al consorzio per il suo funzionamento, giacché, sempre secondo l'Ufficio, nel bilancio totale dell'operazione, ciò avrebbe comportato il mancato rilievo della quota-parte dei ricavi percepiti dalla consorziata.
La S.C. accede all'opinione per cui la natura non lucrativa di un ente non esclude il perseguimento altresì di un'attività commerciale, poiché lo scopo lato sensu di mutualità non è di per se stesso incompatibile con quello lato sensu di profitto (in tal senso, già Cass. civ., sez. V, 23 ottobre 2013, n. 24014). La disciplina civilistica di riferimento va rinvenuta nell'art. 2615-ter, comma 1, c.c., secondo cui le società previste nei capi III e seguenti del titolo V del libro V – relativi a tutte le società, escluse solo le società semplici – possono assumere come oggetto sociale gli scopi indicati nell'art. 2602, comma 1, c.c., secondo cui il consorzio è un contratto con cui più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per l'esercizio di determinate fasi delle rispettive imprese. In effetti, la circostanza che, a livello normativo, l'oggetto sociale di una società – la quale nasce dal conferimento di beni o servizi per l'esercizio comunitario di un'attività d'impresa “allo scopo di dividerne gli utili” (art. 2247 c.c.) – possa identificarsi con la finalità dell'organizzazione sequenziale di fasi coordinabili di plurime imprese palesa che la causa consortile, proiettata a scopi mutualistici, del momento contrattuale dell'organizzazione non confligge con la causa sociale, proiettata a scopi lucrativi, dell'attività d'impresa in forma societaria, né necessariamente l'assorbe sino ad annullarla.
Tali elaborazioni squisitamente giuridiche hanno l'ambizione di agevolare la comprensione della soluzione proposta dal Massimo Consesso, che, date le premesse condivise in teoria, non può non appuntare l'attenzione sull'accertamento in fatto per demandare al giudice di merito, cui detto accertamento compete in via esclusiva, la verifica della concretezza del funzionamento, non di un consorzio purché tale sia, ma del singolo consorzio oggetto di disamina. Talché “è questione di merito accertare i rapporti tra la società stessa e i consorziati nell'assegnazione dei lavori o servizi per stabilire la necessità del ‘ribaltamento' integrale o parziale di costi e ricavi ai fini dell'imposta sul valore aggiunto; in caso di differenza tra quanto fatturato dalla società consortile al terzo committente e quanto fatturato dal consorziato alla società consortile, il consorziato ha l'onere di provare - nel rispetto dei principi di certezza, effettività, inerenza e competenza - che la differenza stessa non integri suoi ricavi occulti ovvero che essa corrisponda a provvigioni o servizi resi dal consorzio al terzo”.
In definitiva, la S.C. dice che l'ammessa coesistenza delle due cause consortile e societaria e dei due scopi mutualistico e lucrativo esige una disamina da condursi caso per caso, ad opera del giudice di merito (con i limiti che ne derivano in punto di sindacato nel grado di legittimità), circa il fatto se il ricorso all'organizzazione consortile sia funzionale all'esercizio dell'attività imprenditoriale ovvero fraudolentemente (solo od anche) ad un indebito risparmio fiscale. Ma il discorso della S.C. non si ferma qui, assumendo una lungimirante dimensione, tanto per cambiare, processual-probatoria: poiché in linea di principio è riconosciuto il diritto alla detrazione dei costi ai fini dell'IVA, con conseguente inammissibilità di differenze tra importo fatturato dal mandatario al terzo e dal mandante al mandatario, salva la rilevanza fiscale della provvigione laddove pattuita e formalizzata (art. 3, comma 3, d.P.R. n. 633/1972), l'onere della prova di giustificare il surplus di fatturato della consorziata incombe sulla medesima, in coerenza con i principi generali in materia di costi (certezza, effettività, inerenza e competenza).
