La vexata quaestio dei “dirigenti decaduti”
20 Febbraio 2017
Premessa
Sintesi di un anno (II° semestre 2015 – I° semestre 2016) di giurisprudenza tributaria d'appello lombarda. Nell'alveo della vexata quaestio dei dirigenti decaduti (cioè dichiarati tali con la sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015) sono confluite a ben vedere istanze eterogenee, che hanno dato adito ad orientamenti contrastanti se non anche a fraintendimenti terminologici. Anche con riferimento ai possibili effetti della pronuncia della Consulta sui ricorsi pendenti, dottrina e giurisprudenza hanno manifestato opinioni talora discordanti. Qualifiche e funzioni
La qualifica (c.d. grado) è il presupposto - necessario ma non sufficiente - per avere legittimamente attribuita una funzione, che consiste nell'esercizio di poteri e competenze come quella di impegnare/rappresentare all'esterno l'ente d'appartenenza organica. Anche se nel linguaggio colloquiale molti dei sotto riportati termini spesso si usano impropriamente come sinonimi - ed il c.d. “dottorato di cortesia” viene spesso usato nel rivolgersi a chiunque lavori in un ufficio pubblico - quando si fa riferimento alla qualifica valgono le locuzioni: Dirigente, Funzionario, Assistente, Operatore etc.; quando, invece si fa riferimento alla funzione, valgono le locuzioni: Direttore, Capo Ufficio, Capo Area, Capo Team etc..
La qualifica legittimamente spettante* secondo i principi previsti agli artt. 51, c.1 e 97 Cost., non può che essere quella conseguita all'atto dell'assunzione o, successivamente, nei soli modi previsti dalla legge (C.d.S., sez. V, n. 4398/05; id. sez. IV n. 7074/04 e sez. trib. n. 4301/03); la funzione viene attribuita, tenendo conto della qualifica minima necessaria, dai responsabili gerarchici.
I testi normativi tributari hanno cominciato a prevedere apertis verbis la qualifica dirigenziale, decenni dopo la relativa istituzione, solo per i preposti ad alcuni uffici con il D.Lgs. n. 300/1999, che, innovando il lessico fino ad allora usato, all'art. 66, c.3, così dispone: “L'articolazione degli uffici, a livello centrale e periferico, e' stabilita con disposizioni interne …” secondo le quali (cfr. Statuto dell'Agenzia delle Entrate, approvato con delibera del Comitato Direttivo n. 6 del 13 dicembre 2000 ed aggiornato fino alla delibera del Comitato di gestione n. 11 del 21 marzo 2011, nonché il Regolamento di amministrazione dell'Agenzia delle Entrate, approvato con delibera del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000 ed aggiornato fino alla delibera del Comitato di gestione n. 57 del 27 dicembre 2012, all'art. 5, commi 5 e 6):
Secondo la migliore dottrina, il D.Lgs. n. 165/2001, che attualmente regola l'applicazione delle norme sul Pubblico Impiego ai rapporti di lavoro alle Amministrazioni Pubbliche come le Agenzie Fiscali, con l'art. 4, c.2 ha dato continuità nel tempo (art. 3, D.Lgs n. 29/1993, come sostituito prima dall'art. 2, D.Lgs n. 470/1993 poi dall'art. 3, D.Lgs n. 80/1998 e successivamente modificato dall'art. 1, D.Lgs. n. 387/1998) alla precedente disciplina dei c.d. poteri di firma già prevista dall'art. 3, c. 2, D.Lgs. n. 29 cit. ("ai dirigenti spetta … l'adozione di tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno”), che riserva ai dirigenti la competenza esclusiva ad impegnare verso l'esterno un ufficio di livello dirigenziale, lasciando tale competenza ai funzionari (non dirigenti) limitatamente agli uffici non dirigenziali.
In particolare: Per carriera dirigenziale (da dirigente) si intende quella di cui all'art. 17, c. 1, lett. d) del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165: “dirigono, coordinano e controllano l'attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia”. Le carriere
L'accesso alla qualifica di dirigente della seconda fascia è disciplinato dall'art. 28, c.2, D.Lgs. 165 cit.: “Al concorso per esami possono essere ammessi i dipendenti di ruolo delle pubbliche amministrazioni, muniti di laurea, che abbiano compiuto almeno cinque anni di servizio o, se in possesso del dottorato di ricerca o del diploma di specializzazione conseguito presso le scuole di specializzazione individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, almeno tre anni di servizio, svolti in posizioni funzionali per l'accesso alle quali è richiesto il possesso del dottorato di ricerca o del diploma di laurea.
Le funzioni e le responsabilità dirigenziali sono disciplinate dall'art. 4, c.2: “Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.” e dal seguente comma 3:“Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente [principio di fissità] e ad opera di specifiche disposizioni legislative. [riserva assoluta di legge]”.
2. Per carriera direttiva (da funzionario), invece, si intende quella (ex IX livello poi divenuto Area C) di cui all'art. 20, c.1, lett. d), d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266: “direzione di uffici, istituti o servizi di particolare rilevanza o di stabilimenti di notevole complessità non riservati a qualifiche dirigenziali”. Attualmente vige il CCNL normativo 2006 – 2009 / economico 2006 – 2007.
a) Accesso alla Terza area:
b) Requisiti per l'accesso:
In ogni caso, tutti i dipendenti pubblici, oltre che del conferimento di delega (impersonale - ratione officii - o individuale - ad personam), possono essere destinatari anche di affidamento di mansioni superiori (art. 52, c.2, lett. a) e b) d.lgs. n. 165/2001). In particolare, "Per obiettive esigenze di servizio il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore: - a) nel caso di vacanza di posto in organico, per non più di sei mesi, prorogabili fino a dodici qualora siano state avviate le procedure per la copertura dei posti vacanti come previsto al comma 4 [per il funzionario direttivo trattasi di reggenza dell'ufficio in attesa della destinazione del dirigente titolare (art. 20, c. 1, lett. b), d.P.R. n. 266/1987; cfr. Cass. sent. n. 8166/2002)]; - b) nel caso di sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto, con esclusione dell'assenza per ferie, per la durata dell'assenza [per il funzionario direttivo trattasi di sostituzione del dirigente in caso di assenza o impedimento (art. 20 cit., c.1, lett. a)];
Lo stesso art. 52, al comma 5, puntualizza: “Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla [radicale nullità secondo TAR Lazio, sent. n. 6884/11] l'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore. Il dirigente che ha disposto l'assegnazione risponde personalmente del maggiore onere conseguente, se ha agito con dolo o colpa grave.”
Sul punto, illuminante è la relazione del Procuratore regionale della Corte dei conti per la regione Lombardia all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2016 (pagg. 25 e 26):
Vedasi anche Corte dei Conti, Sezione Centrale del Controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, sentenza n. SCCLEG/2/2016/PREV del 5 febbraio 2016: “Sono illegittimi i conferimenti effettuati senza il rispetto delle forme regolamentari di pubblicità dei posti vacanti ed in assenza delle procedure valutative in quanto il suddetto procedimento appare effettuato al duplice scopo di contemperare sia l'interesse dell'Amministrazione ad attribuire il posto al più idoneo in ossequio al principio del buon andamento, sia ad assicurare la parità di trattamento e le legittime aspirazioni degli interessati, come ripetutamente affermato da questa Sezione con delibere nn.21/2010/PREV, 3/2013/PREV, 25/2014/PREV".(massima ufficiale). Vedasi anche: Corte dei Conti, Sezione Centrale del Controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato, deliberazione n. SCCLEG/7/2016/PREV del 28 aprile 2016; T.A.R. Umbria, Sezione Prima, sentenza 192 del 30 aprile 2015; T.A.R. Puglia, Sezione Seconda, sentenza 3661 del 21 dicembre 2015 ed Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.Ac.) deliberazione n.87 del 3 febbraio 2016.
Ove le mansioni di cui all'art. 52, c.2, lett. a) e b) cit. siano affidate ad altro dipendente pubblico con il medesimo profilo professionale richiesto, non trattasi di affidamento di mansioni superiori ma di incarico c.d. “ad interim”; sia le mansioni delegate sia quelle affidate sono prive di compensi aggiuntivi nella misura in cui rientrano nella omnicomprensività della retribuzione tabellare del suo profilo professionale (cfr. CdC, sez. giur. Regione Sicilia, sent. 26 marzo 2007, n. 801: “Per i dipendenti pubblici vige, nel nostro ordinamento giuridico, il principio immanente di onnicomprensività del trattamento economico per cui non è possibile remunerare il dipendente con compensi extra-ordinem per compiti rientranti nelle mansioni dell'Ufficio ricoperto"). In passato, anche per questo, appena dopo l'istituzione della qualifica (ex carriera) dirigenziale in tre fasce: 3ª amministrativa, 2ª superiore e 1ª generale (la 2ª e la 3ª sono state accorpate e si opina per una prossima unificazione complessiva dell'intera qualifica dirigenziale), nella conferenza degli Ispettori compartimentali delle II.DD. dei giorni 18-19 luglio 1974, la prescrizione data fu che gli uffici dirigenziali temporaneamente vacanti fossero affidati "ad interim" ad un dirigente di pari livello (nunc fascia).
