L'accertamento penale di elementi fittizi non opera automaticamente nel giudizio tributario
21 Luglio 2016
Nel processo tributario l'efficacia vincolante del giudicato penale di insussistenza del reato di esposizione di elementi passivi fittizi mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti non opera automaticamente per i fatti relativi alla correlata azione di accertamento fiscale, poiché da un lato vigono limitazioni della prova (vedi ex art. 7 D.Lgs. n. 546/1992) e dell'altro presunzioni idonee a fondare una pronuncia penale di condanna, con la conseguenza che, stante l'evidenziata autonomia del giudizio tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali recependone acriticamente le conclusioni. Dunque, nell'esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, il giudice tributario deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendo a confronto con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio. Questo quanto enunciato dai Supremi Giudici nella sentenza n. 14476/2016.
Da ultimo i giudici chiariscono un ulteriore punto: l'art. 7 d.P.R. n. 600/1973 dispone che l'autorizzazione che necessita l'Amministrazione finanziaria per poter svolgere le indagini finanziarie non deve essere corredata dall'indicazione dei motivi. Questo perchè la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, ma anche perchè nonostante il nomen iuris adottato (incidente soltanto nei rapporti tra i vari uffici, che ha una funzione organizzativa e natura di atto meramente probatorio) non è nemmeno qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali, rispettivamente l'art. 3 della L. n. 241/1990 e l'art. 7 della L. n. 212/2000, prevedono l'obbligo di motivazione.
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