Affinità di argomento impone di far cenno al regime – agevolatorio – di liquidazione dell'IVA di gruppo, previsto dall'art. 73, comma 3, d.P.R. n. 633 del 1972, che contempla la possibilità di optare per la compensazione del credito di imposta di una società con gli importi dovuti a debito, per la medesima imposta, da altra società appartenente allo stesso gruppo. SS.UU., 2 febbraio 2016, n. 1915, afferma che detto regime (secondo la previsione rilevante ratione temporis) “si applica anche se la società controllante sia una società di persone, senza che rilevi, in senso contrario, quanto indicato dal d.m. n. 11065 del 1979 del Ministero delle Finanze, gerarchicamente subordinato alla legge, né, tantomeno, la successiva circolare dello stesso Ministero n. 16/360711, dovendosi ritenere una diversa interpretazione lesiva del principio di parità di trattamento rispetto a soggetti che operano nel medesimo mercato”.
Trust autodichiarato
Grande rilievo è destinata ad assumere Cass. civ., sez. V, 26 ottobre 2016, n. 21614, intervenuta a proposito della registrazione di un atto di costituzione di un c.d. trust autodichiarato – nel quale erano stati conferiti immobili e partecipazioni sociali – effettuata in misura fissa rispetto alle imposte ipocatastali ed in esenzione, poiché rientrante nella vigente franchigia, rispetto all'imposta sulle donazioni.
La motivazione della sentenza si avvita attorno alla constatazione che il proprium di un conferimento effettuato dal disponente con indicazione dei beneficiari in persona dei discendenti va ricercato nella durata predeterminata dei suoi effetti, la quale sussiste pur a fronte della deduzione della morte del disponente quale dies ad quem (trattandosi, notoriamente, di evento certus nell'an ed incertus solo nel quando).
La fattispecie, dunque, secondo la Corte, si lascerebbe inquadrare nello schema della donazione indiretta, a sua volta imperniata sulla segregazione quale effetto del vincolo di destinazione. In tal modo, la segregazione, che è altro dal trasferimento implicito nel conferimento, assurge ad elemento centrale su cui fondare ogni riflessione per verificare il regime fiscale della trascrizione dell'atto, che a detta fattispecie dà causa, sotto il duplice versante delle imposte ipocatastali e dell'imposta di donazione.
La distinzione è tra quanto accade al tempo presente e quanto è destinato ad accadere solo in prospettiva futura.
Al tempo presente, rispetto alle imposte ipocatastali, venendo in rilievo la segregazione di per se stessa considerata, la registrazione le sconta in misura fissa e non proporzionale.
Nondimeno, in prospettiva futura, poiché dalla segregazione non deriva subito un trasferimento e, quindi, un depauperamento di beni e diritti in capo al disponente con arricchimento dei beneficiari sino al verificarsi della morte del primo, saranno i secondi, dopo che il trasferimento si sarà compiuto, tenuti al pagamento sia delle imposte ipocatastali in misura proporzionale sia, tout court, dell'imposta sulle donazioni.
Mette conto di rilevare che la sentenza di cui si tratta imbocca una strada opposta rispetto ad altro orientamento – rappresentato da svariate pronunce recenti: Cass. civ., sez. VI-T., 24 febbraio 2015, n. 3735; Id., 24 febbraio 2015, n. 3737; Id., 25 febbraio 2015, n. 3886; Id., 18 marzo 2015, n. 5332 – secondo cui l'atto istitutivo di un trust autodichiarato sconta immediatamente l'imposta di donazione in funzione della tassabilità anche della mera segregazione ex art. 2 D.L. n. 262/2006, istitutivo, alla stregua dell'impostazione cui si va accennando, di un'imposta sulla costituzione in sé di vincoli di indisponibilità, a prescindere dalle vicende traslative di beni e diritti.