Una medesima articolazione funzionale come l'Ufficio Controlli o l'Ufficio Legale oppure ancora l'Ufficio Territoriale, quindi, è stata normalmente prevista e costituita di livello dirigenziale (come a Lodi, Sondrio, Lecco, Como etc.) ma, in rari eccezionali casi, anche di livello meramente direttivo (come a Crotone, Rieti, Vibo Valentia, Isernia, Oristano etc.), in funzione della rilevanza minima della sede. Sia il dirigente titolare (ad esempio) dell'Ufficio Controlli di Lodi sia il funzionario titolare (ad esempio) dell'Ufficio Controlli di Crotone vengono delegati per la sottoscrizione degli atti emessi dai rispettivi uffici dal proprio legittimo Direttore Provinciale ratione officii (ex art. 66, c.3, D.Lgs. n. 300/1999 e relative disposizioni interne) e non ad personam, come invece normalmente accade, per le questioni routinarie e di scarso rilievo, quando viene delegato, ad esempio, un Capo Team (che non è mai dirigente ma, al più, funzionario). Quindi, secondo la giurisprudenza tributaria lombarda qui in rassegna, mentre per la rilevanza interna degli atti endoprocedimentali è sufficiente la sottoscrizione di un funzionario qualsiasi, assegnatario della pratica con un mero ordine di servizio contenente disposizioni organizzative, gli atti aventi rilevanza esterna, come gli avvisi di accertamento, gli atti di esercizio della legitimatio ad causam et ad processum* o gli atti di liquidazione d'imposta, devono essere emessi su formale ostensibile delega, impersonale: ratione officii o individuale: ad personam. È di tutta evidenza che solo nei casi di Uffici Controlli o di Uffici Legali oppure ancora di Uffici Territoriali, di livello non dirigenziale (come quelli di Crotone, Rieti, Vibo Valentia, Isernia, Oristano etc.) sarebbe ipotizzabile come legittima una delega impersonale: ratione officii conferita ad un funzionario (non dirigente); ma in tali uffici la vexata quaestio de qua agitur si pone solo in riferimento della legittimazione del Direttore Provinciale delegante (nemo transferre potest quod non habet nec plus quam habet), esattamente come la si pone per gli Uffici Controlli o gli Uffici Legali oppure ancora gli Uffici Territoriali di livello dirigenziale (ad esempio quelli di Lodi, Sondrio, Lecco, Como etc.) nei quali è necessaria la legittima attribuzione di poteri e funzioni dirigenziali anche per il dirigente titolare dell'Ufficio Controlli, dell'Ufficio Legale oppure ancora dell'Ufficio Territoriale, in quanto delegato ratione officii proprio a causa della sua legittima preposizione a quell'ufficio.
Occorre preliminarmente valutare il contributo ermeneutico* dell'aggettivo “altro” di cui al 1° comma; secondo il valore semantico delle parole (vox iuris) sia l'impiegato delegato sia il capo dell'ufficio delegante dovevano appartenere alla medesima “carriera direttiva” [Altro = ulteriore, nuovo, che si aggiunge a qlco. di precedente: un a. caffè, per favore; ci sono a. domande?; novello, secondo: crede di essere un a. Picasso (il Sabatini Coletti. Dizionario della Lingua Italiana)]. Nessun riferimento del legislatore delegato si rinveniva sulla, allora nuovissima, figura del “dirigente”.
Inevitabile postulato era che non tutti gli appartenenti alla “carriera direttiva” fossero capi dell'ufficio ma che tutti i capi dell'ufficio dovessero necessariamente appartenere alla “carriera direttiva”, anche se non era più così già allora: dalla qualifica (ex carriera) “direttiva” - come prevista dal d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 – era stata enucleata quella “dirigenziale” - con il d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748 - che è attualmente disciplinata dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165; i testi normativi tributari, tuttavia, cominciarono ad indicare il dirigente, distinguendolo apertis verbis dal funzionario direttivo, solo alcuni decenni dopo. Diverso senso avrebbe avuto la locuzione: “avvisi sottoscritti dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”; il capo dell'ufficio, in questo caso, non sarebbe stato “qualificato” – potendo essere dirigente o direttivo a seconda del livello dell'ufficio cui era preposto - a differenza dell'impiegato delegato che sarebbe stato esclusivamente della “carriera direttiva”. Ove la delega fosse stata conferita ad altro dirigente si sarebbe versato in una ipotesi diversa da quella di cui al citato ipotizzato art. 42, consentita per il quid pluris rappresentato dal dirigente rispetto al funzionario direttivo. Ma questa interpretazione (lex plus dixit quam voluit) è fin troppo “larga” per essere proponibile.
In effetti, tutto diventa più chiaro ove si voglia accettare che, la storica categoria della “carriera direttiva” continuava ad essere genericamente intesa come genus comprensivo sia della nuova qualifica dirigenziale sia di quella residuale direttiva, anche perchè tutti i precetti rivolti alla funzione di Capo dell'Ufficio non facevano differenze: infatti, l'intero impianto normativo tributario degli anni 1971-73 (legge delega e relativi decreti delegati) non recava alcuna differenziazione testuale riferita alla qualifica di dirigente/direttivo ma solo riferita alla funzione di “Capo dell'Ufficio”. Inoltre, spesso si continua ad usare il termine “Direttore” come sinonimo di “Capo dell'ufficio”, anche se trattasi di “Dirigente” e la locuzione corretta sarebbe “Dirigente Capo dell'ufficio”; tale locuzione manifesta al destinatario i poteri dirigenziali e la rappresentanza organica dell'ufficio, escludendo equivoci e confusioni anche con i dirigenti in sottordine (Capi area, Assistenti di direzione etc.) eventuali meri delegati, privi di rappresentanza organica dell'ufficio.
Tuzioristicamente, l'articolato in esame veniva al tempo interpretato nel senso che sia il capo dell'ufficio delegante (ufficio di livello dirigenziale o direttivo che fosse) sia l'impiegato delegato dovessero appartenere alla medesima qualifica (dirigenziale o direttiva che fosse) onde evitare qualsiasi possibile vizio dell'atto - posto in essere dal funzionario direttivo su delega dal dirigente - per difetto di attribuzione. Tanto è vero che, come già detto, poco dopo la creazione della qualifica dirigenziale, nella conferenza degli Ispettori compartimentali delle II.DD. dei giorni 18-19 luglio 1974, la prescrizione data fu che gli uffici dirigenziali temporaneamente vacanti fossero affidati "ad interim" solo a dirigenti di pari livello, atteso che la responsabilità dirigenziale sta a quella direttiva come quella di “risultato” sta a quella di“mezzo”. Incomincia a mitigare tale assunto l'art. 20, c.1, lett. d) del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 che, tra l'altro, assegna al personale appartenente alla nona qualifica funzionale la “direzione di uffici, istituti o servizi di particolare rilevanza o di stabilimenti di notevole complessità non riservati a qualifiche dirigenziali”. Si tratta di un'evoluzione - volta a diversificare e “gerarchizzare” gli uffici in due distinti livelli: quelli più rilevanti come dirigenziali e gli altri come meramente direttivi - che ha avuto diverse tappe. La Legge 11 luglio 1980, n. 312, recante il nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato, ha istituito le qualifiche funzionali. L'art. 4 della legge (concernente il primo inquadramento nelle suddette qualifiche) prevedeva che il personale della ex carriera direttiva transitasse nella VII e nell'VIII qualifica (la IX venne istituita successivamente), e precisamente: "nella settima qualifica funzionale il personale ( .. ) della carriera direttiva con le qualifiche di consigliere e di direttore di sezione o qualifiche equiparate; nell'ottava qualifica funzionale il personale della carriera direttiva con la qualifica di direttore aggiunto di divisione o qualifica equiparata e personale delle carriere direttive strutturate su una unica qualifica".
Il passaggio successivo è intervenuto con il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto ministeri per il quadriennio 1998-2001, il cui art. 13 (Aree di inquadramento) prevedeva che "Il nuovo sistema di classificazione del personale, improntato a criteri di flessibilità correlati alle esigenze connesse ai nuovi modelli organizzativi, si basa sui seguenti elementi: a) Accorpamento delle attuali nove qualifiche funzionali in tre aree: ( ... ) Area C - comprendente i livelli dal VII al IX e il personale del ruolo ad esaurimento". L'area era articolata nelle posizioni Cl, C2 e C3, nella quale è rispettivamente confluito il personale della VII, VIII e IX qualifica. L'ultima tappa è costituita dal contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, il cui art. 17 (Classificazione) prevede che "Il sistema di classificazione del personale ( ... ) è articolato in tre aree: ( ... ) Terza area: comprendente le ex posizioni Cl, C2 e C3". La terza area è suddivisa in sei fasce retributive (da Fl a F6): le aree corrispondono a livelli omogenei di competenze, conoscenze e capacità; ne consegue che tutte le mansioni di un'area sono considerate equivalenti e parimenti esigibili dal personale inquadrato nell'area stessa, a prescindere dalle fasce retributive in cui è ripartita la sua posizione economica (vds. cass. 22800/2015, il cui principio di diritto è stato pronunciato d'ufficio, ex art. 363, c.3, c.p.c.; cfr. anche Atto Camera 6330/2015 cit., Risposta MEF: “I giudici hanno infatti ritenuto (TAR Lazio, sentenza n. 9352 del 2013 e sentenza n. 3007 del 2015) che … le posizioni economiche all'interno di un'area si dovevano considerare tutte equivalenti dal punto di vista mansionale …”).
Alla luce della ricostruzione che precede, dopo la precisazione normativa introdotta con il Dlgs. 30 luglio 1999, n. 300, per le agenzie fiscali la vecchia “carriera direttiva” viene individuata senza più incertezze nella sola terza area e la delega del dirigente al funzionario direttivo è inizialmente considerata praticabile solo nei limiti in cui le attività delegate non siano riservate a qualifiche dirigenziali e rientrino nel profilo professionale del funzionario direttivo delegato, onde evitare le perentorie nullità normativamente previste in caso di illegittimo conferimento di mansioni superiori, il maggiore trattamento economico connesso e la responsabilità personale del delegante per il maggior esborso. La delega de qua, resta distinta dalle attribuzioni di funzioni dirigenziali attraverso le procedure regolate prima dall'art. 24 del Regolamento e poi dall'art. 8, comma 24, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 2012, n. 44 (disposizioni entrambe cancellate dalla Corte Costituzionale e dal Consiglio di Stato); infatti, mentre l'art. 42 in esame prevede una delega c.d. di firma, le norme caducate invece prevedevano una delega c.d. di funzione, conferendo illegittimamente, attraverso contratti, uno “status giuridico-economico” denso di aspettative di carriera e rilevanti riflessi economici.
Le Agenzie fiscali, che hanno personalità giuridica di diritto pubblico ed autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria ex art. 61, c.1, d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, stanno in giudizio a mezzo del Direttore Generale, che ne ha la rappresentanza organica (artt. 67 e 68), con l'eventuale assistenza tecnica dell'Avvocatura dello Stato. La legge istitutiva, quindi, attribuisce la personalità giuridica all'Agenzia fiscale, ente pubblico non economico, e non alle sue articolazioni sul territorio (Direzioni regionali e provinciali). Ai sensi degli artt. 10 (legitimatio ad causam) ed 11 (legitimatio ad processum) del D.lgs. 546/1992, nonché dell'art. 37 D.lgs. 545/92 (attività d'indirizzo attribuita agli uffici regionali), tuttavia, “l'ufficio delle entrate … al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso” è parte processuale con accesso diretto alla propria difesa tecnica davanti alle Commissioni tributarie attraverso la rappresentanza organica del proprio Capo dell'ufficio (il D.lgs.546 non contempla il “ministero” di cui agli artt. 82, 83, 84, 85 e 86 c.p.c.). L'art. 9, d.lgs. 156/2015 - in vigore dal 01/01/2016 – modifica così l'art. 11, d.lgs. 546/92: 1) il comma 2 e' sostituito dal seguente: «2. L'ufficio dell'Agenzia delle entrate e dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 nonche' dell'agente della riscossione, nei cui confronti e' proposto il ricorso, sta in giudizio direttamente o mediante la struttura territoriale sovraordinata. …».
In effetti, il Regolamento di amministrazione dell'Agenzia delle Entrate, agli artt. 5, c.1 e 3, e 7, c.1, attribuisce alla direzione regionale e provinciale quanto già previsto dai dd.lgs. 545 e 546 del 1992. Secondo la giurisprudenza di legittimità “Gli uffici locali dell'Agenzia, esplicazione territoriale dell'Agenzia centrale, sono, quindi, legittimati ad agire ed essere convenuti nei giudizi davanti alle Commissioni tributarie ed in questi sono rappresentati dal Direttore nominato, avente funzione dirigenziale, che per la gestione e l'adempimento dei compiti ad esso demandati può delegare suoi diretti collaboratori a scopi determinati” (Cass. 3058/2008 e, nello stesso senso, Cass. 13908/2008). “Le costituzioni in giudizio … erano state firmate dal responsabile dell'ufficio, Direttore pro-tempore, nel rispetto del disposto dell'art. 42, d.P.R. n. 600/73”. (Cass. 6338/2008); infatti, il principio generale che presiede alla sottoscrizione degli atti impositivi è ovviamente il medesimo degli atti processuali*, ove l'agenzia fiscale ribadisce il proprio potere impositivo - chiedendone al giudice conferma - stando in giudizio nella persona del direttore dell'ufficio.
Secondo Cass. n. 674/1973, “nel linguaggio dei codici vigenti, sia sostanziale che di rito, con il termine “rappresentanza” viene designato non soltanto il fenomeno rappresentativo in senso proprio, contemplato dagli artt. 1387 e seguenti c.c., ma anche quello della cosiddetta immedesimazione organica, alla quale è quindi applicabile la disciplina positiva dettata per la rappresentanza, in difetto di una contraria indicazione letterale della legge o di una ragione di incompatibilità intrinseca tra questo fenomeno e tale disciplina.”; quindi, come da Cass. n. 2681/1993. “La disciplina del negozio concluso da un rappresentante senza poteri (ex art. 1399 c.c.) si applica anche alla rappresentanza organica degli enti pubblici”. Per quanto paradossale possa sembrare, pertanto, sono nulle anche le deleghe rilasciate da un dirigente decaduto, illegittimo Capo dell'ufficio, ad un dirigente legittimo in sottordine, poiché il delegante è privo della rappresentanza organica degli enti pubblici e, conseguentemente del potere impositivo e della legitimatio ad causam et ad processum da trasferire.
Premesso che normalmente si versa nell'ipotesi di mera delega di firma, si distingue e precisa che:
N.B. Il rapporto di servizio fa sorgere per il dipendente pubblico il c.d. “dovere d'ufficio” (officium) consistente nell'attività da porre doverosamente in essere per l'ufficio nel quale è incardinato ed al quale va riferita.
Sul punto, ex plurimis:
Premesso che non può trovare applicazione l'art. 156 c.p.c. (Rilevanza della nullità), nonostante il rinvio dinamico di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. 546/1992, perché gli atti impositivi impugnati non sono atti processuali (Cass. 3040/2008), trattandosi di una derivata nullità assoluta ex art. 21-septies, L. 241/90 (c.d. inesistenza giuridica), tale actio nullitatis può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio, anche d'ufficio (Cass. 12104/2003), nell'interesse della legge. Non è, pertanto, applicabile l'art 345 c.1, c.p.c. (art. 57, c.1, D.Lgs. n. 546/1992). “Domande ed eccezioni nuove”, ove la sentenza della Corte costituzionale sia sopravvenuta (jus superveniens) agli atti introduttivi del giudizio (contra non valentem non currit praescriptio), ma il comma 2, che consente alle parti interessate di proporre alla cognizione del giudice le eccezioni rilevabili d'ufficio, per superare quanto disposto dell'art. 7, c.1, D. Lgs. n. 546/1992, secondo cui il giudice non può pronunciarsi oltre i limiti dei fatti allegati dalle parti.
"In caso di pronunzia di incostituzionalità intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso per cassazione e rilevante sulla materia del contendere, il controllo di legittimità della sentenza impugnata deve essere condotto in conformità alla nuova disciplina, a nulla ostando che il relativo motivo sia stato per la prima volta introdotto per mezzo della memoria" (Cass. civ., n. 5195/1991). “Il Collegio ritiene che la predetta dichiarazione di incostituzionalità - ancorché non richiamata nei motivi di ricorso - debba essere tenuta comunque presente dall'organo giudicante ai fini della decisione sull'appello” (CdS n. 1740/2007, conforme n.1495/2000).
Del pari inconferente è, poi, anche l'art. 24, D.lgs. n. 546/1992, atteso che fa riferimento ad integrazione dei motivi già posti a fondamento del ricorso introduttivo del giudizio, “resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione”; nel caso che qui ci occupa il “documento non conosciuto” non è un “atto del processo” - depositato motu proprio o iussu iudicis dalla controparte - ma è la sopravvenuta citata sentenza dichiarativa della Corte costituzionale, con efficacia retroattiva erga omnes. Ammonisce Cass. civile, sez. VI, n. 20858 del 14 ottobre 2016* (Stralcio): ”… secondo consolidato orientamento di questa Corte, "in tema di accertamento tributario, ai sensi dell'art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d'ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell'ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva” (da ultimo, Cass. civ., sez. trib., n. 22810/15), con la conseguenza che "la sottoscrizione dell'avviso di accertamento — atto della p.a. a rilevanza esterna — da parte di funzionario diverso da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo, ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato, non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall'art. 42, commi 1 e 3, dinanzi citato" (Cass. civ., n. 14195/2000; ord. n. 9736/2016). Inoltre, in ipotesi di contestazione della sottoscrizione riconducibile non già al "capo dell'ufficio titolare", bensì ad un “funzionario della carriera direttiva", "incombe sull'Amministrazione dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell'ufficio, poiché il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell'ufficio (Cass. civ., nn. 14626/2000, n. 17400/2012, n. 14942/2013), dal momento che le qualifiche professionali di chi emana l'atto costituiscono una essenziale garanzia per il contribuente" (Cass. civ., nn. 18758/2014, 22800/2015, 24492/2015). Tanto risulta affermato "sia in base al principio di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (e segnalatamente sulla parte pubblica), sia in base al principio della vicinanza della prova, in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente l'Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente" (Cass. nn. 18758/14, 1704/13, 14942/13), non essendo peraltro "consentito al giudice tributario attivare d'ufficio poteri istruttori, in ragione del fatto che non sussiste l'impossibilità di una delle parti di acquisire i documenti in possesso dell'altra, mentre le parti possono sempre produrre, anche in appello, nuovi documenti nel rispetto del contraddittorio, ai sensi dell'art. 58, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546" (Cass. sent. n. 14942/2013, ord. n. 9736/16)”.