Prospettive di ulteriore riflessione attendono la Corte – se il contrasto dovesse approfondirsi, anche a Sezioni Unite – alla luce dell'art.6L. n. 112 del 2016, dal quale sembrerebbe doversi desumere che il trust sul “dopo di noi” vada soggetto ad imposizione già al momento dell'atto istitutivo (ferma l'esenzione “dall'imposta sulle successioni e donazioni prevista dall'articolo 2, commi da 47 a 49, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, e successive modificazioni”, prevista dal comma 1 alle condizioni di cui ai commi 2 e 3).
Questioni relative all'IRAP
Nel 2016 ben tre sentenze delle Sezioni Unite hanno sbloccato il contenzioso in materia di IRAP, ritornando sulla delimitazione del presupposto impositivo con affermazioni sia di principio che di dettaglio.
L'affermazione di principio risiede nella sentenza pubblicata per ultima. Invero, SS.UU., 10 maggio 2016, n. 9451, proclama che sussiste l'autonoma organizzazione, quale presupposto dell'IRAP, qualora un esercente attività libero-professionale, artistica o di lavoro autonomo si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore addetto a mansioni di segreteria o meramente esecutive. L'importanza del principio di diritto di cui si tratta risiede in ciò che la Corte, nell'inerzia del legislatore pur a fronte della delega a revisionare l'imposizione d'impresa, viepiù con particolare riferimento all'IRAP, ha avvertito l'urgenza di individuare un limite massimo al di sotto del quale non far scattare il requisito dell'autonoma organizzazione quale presupposto dell'assoggettamento ad imposta. Tale limite, individuato nell'impiego di un solo collaboratore, a qualunque titolo, purché addetto a mansioni d'ordine materiale, ha l'indiscutibile pregio pratico di favorire l'impiego nelle piccolissime realtà produttive che costituiscono il tessuto vitale del Paese e nel contempo di favorire la lotta al c.d. lavoro nero.
La Corte dice quando non si applica l'IRAP, ma dice anche quando l'IRAP deve indefettibilmente applicarsi. Per vero, SS.UU., 14 aprile 2016, n. 7371, sposando la linea del massimo rigore, stabilisce che società ed enti vanno sempre soggetti all'IRAP, in quanto, a termini dell'art. 2, secondo periodo, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, l'attività dai medesimi esercitata costituisce in ogni caso presupposto d'imposta; ne consegue che, ai fini dell'imposizione, dinanzi ad una società o ad un ente, si prescinde dall'accertamento della sussistenza del requisito dell'autonoma organizzazione, essendo sufficiente la constatazione della loro natura giuridica collettiva.
Chiude il cerchio SS.UU., 13 aprile 2016, n. 7291, a termini della quale le forme associative di cui all'art. 3, comma 1, lettera c), del D.Lgs. n. 446/1997, cit., comprese le associazioni professionali in forza dell'equiparazione alle società semplici exart. 5, comma 3, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, soggiacciono sempre all'IRAP, prescindendosi dal requisito dell'autonoma organizzazione; tuttavia – abbandonato il piano delle affermazioni generali per scendere nel dettaglio – la Corte ritiene che la medicina di gruppo non sia una forma associativa rilevante alla stregua delle predette disposizioni, in quanto si configura come un organismo promosso dal Servizio Sanitario Nazionale, in seno al quale è diretto a realizzare più avanzate forme di presidio della salute pubblica. Conclusivamente, la medicina di gruppo si sottrae sì all'IRAP, ma soltanto nel rispetto dei limiti strutturali posti dalla convenzione.
Questioni relative all'IVA
Sull'IVA, oltre a SS.UU., 8 settembre 2016, n. 17758, già citata, vengono in linea di conto tre altre pronunce, due delle quali delle Sezioni Unite.
SS.UU., 21 aprile 2016, n. 8059: fa piena applicazione del principio di neutralità fiscale, tal per cui il fatto generatore dell'imposta si identifica con l'espletamento dell'operazione, sicché il compenso del professionista è gravato dall'IVA anche se percepito successivamente alla cessazione dell'attività ed alla sua formalizzazione.