Per Cass. n. 14942/2013, la giustificazione dei poteri del rappresentante (di cui all'art. 1393 c.c.: “il terzo che contratta col rappresentante può sempre esigere che questi giustifichi i suoi poteri e, se la rappresentanza risulta da un atto scritto, che gliene dia una copia da lui firmata”) ha rilevanza anche processuale attribuendo all'ufficio impositore – attore sostanziale nel processo tributario - l'onere della prova per la sussistenza della delega. Alla richiesta di verifica della delega, quindi, eccepita dal contribuente (segnatamente in merito alla frequentissima questione dei dirigenti illegittimi, decaduti ex tunc), la parte pubblica ha l'onere di produzione. Inoltre, secondo Cass. civ., n. 24492 del 2 dicembre 2015, “incombe all'Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l'esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell'ufficio”. Infatti, il riparto dell'onere probatorio di cui all'art. 2697 c.c. deve tenere conto del principio giurisprudenziale di prossimità della prova (Cass. civ., 13542/2012, 17874/2007, 2308/2007 e 13533/2001).
Nelle ipotesi in cui la prova sia di difficile accesso, o addirittura inaccessibile, per un comportamento ascrivibile alla stessa controparte (come l'oscuramento degli elenchi dei dirigenti illegittimi e relativi curricula, dalla pagina “trasparenza amministrativa” del sito ufficiale web dell'Agenzia delle Entrate - in vero, un elenco dettagliato di tutti gli incaricati dirigenziali travolti dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale de qua con i curricula completi di retribuzione, come prevede la legge, non era stato mai approntato), in deroga alla regola generale, l'onus probandi viene posto a carico della parte prossima alla fonte di prova, non solo in adempimento del generale dovere di correttezza e buona fede nell'adempimento delle obbligazioni ma anche, come espressione del principio costituzionale del “giusto processo”, in adempimento dei doveri di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c., nonché del principio generale di cui all'art. 116, c.2, c.p.c.; quindi,“… in caso di contestazione, incombe all'Agenzia delle Entrate l'onere di dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo [sostituzione del dirigente in caso di assenza/impedimento o reggenza dell'ufficio in attesa della nomina del dirigente titolare] da parte del sottoscrittore o la presenza di eventuale delega (impersonale: ratione officii o individuale ad personam), trattandosi di un documento, se esistente, già in possesso dell'amministrazione finanziaria …" (vds. Cass. civ., sent. nn. 5360/2016, 18758/14, 14942/2013, 19739/2012, 17400/2012 e 14626/2000), poichè "… l'esistenza e la validità della delega possono essere contestate e verificate in sede giurisdizionale, implicando l'indagine e l'accertamento sul tema un controllo, non già sull'organizzazione interna della Pubblica Amministrazione ma sulla legittimità dell'esercizio della funzione amministrativa e degli atti integranti la relativa estrinsecazione" (Cass. sent. n. 14195/2000). Documenti attestanti la decadenza dall'incarico dirigenziale o l'invalidità della delega a causa di carenza di attribuzione della necessaria qualifica del delegante o del delegato ovvero per irregolarità delle modalità di conferimento - oltre a poter essere prodotti direttamente in appello come “nuovi documenti” ex art. 58, c. 2, D.Lgs. n. 546/1992 - ove “la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile” possono costituire nuove prove disponibili dal giudice d'appello ex art. 58, c.1, D.Lgs. n. 546/1992; qualora il recupero di tali documenti avvenga durante il termine per l'appello, tale termine viene prorogato in modo da raggiungere i 60 giorni dal recupero ex art. 64, c.3, D.Lgs. n. 546/1992. Ove l'atto delegato risultasse sottoscritto prima del rilascio della delega stessa, tale atto sarebbe irrimediabilmente nullo (CTP Caltanissetta n. 257/1/13).
L'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 546/1992, è norma di chiusura a quanto previsto dall'art.30, c. 1 lett.g), l. 413/1991: “adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile”(“Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria” (art. 2, c.1, D.Lgs. 546/1992) e “Al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile ...” (art. 62, c.2, D.lgs n. 546/1992); tali ulteriori fasi del giudizio tributario restano esclusivamente civili tanto da non potervi prestare assistenza i soggetti di cui all'art. 12, citato decreto, che non siano avvocati.), anche se i “Poteri delle commissioni tributarie” (giurisdizione amministrativa speciale) di cui all'art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, sono governati dal principio dispositivo con metodo acquisitivo, volto a riequilibrare il rapporto asimmetrico tra privato e P.A.: “Nel processo amministrativo il principio sancito dall'art. 64 comma 1, c. p. a., secondo il quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti, deve trovare integrale applicazione anche nel processo amministrativo ogniqualvolta non ricorra disuguaglianza di posizioni tra pubblica amministrazione e privato con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui tale disuguaglianza ricorre, trova applicazione il c.d. "metodo acquisitivo", che consente al giudice di integrare allegazioni probatorie anche parziali, senza peraltro sostituirsi al diretto interessato, il quale deve comunque fornire qualche elemento di riscontro su vizi appresi anche in modo indiretto o desunti dalla documentazione interna acquisita a seguito di accesso agli atti, in nessun caso risultando ammissibili censure del tutto generiche o basate su semplici supposizioni.” Cons. di Stato, sez. IV n. 5696/2011.
Il giudice tributario, non è tenuto all'esercizio dei poteri istruttori di cui all'art. 7, D.Lgs n. 546/1992 per acquisire d'ufficio le prove in caso di inerzia del soggetto onerato, sopperendo all'impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell'altra parte, perché tali poteri (il cui esercizio può tuttavia essere sollecitato da chi ne abbia interesse, anche ai sensi dell'art. 58, c. 1, secondo periodo, D.Lgs. n. 546/1992) sono meramente integrativi (e non esonerativi) dell'onere probatorio principale e funzionali al principio costituzionale della parità della parti nel processo (Cass. civ. nn. 10267/2005, 12262/2007, 2487/2006, 10513/2008); l'art. 23, c. 3, D.Lgs. n. 546/1992, prevedendo che: “nelle controdeduzioni la parte resistente espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente e indica le prove di cui intende valersi, proponendo altresì le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio...” è compatibile con il principio di non contestazione, deducibile dagli art. 167, 416, 186-bis, nonchè 115 c.p.c., trattandosi di un principio generale applicabile anche al processo tributario in forza del più volte citato rinvio dinamico di cui all'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 546/1992 (Cass. civ., n. 16345/2013). “Nel vigente ordinamento processuale i fatti allegati da una delle parti vanno considerati "pacifici" - e quindi possono essere posti a fondamento della decisione - quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte oppure quando questa pur non avendoli espressamente contestati abbia tuttavia assunto una posizione difensiva assolutamente incompatibile con la loro negazione, così implicitamente ammettendone l'esistenza.” Cass. civ. n. 5488/2006. Funzionario di fatto e usurpatore di pubbliche funzioni
La giurisprudenza amministrativa ritiene che gli atti emessi “medio tempore” dal c.d. funzionario di fatto restino imputabili all'Amministrazione d'appartenenza, in virtù del rapporto di immedesimazione organica, e si presumino legittimi fino a quando il cittadino-contribuente non li impugni nella misura in cui siano a lui sfavorevoli. Con la nota sentenza n. 128/1/13, per prima in ambito tributario (diritto amministrativo speciale), la C.T.P. di Messina aveva rilevato che “gli atti in questione mantengono validità se favorevoli al privato” (come, per esempio, i rimborsi, i riconoscimenti di crediti d'imposta e di agevolazioni fiscali, gli annullamenti in via di autotutela, gli atti processuali di rinuncia/accettazione e di conciliazione etc.) in applicazione del principio di apparenza, mentre sono “illegittimi […] per difetto di competenza se sfavorevoli” (come gli avvisi di accertamento) al cittadino-contribuente il quale, quindi, ha un interesse diretto, concreto ed attuale a farli dichiarare illegittimi, eventualmente anche previa disapplicazione di presupposti regolamenti e/o atti generali ritenuti illegittimi ab imis, ex art. 7, c. 5, D.Lgs. n. 546/1992. (vds, art. 5, L. 2248/1865 all. E). “Il fondamento del principio del funzionario di fatto risiede nell'esigenza di non turbare le posizioni giuridiche acquisite da tutti coloro che in buona fede sono entrati in rapporto con il funzionario e di evitare ai privati continue e difficoltose indagini sulla regolarità della posizione dei pubblici funzionari: pertanto, il fatto in sé dell'avvenuto esercizio del potere non è opponibile con effetto preclusivo al privato che intenda contestarlo” (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 6 del 22 maggio 1993), “si deve, infatti, applicare il principio del <<funzionario di fatto>> grazie al quale, in linea di massima, gli atti compiuti restano validi, a meno che non siano stati impugnati nelle forme e nei termini dovuti, facendo valere proprio il vizio del difetto di titolo di chi ha agito come funzionario” (C. di Stato, sez. III, sentenza n. 6534 del 19 dicembre 2012). La c.d. teoria del funzionario di fatto: “si fonda sull'esigenza di garantire i diritti dei terzi che vengono a contatto col funzionario medesimo e si sostanzia dunque nella tutela della buona fede del privato; ed in questa prospettiva gli effetti presi in considerazione dalla teoria in esame sono solo quelli favorevoli al privato. È stato anche affermato che la teoria del c.d. funzionario di fatto si fonda sul principio di continuità dell'azione amministrativa” (Consiglio di Stato, sez. IV, 20 maggio 1999 n. 853; cfr. anche Cons. Giust. Reg. Sic. sentenza n. 170 del 24 marzo 1960; C.di S., Sez. V, sentenze n. 1160 del 15 dicembre 1962 e Sez. IV, n. 145 del 13 aprile 1949). L'assoluta carenza di investitura legittimante – proprio come quella dell'usurpatore di pubbliche funzioni di cui all'art. 347, c.1, c.p. che non costituisce reato solo ove le relative funzioni siano state esercitate con il consenso dell'ente a cui l'ufficio appartiene – costituisce “acompetenza” e gli atti posti in essere da chi versa in tale situazione (se non favorevoli al terzo incolpevole) sono radicalmente nulli perché posti in essere da soggetto ab origine privo della qualità di organo amministrativo, nella misura in cui versa in difetto assoluto di attribuzione ex art. 21-septies Legge n. 241/1990, con conseguente irrilevanza ai fini impugnatori di ogni termine decadenziale previsto (l'art. 31, c. 4, D.Lgs. n. 104/2010 (c.p.a.), secondo il quale “La nullità dell'atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice”, prevedendo un ampio termine decadenziale (180 giorni) per l'esercizio dell'actio nullitatis amministrativa - forse per eterogenesi dei fini – marca per la prima volta normativamente una differenza tra nullità relativa e nullità assoluta (radicale, come definita da TAR Lazio, sent. 6884/11, o inesistenza giuridica) che, ontologicamente, non può essere sottoposta a termini di alcun tipo. N.B. La carenza di potere (elaborata dalla giurisprudenza negli anni '40 come straripamento di potere o difetto di attribuzioni) determina la nullità/inesistenza giuridica).
La dichiarazione costituzionale* di nullità (ex tunc) dell'atto d'investitura presupposto, infatti, avrà ipso iure un effetto derivato c.d. caducante dell'atto impositivo presupponente: simul stabunt, simul cadent.
Ritenuta la competenza misura dell'attribuzione di funzioni e poteri, come quelli dirigenziali, e che l'esercizio della competenza può essere trasferito in capo ad altri soggetti a mezzo di rituale delega (innominata: ratione officii o individuale: ad personam), relativamente ai casi di usurpazione di funzioni pubbliche sia dei deleganti che dei delegati, si versa nell'ipotesi dello straripamento di potere / difetto assoluto di attribuzione per tutti coloro che sono stati nominati in base alle succitate norme dichiarate incostituzionali.
Chiamata a valutare se ed in qual misura l'atto impositivo tributario possa soggiacere al principio di “non annullabilità”, sancito dall'art. 21-octies, c.2, L. 241/1990 (il Regolamento di amministrazione dell'Agenzia delle Entrate, approvato con delibera del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000, all'art.1, c.2, reca un pleonastico rinvio dinamico che così recita: “L'Agenzia si conforma ai principi della legge 7 agosto 1990, n. 241”) la Suprema Corte ha negato tale soggezione perchè vi ha riconosciuto la coesistenza di caratteristiche tipiche sia dell'atto amministrativo vincolato, la cui motivazione consiste semplicemente nella mera enunciazione dei presupposti richiesti dalla legge, riconosciuti nel caso concreto, sia dell'atto discrezionale, la cui motivazione va invece articolata a chiarimento della scelta operata, tra più comportamenti in astratto possibili e consentiti, di quello più adeguato al caso concreto.
Secondo Cass. civ. n. 18448 del 18 settembre 2015, pres. Piccininni e rel. Olivieri, come già accennato, i vizi “testuali” di nullità (La CTP Campobasso n. 1058/2015, distingue l'invalidità dalla illegittimità costituzionale precisando che:” con la recente sentenza n. 18448/2015 la Corte di Cassazione non ha affatto affermato che, nell'ipotesi di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma, deve ritenersi esclusa per il ricorrente la possibilità di far valere, con ulteriore motivo, nuovo rispetto a quelli già dedotti nel ricorso originario, il diritto di giovarsi della decisione della Consulta”.) degli atti tributari sono, quoad effectum, vizi di legittimità dell'atto amministrativo, in quanto "sottoposti al regime della invalidità-annullabilità, con conseguente esclusione di una generale rilevabilità ex officio di detti vizi da parte del giudice" per cui "la eccezione di nullità dell'atto tributario viene, dunque, qualificata ex lege come eccezione ad istanza di parte". Sarebbero, per l'effetto, incompatibili con l'ordinamento tributario:
la nullità testuale dell'atto tributario va intesa, sul piano processuale, come annullabilità e, pertanto, il “thema decidendum” resta perimetrato dalle contestazioni già dedotte con l'originario ricorso introduttivo: “il provvedimento tributario viziato da ‘nullità' si consolida [“Sul principio dispositivo proprio del processo amministrativo prevale, invero, in questo caso, l'esigenza di evitare che le norme dichiarate incostituzionali trovino ancora applicazione da parte del giudice e di impedire che si consolidino gli atti adottati sulla loro base (in tal senso, si veda, tra le tante Cons. Stato, sez. IV, n. 1495/2000". (Cons. di Stato sez.VI n. 1740/2007). “Per costante giurisprudenza, anche di questo Consiglio, le sentenze della Corte costituzionale debbano essere applicate anche d'ufficio, pur in mancanza di specifico motivo di ricorso da parte del ricorrente”. (Cons. di Stato sez.VI n. 1495/2000)], rendendo definitivo il rapporto obbligatorio sottostante e legittimando l'Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta”.
Invece, secondo cass. n. 25017 del 11 dicembre 2015, : “non essendo applicabile al diritto tributario il principio di cui al 1° comma dell'art. 21 octies deve escludersi anche l'applicazione del secondo comma che del primo costituisce una deroga, giustificata proprio dalla circostanza che — nel diritto amministrativo "comune" ogni illegittimità dell'atto ne determina invalidità. Nel diritto tributario, invece, ogni nullità discende o da una specifica indicazione della legge, che ha valutato la gravità della violazione, o dalla violazione di un qualche principio fondamentale dell'ordinamento. Dunque è normativamente escluso che la illegittimità sia irrilevante e quindi risulti "palese che il contenuto dispositivo dell'atto non avrebbe potuto essere - diverso da quello in concreto adottato". ... “La applicabilità dell'art. 21 octies appare anche esclusa dalla circostanza che la illegittimità degli atti tributari è colpita (quando lo è) con una sanzione qualificata di nullità e non di annullabilità (come invece previsto dal primo comma dell'art. 21 octies).”. Di notevole interesse anche la relazione del Consiglio Superiore delle Finanze alla bozza di decreto ministeriale (divenuto D.M. 11 febbraio 1997 n° 37) in materia di autotutela in Tributi, n°6-7 del 1996 secondo la quale “l'autotutela dell'A.F. si atteggia in modo particolare e diverso rispetto agli altri campi di intervento dei pubblici poteri” … “poiché vengono in rilievo situazioni non di interesse legittimo, ma di diritto soggettivo, senza che normalmente l'Amministrazione debba ponderare interessi contrapposti di altri soggetti diversi dal contribuente” e “l'interesse pubblico della medesima a dare una immagine di se di correttezza e di comportamento giusto” … “ricorre quindi quando si riconosca sussistente l'esigenza di mantenere e/o recuperare la fiducia dei contribuenti”; tale relazione non ritiene, inoltre, essere “autotutela in senso proprio i casi in cui l'Amministrazione è chiamata semplicemente a dare applicazione alla normativa (come l'art. 30, L. n. 87/53. N.d.R.), e cioè quelli” … “di dichiarazione di incostituzionalità della norma tributaria”.
Secondo autorevole giurisprudenza,”...un provvedimento amministrativo il cui contenuto sia in contrasto con norme o principi comunitari, non possa essere disapplicato dall'amministrazione, sic et simpliciter, ma debba essere rimosso con il ricorso ai poteri di autotutela di cui la stessa amministrazione dispone” (CdS, sez. V, 8/9/2008, n°4263), ed ove l'atto de quo venisse “autoannullato” in pendenza di giudizio, la condanna alle spese di lite conseguente alla soccombenza virtuale della parte pubblica può essere commisurata alla condotta processuale tenuta successivamente alla pronuncia della Corte costituzionale. Tuttavia, oltre a poter determinare una soccombenza virtuale volta alla condanna alle spese di lite, l'obiettiva illegittimità della pretesa tributaria (elemento oggettivo) - connotata da un quid pluris costituito da violazioni delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione: invalicabile limite esterno alla azione amministrativa anche nel campo della pura discrezionalità (art. 97 cost.), insieme alla violazione del generale principio del "neminem laedere" di cui all'art. 2043 c.c. (elemento soggettivo) - può dare titolo extracontrattuale anche al risarcimento dei danni per mancato annullamento in autotutela dell'atto impositivo; sarà il giudice ordinario competente per l'"azione aquiliana", ad accertare la condotta colposa o dolosa dell'agente, posta in essere nell'ambito di un rapporto di immedesimazione organica con la P.A., che, in violazione delle norme e del principio indicati, abbia violato un diritto soggettivo . Sulla questione, vedasi la giurisprudenza di legittimità:
Vedasi anche Circolare del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli esperti contabili n°20/IR.
Firma illeggibile e sottoscrizione illegittima
La firma, intesa come stesura autografa del proprio nome e cognome, serve anche ad attribuire una dichiarazione di scienza o una manifestazione di volontà, entrambe rese in forma scritta, al soggetto che la appone sotto lo scritto (sottoscrizione). Mentre l'illeggibilità della firma sottoscritta è un fatto materiale (e come tale rimediabile acquisendo aliunde la riferibilità dell'atto malamente sottoscritto ad un soggetto) l'illegittimità della sottoscrizione non è un fatto materiale che attiene alla firma ma una situazione giuridica soggettiva attiva relativa al soggetto che ha autografato (in maniera più o meno leggibile) il proprio nome e cognome.