Si sofferma, poi, sulla ratio dell'impostaSS.UU., 15 marzo 2016, n. 5078, secondo cui “la tariffa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, istituita dall'art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, oggi abrogato, avendo natura tributaria, non è assoggettabile all'IVA, che mira a colpire la capacità contributiva insita nel pagamento del corrispettivo per l'acquisto di beni o servizi e non in quello di un'imposta, sia pure destinata a finanziare un servizio da cui trae beneficio il medesimo contribuente”.
Di contro, è soggetto all'IVA un ente territoriale che ritrae stabile utilità, sotto forma di corrispettivo, dalla concessione della rete locale del gas, giacché deve essere considerato tale “chiunque eserciti un'attività economica che, ai sensi dell'art. 4 della direttiva n. 77/388/CE, oggi sostituito dall'art. 9 della direttiva n. 112/2006/CE, come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria, comprende ogni operazione di ‘sfruttamento' del bene, da intendersi come possibilità di trarre da esso in modo stabile un'utilità sotto forma di corrispettivo, mentre non integra presupposto impositivo la ‘redditività' dell'attività” (Cass. civ., sez. V, 9 agosto 2016, n. 16734; nello stesso senso, qualche giorno prima, Id., 13 luglio 2016, n. 14263: “La concessione da parte di un comune del servizio di somministrazione di gas è una attività economica attratta nel campo dell'applicazione dell'imposta, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, sicché l'ente concedente è soggetto passivo d'imposta sui canoni riscossi in ragione del rapporto sinallagmatico instaurato con l'azienda concessionaria del servizio, la quale, essendo tenuta all'imposta in via di rivalsa, ha diritto alla detrazione ex art. 19 del citato decreto”).
Questioni relative a dazi e dogane
A proposito di dazi e dogane, si registrano due pronunce degne di nota.
Cass. civ., sez. V, 6 luglio 2016, n. 13770, statuisce che “gli accertamenti compiuti a posteriori dagli organi esecutivi della Commissione per la lotta antifrode hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziali e, quindi, possono essere posti a fondamento dell'avviso di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando poi al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria” (e quindi la prova dell'effettiva sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolato). La pronuncia di cui si tratta si diffonde anche sulla descrizione dello stato di buona fede dell'importatore necessario (ma anche sufficiente) all'esenzione della contabilizzazione a posteriori dei dazi ex art. 220, numero 2, lettera b), del Regolamento CEE n. 2913 del 1992 (Codice doganale comunitario). Il debitore conserva il diritto all'esenzione se, rispettate tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, non è in grado di riconoscere l'errore dell'autorità e comunque non è gravato da un obbligo di diligenza sull'oggetto su cui è caduto l'errore dell'Autorità: pertanto, ove detto errore consista nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell'esportatore – in particolare sull'origine della merce – la buona fede esula ed il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che a successivi controlli si riveli falso.
V'è poi Cass. civ., sez. VI-T., 6 maggio 2016, n. 9278, degna di nota perché torna sul tema del contraddittorio, affrontandolo in prospettiva europea. Essa, infatti, rimette alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), sul dedotto contrasto con il principio generale del contraddittorio procedimentale di matrice euro-unitaria della normativa italiana in tema di impugnazione in via amministrativa dell'atto doganale di cui agli artt. 66 ss. del Testo Unico delle Leggi Doganali (TULD), laddove detta normativa non prevede, in favore del contribuente che non sia stato ascoltato prima dell'adozione dell'atto impositivo da parte dell'Amministrazione Doganale, la sospensione dell'atto come conseguenza diretta della proposizione dell'impugnazione.
Su un piano generale, è noto come le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza del 29 luglio 2013, n. 18184, abbiano stabilito che è nullo l'atto impositivo emesso prima della scadenza del termine dilatorio di sessanta giorni dalla verifica previsto dall'art. 12, comma 7, st. contr., evocando l'esistenza di un principio generale di contraddittorio procedimentale.