Anche la già citata sostituzione della sottoscrizione autografa dell'atto automatizzato con la formula: “firma autografa sostituita dall'indicazione a mezzo stampa, ai sensi dell'art. 3, c. 2, D.Lgs. n. 39/1993” di cui all'art. 15, c.7, D.L. n. 78/2009, che può essere apposta solo sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione emessi con sistemi automatizzati dalle Agenzie fiscali, individuati con provvedimento dei rispettivi Direttori generali (Cass. n. 13461/2012), trae aliunde (non dalla autografia) la riferibilità della firma – e quindi dell'atto - al sottoscrittore virtuale.
Firma illeggibile. Pertanto, tutte le sentenze della Suprema Corte (come la recentissima n° 18448/2015, emessa nel solco delle precedenti n. 874/2009, n. 9673/2004, n. 10773/2006, n. 12768/2006 e n. 9600/2007) relative ad una firma illeggibile non statuiscono un principio di diritto comune ad entrambe le due - del tutto diverse - fattispecie. Secondo tale consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, solo quando si versa nell'ipotesi di mera illeggibilità della firma autografa l'atto potrebbe essere in qualche modo riferito all'ufficio di appartenenza. Secondo Cass. Sez. I, 12/07/2001 n. 4991 si deve "ritenere che l'atto amministrativo esiste come tale allorchè i dati emergenti dal procedimento amministrativo consentano comunque di ritenere la sicura attribuibilità dell'atto a chi deve esserne l'autore secondo le norme positive, salva la facoltà dell'interessato di chiedere al giudice l'accertamento in ordine alla sussistenza, sull'originale del documento notificato, della sottoscrizione del soggetto autorizzato a formare l'atto amministrativo” (vds. anche Cass. sent. n. 13375/09).
Assenza di firma o firma illegittima. L'atto tributario non sottoscritto o illegittimamente sottoscritto ove espressamente previsto, è affetto da una giuridica inesistenza che gli impedisce ogni produzione di effetti (quod nullum est nullum producit effectum) e, quindi, la tutela giudiziaria potrebbe essere utilmente esperita anche nel ricorso contro l'atto “successivo”, ad esempio, contro l'atto unilaterale di autotutela di cui all'art. 7, D.Lgs. n. 218/1997 emesso in contraddittorio con l'adesione del contribuente - per invalidità derivata - o contro la cartella di pagamento, solo/anche per vizi dell'atto “presupposto” - c.d. “impugnazione congiunta” - [Cass. SS.UU. 25.7.2007 n.16412; così TESAURO F., Istituzioni di diritto tributario, Parte generale, Torino 2004, p. 225. Secondo Cass. 4516/12 cit., invece, trattandosi di atto “vincolato”, la cartella di pagamento soggiace al principio di “non annullamento” di cui all'art. 21 opties; contraria Cass. n°25017/15 cit., atteso che “la illegittimità degli atti tributari è colpita (quando lo è) con una sanzione qualificata di nullità e non di annullabilità (come invece previsto dal primo comma dell'art. 21 octies)” e “non essendo applicabile al diritto tributario il principio di cui al 1° comma dell'art. 21 octies deve escludersi anche l'applicazione del secondo comma che del primo costituisce una deroga”].
Va preliminarmente, tuttavia, precisato che mentre il diritto tributario sostanziale è una species di quello amministrativo sostanziale, il diritto tributario processuale, anche in forza del più volte citato rinvio dinamico di cui all'art.1, c.2, d.lgs 546/ 1992, fa riferimento complementare (nella misura in cui è compatibile) al sistema processuale civile (giudizio sul rapporto contestato) e non a quello amministrativo (giudizio sull'atto impugnato) perché l'impugnazione dell'atto impositivo tributario costituisce veicolo d'accesso al giudizio sul rapporto (la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene quello tributario un processo di impugnazione-merito). Ciò significa, ad esempio, che al tributario si applicano sia le disposizioni amministrative sostanziali dell'art. 21-septies, L. 241/90 (peraltro, il d.lgs.n.300/99, all'art. 66, c.1, dispone che “le agenzie fiscali sono regolate … dai rispettivi statuti, deliberati da ciascun comitato direttivo ed approvati con le modalità di cui all'articolo 60 dal ministro delle finanze.” ed il regolamento di amministrazione dell'Agenzia delle Entrate, approvato con delibera del Comitato direttivo n. 4 del 30 novembre 2000 all'art.1, c.2, reca un pleonastico rinvio dinamico alla legge 7 agosto 1990, n. 241”) sia quelle processualcivilistiche degli artt. 115 e 116, c.2, c.p.c.; mentre il c.p.a. (decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 e succ. modif. ed integrazioni) resta formalmente estraneo alla giurisdizione generale ed esclusiva* delle Cc.Tt. (plena cognitio ratione materiae) come tassativamente prescritto dall'art.1, c.2, art. 2, ed art. 7, c.5, D.lgs. n. 546/1992.
Poichè "manca, allo stato, nel diritto tributario, una disciplina di ordine generale applicabile a tutte le imposte” (Cass. 21562/05), secondo cass. 18758/14 (consonante sul punto con la precedente sentenza 14942/13), ove non siano stati normativamente previsti gli effetti del vizio di sottoscrizione “opera la presunzione generale di riferibilità dell'atto all'organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato” [come nell'accertamento con adesione e nell' atto di contestazione delle sanzioni (vds. anche Cass. 11458/12 e 220/14 per il diniego di condono, Cass. 8248/06 per l'attribuzione di rendita, Cass. 13461/12 per la cartella di pagamento, Cass. 4283/10 per l'avviso di mora e l'intimazione ad adempiere); continua Cass. 18758: “cfr., in materia di lavoro e previdenza, Cass. 13375/09, ordinanza ingiunzione, e 4310/01, atto amministrativo); mentre, per i tributi locali, è valida anche la mera firma stampata, ex L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87 (Cass. 9627/12)”. Inoltre, cass. 6836/94 così testualmente recita: “la sentenza di questa Corte n. 2099 del 20 febbraio 1992, secondo cui nel procedimento dinanzi alla commissione tributaria di secondo grado, la sottoscrizione dell'atto di appello da parte di un funzionario addetto al reparto contenzioso dell'ufficio imposte competente, ma non preposto al reparto stesso ne' delegato dal funzionario preposto, non soddisfa il requisito della sottoscrizione del ricorso, previsto, a pena d'inammissibilità, dall'art. 22, terzo comma, D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, in relazione al precedente art. 15, atteso che negli atti a rilevanza esterna il potere di manifestare la volontà della Amministrazione compete o al titolare dell'ufficio, o ad un funzionario da lui delegato (cfr. anche Cass. 19 novembre 1973, n. 3083).
Anche per il Ministero delle Finanze (C.M. 30.4.77 n.77, §57), l'avviso di accertamento non sottoscritto, o sottoscritto illegittimamente, è nullo (affetto da c.d. “inesistenza giuridica”); comunque, quant'anche tale vizio di sottoscrizione fosse motivo di nullità/inesistenza dell'atto, l'Amministrazione Finanziaria potrebbe emanare - sempre entro i termini decadenziali previsti ed anche in pendenza del giudizio - un nuovo provvedimento (c.d. autotutela sostitutiva. Vds. Cass. 21719/2011 e 2424/2010) regolarmente sottoscritto dal dirigente, capo dell'ufficio impositore o da questi delegato impersonalmente: ratione officii, o da un dirigente/funzionario direttivo delegato individualmente: ad personam. Il sindacato incidentale del giudice tributario
La possibilità di adottare decisioni “incidenter tantum”, ai sensi dell'art. 2 c.3, d.lgs n. 546/92 (nonché, all'occorrenza, dell'art. 7 c.5, d.lgs n. 546/92 o degli artt. 4 e 5, l. 2248/1865, alleg. E), assume risolutiva efficacia nelle ormai frequentissime cause relative ai c.d. “dirigenti decaduti”, atteso che nel nostro ordinamento non esiste alcuna “riserva di giurisdizione amministrativa atta a precludere al giudice tributario naturale una pronuncia sulla nullità/inesistenza dell'atto tributario impugnato per vizio di sottoscrizione; non esiste, quindi, neppure la necessità di attendere il pronunciamento sulla nomina del dirigente (sottoscrittore o delegante) ad opera del TAR o dell'Agenzia stessa in autotutela ex art. 21-nonies L. n. 241/1990.
Il giudice tributario non è neppure vincolato da un eventuale giudicato amministrativo sulla legittimità della nomina del dirigente perché la relativa sentenza rappresenta per lui solo un “mero documento”, privo dell'efficacia del giudicato atteso che il proprio ricorrente è stato estraneo a quel giudizio. È utile ricordare, a tal proposito, che mentre il giudicato tributario – anche incidenter tantum - ha un'efficacia regolamentare diretta sull'atto/rapporto, oggetto del giudizio tributario (effetto naturale della pronuncia giudiziale nel processo di impugnazione-merito), il giudicato amministrativo, invece, ha un'efficacia conformativa estrinseca alla pronuncia giudiziale, che trova ancora nell'art. 4, c.2, L. n. 2248/1865, all. E, riferimento normativo (“L'atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non sovra ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”).
Nel processo civile, cui rinvia l'art. 1, c. 2, D.Lgs. n. 546/1992, la rilevabilità officiosa delle nullità è stata ampiamente discussa ed approfondita muovendo dalla relazione governativa al Codice di Procedura Civile - “Il principio dispositivo è, in sostanza, la proiezione nel campo processuale di quella autonomia privata nei confini segnati dalla legge, che trova la sua più energica affermazione nella tradizionale figura del diritto soggettivo: fino a che la legislazione sostanziale riconoscerà (sia pure per coordinarla sempre meglio ai fini collettivi) tale autonomia, il principio dispositivo dovrà essere coerentemente mantenuto nel processo civile come insopprimibile espressione del potere riconosciuto ai privati di disporre della propria sfera giuridica.” (tradizionalmente attribuita a P. Calamandrei) - fino ad approdare ad una giurisprudenza consolidata, recentemente espressa con Cass. ss.uu. 26242/14, 26243/14, 14828/12 (massima ufficiale: “Alla luce del ruolo che l'ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell'assetto negoziale … il giudice di merito … ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ‘ex actis', una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, escluse … le nullità di protezione [species della nullità relativa], il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta”) e 6170/05. Le Sezioni Unite qui richiamano l'arresto della C.G.U.E., causa C-243/08 Pannon GSM, ove si afferma la legittimazione del giudice nazionale a rilevare d'ufficio la nullità - della clausola abusiva – prescindendo dall'eventuale eccezione della parte debole nella considerazione che la funzione dell'art. 1421 c.c. è quella di impedire che un contratto nullo, a causa del giudizio di disvalore espresso dall'ordinamento, possa produrre effetti. Attesa l'obbligatorietà del tributo e l'assenza di quell'“autonomia privata” di cui alla su citata relazione governativa al c.p.c., si delinea vieppiù una visione pubblicistica del processo tributario che pone al centro la figura del giudice come effettivo strumento di attuazione del diritto sostanziale vigente. Con sentenza n° 128/1/13, la C.T.P. di Messina si era già per prima pronunciata sulla nullità degli atti sottoscritti da un “dirigente illegittimo” - la cui immedesimazione organica come Direttore provinciale, in quel caso, era stata più volte sospesa dal Tribunale di Messina, sez. lavoro (con ordinanze ex art. 700 c.p.c. del 20 aprile 2011 per la nomina e del 14 marzo 2012 per la proroga, ordinanze poi divenute definitive) - motivando ampiamente e dettagliatamente (“affinchè un atto amministrativo abbia, oltre che esistenza anche piena vitalità, è quindi non possa essere oggetto di resistenza passiva da parte dei destinatari, di disapplicazione da parte dei giudici e di caducazione per invalidità, non deve mancare di alcuni degli elementi della sua esistenza e deve essere immune da difetti: cioè deve essere valido. L'atto amministrativo, infatti, fino a quando non sarà caducato estrinsecherà di pieno diritto la sua operatività, ma la sua invalidità, e quindi non vitalità, (ossia suscettibilità di essere reso improduttivo di effetti) rimane. Conseguentemente quando l'invalidità di un atto amministrativo viene dichiarata in esecuzione di una sentenza, che con effetto ex tunc ha fatto venir meno taluna delle disposizioni in base al quale l'atto era stato emanato, l'atto amministrativo, che era da considerare invalido e quindi disapplicabile fin da principio, non vi è più fin dal momento della sua emanazione, rendendo privi di effetto tutti gli atti successivi che sono invalidi in conseguenza della invalidazione del primo”).
La sentenza costituzionale 37/2015
La Corte costituzionale (37/2015): 1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, comma 24, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 26 aprile 2012, n. 44; 2) dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 14, del decreto-legge 30 dicembre 2013, n. 150 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2014, n. 15; 3) dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'art 1, comma 8, del decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative); e poi così continua: 1.2.− Ad avviso del giudice a quo, consentendo l'attribuzione di incarichi a funzionari privi della relativa qualifica, l'art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, come convertito, aggirerebbe la regola costituzionale di accesso ai pubblici uffici mediante concorso, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost. Viene, a tal proposito, richiamata la giurisprudenza costituzionale che riconosce nel concorso pubblico la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, quale procedura strumentale al canone di efficienza dell'amministrazione…. La norma censurata, sempre secondo il giudice a quo, consentirebbe invece a funzionari privi della relativa qualifica, di accedere, senza aver superato un pubblico concorso, ad un «ruolo» diverso nell'ambito della propria amministrazione. L'elusione della regola del pubblico concorso determinerebbe anche un vulnus al principio del buon andamento, con conseguente ulteriore lesione, sotto questo diverso profilo, degli artt. 3 e 97 Cost.. Ancora, la disposizione censurata violerebbe gli artt. 3 e 97, primo comma, Cost., in relazione ai principi di legalità, imparzialità e buon andamentodell'azione amministrativa, poiché, permettendo l'attribuzione di incarichi a funzionari privi della relativa qualifica, consentirebbe la preposizione ad uffici amministrativi di soggetti privi dei requisiti necessari” [perfino in possesso di lauree inconferenti o addirittura neppure laureati secondo le risultanze del relativo sito web*] “determinando una diminuzione delle garanzie dei cittadini che confidano in una amministrazione competente, imparziale ed efficiente”.
Anche su questo punto, illumina la relazione (pagg. 32 e 33) del Procuratore regionale della Corte dei conti per la regione Lombardia all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2016: “APPELLO INCIDENTALE AVVERSO SENTENZA SEZ. GIUR. LOMB. N. 76/2015: La vicenda oggetto del giudizio riguardava la tematica dell'affidamento da parte della … omissis … di incarichi dirigenziali a personale interno privo del requisito della laurea richiesto per legge. Il danno contestato in primo grado pari ad € 367.128,89 era stato solo in parte riconosciuto dal Giudice che aveva ritenuto illeciti solo gli ultimi due incarichi perché non coperti dal nuovo regolamento interno. L'impugnazione ha avuto ad oggetto i capi della sentenza di primo grado che hanno accolto soltanto parzialmente la domanda di risarcimento del danno limitandolo al secondo e terzo conferimento nonché la ripartizione delle responsabilità tra organi politici e burocratici. Ulteriore motivo di appello ha riguardato l'erronea applicazione dell'art. 1, comma 1bis L. 20/94 (cd. Norma sui vantaggi) in assenza dì prove oggettive ed adeguate in grado di superare l'infungibilità delle prestazioni collegate al titolo di studio richiesto. Costituisce principio consolidato che quando il legislatore richiede il possesso di particolari titoli di studio superiori, opera una valutazione degli standard culturali e diprofessionalità (collegati al titolo di studio richiesto) e le prestazioni professionali della qualifica da ricoprire che ne giustificano la remunerazione. Questa valutazione, operata a monte, con riferimento al canone costituzionale di cui all'art.97, comma 2, non può essere superata dal possesso di elementi diversi di volta involta ritenuti equivalenti dalle Amministrazioni locali. In altri termini, il legislatore ha previsto una sorta di infungibilità tra le prestazioni lavorative rese da soggetti in possesso dei titoli accademici prescritti dalla legge e le prestazioni rese da soggetti che ne sono privi, con la conseguenza che queste ultime - non essendo espressione di conoscenze e capacita professionali ricollegate al titolo di studio carente - non possono ontologicamente arrecare alcun vantaggio patrimonialmente quantificabile all'ente medesimo, che, viceversa, finisce percorrispondere una retribuzione senza una giusta causa corrispettiva. (Corte deiConti, Sez. I, 22/05/1989, n.173; Corte dei conti Sez. Giur. Toscana Sent.363/2011 e 420/2012; Corte dei conti Sez. Controllo Veneto 275/2010/PAR).”.
Secondo Cass. n. 24492 del 2 dicembre 2015 “gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione del potere impositivo, ed incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale, discostandosi da e contestando le affermazioni del contribuente. Le qualità professionali di chi emana l'atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (v. Cass. 5 settembre 2014, n. 1875 e, da ultimo, Cass. 9 novembre 2015, n. 22800).” e Cass. n°25017 del 11 dicembre 2015, “Del resto, non appare indifferente che un atto complesso come l'accertamento tributario sia emesso da un funzionario privo della necessaria qualifica, e quindi —deve presumersi- della necessaria capacità tecnica.”