Rispetto a Cass. civ., sez. VI-T. n. 9278 del 2016, cit., la questione oggetto del rinvio pregiudiziale nasce in considerazione del fatto che il costante orientamento della S.C. ritiene l'inapplicabilità, in materia doganale, dell'art. 12 cit., poiché la stessa è governata dalla disciplina speciale di cui all'art. 11 D.Lgs. n. 374/1990, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all'impugnazione in giudizio del suddetto avviso (ad es., Cass. civ., sez. V, 10 dicembre 2014, n. 25975; Id., 2 luglio 2014, n. 15033; Id., 9 maggio 2014, n. 10070). D'altronde, per SS.UU., 9 dicembre 2015, n. 24823, "differentemente dal diritto dell'Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all'Amministrazione Finanziaria che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l'invalidità dell'atto. Ne consegue che, in tema di tributi ‘non armonizzati', l'obbligo dell'Amministrazione Finanziaria di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito. In tema di tributi ‘armonizzati', invece, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell'Unione Europea, la violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell'Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l'invalidità dell'atto, purché, in giudizio, il contribuente assolva l'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l'opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell'interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto".
L'urgenza del rinvio pregiudiziale discende dalla posizione della giurisprudenza euro-unitaria. Infatti la Corte di Giustizia dell'Unione Europea, a partire dalla sentenza 18 dicembre 2008, Sopropé, C-349/07, ha attribuito al diritto di essere ascoltati il valore di principio fondamentale dell'Unione Europea "in qualsiasi procedimento" (ovviamente riguardante un tributo armonizzato), pur in assenza di norme specifiche, in quanto radicato nelle “tradizioni costituzionali degli Stati membri”. Siffatta conclusione ha trovato conferma in materia doganale nella sentenza 3 luglio 2014, Kamino International Logistics, C-129/13. Più in particolare, alla stregua di essa, i diritti della difesa del contribuente "sono violati quand'anche abbia la possibilità di far valere la sua posizione nel corso di una fase di reclamo amministrativo ulteriore, se la normativa nazionale non consente ai destinatari di siffatte intimazioni, in mancanza di una previa audizione, di ottenere la sospensione della loro esecuzione fino alla loro eventuale riforma. È quanto avviene, in ogni caso, se la procedura amministrativa nazionale che attua l'art. 244, secondo comma, delRegolamento CE n. 2913/92, limita la concessione di siffatta sospensione allorché vi sono motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l'interessato".
Riflessioni conclusive sul procedimento amministrativo
Le digressioni su Cass. civ., sez. VI-T. n. 9278 del 2016, cit., inducono ad una riflessione più ampia, che riporta al punto di partenza, il procedimento amministrativo.
Abbandonato il settore dei dazi e delle dogane per assurgere nuovamente ad una valutazione omnicomprensiva del contraddittorio, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con ordinanza n. 1 del 10 gennaio 2016, rimette gli atti alla Corte Costituzionale affinché verifichi la tenuta costituzionale dell'art. 12, comma 7, st. contr. nella parte in cui limita la salvaguardia del diritto del contribuente a non essere destinatario di un atto impositivo prima del termine di sessanta giorni dal verbale alle sole ipotesi di accessi, ispezioni e verifiche nei locali destinati all'esercizio dell'attività, senza menzionare anche le ulteriori forme di controllo.
Potrebbe essere finalmente l'occasione, per il Giudice delle Leggi, di affrontare la ricostruzione del mare magnum del contraddittorio da un'angolazione unitaria.
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Sommario
Questioni relative ai presupposti in sé del procedimento amministrativo: i problemi posti dalla c.d. lista Falciani in generale...
… (Segue) e nel confronto con il rito penale
Utilizzabilità degli elementi probatori e rispetto del termine di verifica
Utilizzabilità degli elementi probatori e disciplina degli accessi