La Consulta così continua: 4.2.− Per colmare le carenze nell'organico dei propri dirigenti, l'Agenzia delle entrate ha, negli anni, fatto ampio ricorso ad un istituto previsto dall'art. 24 del proprio regolamento di amministrazione. … l'illegittimità di questa modalità di copertura delle posizioni dirigenziali deriva dalla sua non riconducibilità, né al modello dell'affidamento di mansioni superiori a impiegati appartenenti ad un livello inferiore, né all'istituto della cosiddetta reggenza.” … “Invero, l'assegnazione di posizioni dirigenziali a un funzionario può avvenire solo ricorrendo al secondo modello, cioè all'istituto della reggenza, regolato in generale dall'art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266” [le cui caratteristiche essenziali sono straordinarietà e temporaneità; in effetti, invece, per circa 15 anni funzioni e poteri dirigenziali sono stati illegittimamente attribuiti, quoad effectum, in via ordinaria ed a tempo indeterminato a soggetti interni, cooptati secondo criteri domestici, dei quali la recente e diffusa nota Dre Lombardia prot 51621 del 12/5/2014 dà ufficiale contezza. (vds. in particolare Ctr Lombardia 3454/15 e 4136/15)]. [...] “In questo quadro normativo e giurisprudenziale, e nella relativa vicenda processuale, interviene il legislatore, attraverso la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale. … considerando le regole organizzative interne dell'Agenzia delle entrate e la possibilità di ricorrere all'istituto della delega, anche a funzionari, per l'adozione di atti a competenza dirigenziale”, [delega individuale: ad personam e non impersonale: ratione officii (vds. cass. 22803/15, 24492/15 e 25017/15) senza quindi alcuna necessità di previe attribuzioni dirigenziali, come invece illegittimamente praticato dall'agenzia] “la funzionalità dell' Agenzia non è condizionata dalla validità degli incarichi dirigenziali previsti dalla disposizione censurata. [Tanto è vero ciò, che successivamente alla censura costituzionale de qua, l'A.E. ha fatto ricorso all'istituto della dirigenza ad interim delle Direzioni Provinciali (conferita a dirigenti legittimi) coniugato a quello della delega di firma individuale: ad personam (e non di funzioni prevista dall'articolo 17, c. 1-bis, del D.lgs. 165/2001) conferita a semplici funzionari - tutti laureati - in quanto tali e non impersonale: ratione eorum officii.] Sicché “l'obbiettivo reale della disposizione in esame è rivelato dal secondo periodo della norma in questione, ove, da un lato, si fanno salvi i contratti stipulati in passato tra le Agenzie e i propri funzionari, dall'altro si consente ulteriormente che, nelle more dell'espletamento delle procedure concorsuali, da completare entro il 31 dicembre 2013, le Agenzie attribuiscano incarichi dirigenziali a propri funzionari, mediante la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso …” In buona sostanza, la Consulta ha autorevolmente evidenziato come per delegare individualmente un funzionario a sottoscrivere validamente un atto attribuito alla competenza di un ufficio dirigenziale, sarebbe pretestuoso ritenere necessario prima “promuovere” costui a dirigente; diverso è il caso di deleghe impersonali: ratione officii, conferibili solo a chi sia legittimamente preposto a quell'ufficio e quindi, se l'ufficio è di livello dirigenziale, il relativo preposto ne deve essere il legittimo dirigente. Recentemente il legislatore ha fatto proprio il pensiero della Consulta di: “ricorrere all'istituto della delega, anche a funzionari, per l'adozione di atti a competenza dirigenziale”, prevedendo deleghe prive dicooptazione dirigenziale e previa procedura selettiva paraconcorsuale. Con la legge 6 agosto 2015, n. 125, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78, recante disposizioni urgenti in materia di enti territoriali, all'art. 4-bis, c.2 prescrive che: “In relazione all'esigenza di garantire il buon andamento e la continuità dell'azione amministrativa, i dirigenti delle Agenzie fiscali, per esigenze di funzionalità operativa, possono delegare, previa procedura selettiva, con criteri oggettivi e trasparenti, a funzionari della terza area. (Tale ratio legis coincide con la ratio decidendi di cass. 22803/15).
Trascurando la differenza lessicale tra l'art. 136 Cost. e l'art. 30 L. n. 87/1953 (cessazione d'efficacia – disapplicazione), dalla qualificazione della Corte come “legislatore negativo” quando si pronuncia come organo di chiusura del sistema costituzionale nazionale con sentenza dichiarativa (secondo il modello Kelseniano, rispettoso del riparto di competenza tra legislatore e giudice costituzionale), ne discende che "Le pronunce di accoglimento della Corte cost. hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall'origine la validità e la efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche "consolidate" per effetto di eventi che l'ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato, l'atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza." (Cass. civ., sez. III, 28 luglio 1997, n. 7057). Pertanto, a causa della “derivata” retroattiva inesistenza giuridica della sottoscrizione (ove espressamente prevista a pena di nullità) conseguente al difetto assoluto di attribuzione al delegante e/o delegato di poteri/funzioni dirigenziali [cfr. art. 52, c. 5, D.Lgs. n. 165/2001: “Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l'assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore”. Secondo TAR Lazio sent. 6884/11 trattasi di: “radicale nullità”] restano definitivamente regolati dalla coeva normativa (tempus regit actum) - ancorché dichiarata costituzionalmente illegittima - solamente i rapporti c.d. esauriti e, cioè, quelli già definiti:
Ogni altro atto impositivo/negatorio/sanzionatorio - ritualmente impugnato - va dichiarato nullo dal giudice adito per difetto assoluto di attribuzione, in quanto irrimediabilmente travolto dagli effetti dichiarativi - e quindi retroattivi - dell'illegittimità costituzionale de qua, che conferma la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale secondo la quale “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell'ambito di un'amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale comporta l'accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso” (C. Cost. sent. nn. 194/2002, 293/2009, 150/2010, 7/2011 e 217/2012).
A differenza delle c.d. sentenze manipolative, che modificano la norma portata davanti al giudice delle leggi, per mantenerla nell'ordinamento giuridico (come quelle additive, ablative o sostitutive), una dichiarazione di illegittimità costituzionale, come quella de qua, ha l'effetto erga omnes di annullamento puro e semplice, che cancella la norma incostituzionale dall'ordinamento giuridico. Ove pungesse vaghezza al legislatore o a giudici di emanare leggi o sentenze in contrasto con una sentenza dichiarativa della Corte costituzionale, si verificherebbe una violazione di giudicato costituzionale. Atti amministrativi dei dirigenti illegittimi e reati tributari
I gravi effetti della sentenza della Consulta qui in trattazione, non sempre si esauriscono nell'ambito finora trattato; l'accertamento fiscale sull'an e sul quantum di condotte evasive può dare la stura ad un processo penale - separato ma eziologicamente conseguente – nel quale l'atto amministrativo può assumere una importante valenza penale, quale ad esempio quella di notitia criminis del superamento della soglia di rilevanza penale per i reati tributari previsti e puniti dalla D.Lgs. n. 74/2000. La nullità dell'avviso di accertamento tributario sottoscritto da un dirigente illegittimamente nominato, o anche da un funzionario direttivo invalidamente delegato, non ne determina “a priori” l'inutilizzabilità penale – ex art. 191 c.p.p. – neppure degli atti su cui esso è stato fondato (Cass. pen., III penale, n. 35294 del 23 agosto 2016), poiché tale vizio di legittimità si esaurisce nell'invalidità della pretesa tributaria; infatti, come atto di impulso di attività autoritative, esecutorie ed esecutive, deve possedere tutti gli specifici requisiti voluti dal legislatore che ne ha tutelato l'effettività con la sanzione processuale della nullità; in ambito penale, invece, pur cessando di essere atto di impulso, resta un mero documento - ex art. 234 c.p.p – atto a fornire informazioni utili all'esercizio dell'azione penale governata dal Pubblico Ministero.
I giudizi tributari: extrapenale (amministrativo) e penale (ordinario), si dipanerebbero poi distinti e distanti, affrancati da ogni previgente sospensiva, pregiudiziale o giudiziale.
Quando la violazione tributaria (illecito amministrativo) constatata è/diviene penalmente inferente (reato), nei confronti dell'indiziato (se non si interrompe prima, l'evoluzione della condizione processuale della persona sottoposta ad attività giudiziarie penali è: sospettato (sottoposto a controlli) – indiziato (primi riscontri positivi) – indagato (iscrizione a mod 21) – imputato (rinvio a giudizio) - condannato/prosciolto/assolto (per decreto/ordinanza/sentenza). L'art. 349 c.p.p. è il referente normativo del “potere di iniziativa investigativa” di tutta la P.G. - compresa quella di cui al 3° comma dell'art. 57 c.p.p. c.d. “eventuale” – che deve comunicare al P.M. la notitia criminis ex art. 347 c.p.p. (per il P.U. l'obbligo di denuncia è previsto dall'art. 331 c.p.p.) si deve operare con le prerogative della polizia giudiziaria tributaria ex art. 220 delle norme di attuazione, coordinamento e transitorie del codice di procedura penale il quale prescrive che: “quando … emergono indizi di reato, gli atti necessari … per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice”. Il P.V.C. invece, presupposto dell'atto impo-esattivo e/o sanzionatorio, è qualificato dalla giurisprudenza come prova documentale ex art. 234 c.p.p. - per la parte redatta dal verbalizzante in veste di P.U.* - prima dell'emersione degli elementi di cui alla notitia criminis e come atto di indagine per la parte successiva se il verbalizzante è anche P.G.** Comunque, già in passato, la Corte costituzionale con sentenza n. 122 del 1974, ha a tal proposito stabilito che "quando gli ufficiali di polizia tributaria operano ai fini della persecuzione dei reati (ex art. 31, comma 3, L. 7/1/1929 n° 4) e compiono perquisizioni, essi agiscono come ufficiali di polizia giudiziaria e devono rispettare tutta la normativa relativa alle perquisizioni domiciliari ... Quando invece gli ufficiali ed agenti di polizia tributaria operano per accertare violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie le quali non costituiscono reato (ex art. 34, L. n. 7/1/1929 n° 4), ed a tale scopo effettuano nelle aziende verificazioni e ricerche, essi svolgono funzioni di polizia amministrativa che si risolvono nel potere di controllo e di vigilanza dell'attività privata spettante istituzionalmente alla Pubblica Amministrazione."
L'obbligo di denuncia sorge allorquando il funzionario dell'Agenzia delle Entrate (ritenuto pubblico ufficiale ex art. 357, c.p. - e non (?) polizia giudiziaria “eventuale” ex art. 57, c.3, c.p.p. - ai fini dell'applicabilità dell'art. 331 c.p.p.) o il militare della Guardia di Finanza (ufficiale/sottufficiale di P.G ex art. 57, 1°/2°comma, c.p.p. ai fini dell'applicabilità dell'art. 347 c.p.p.) siano in grado di individuare con sicurezza – sulla base di una adeguata inferenza probatoria - gli elementi del reato da denunciare (ignorando eventuali cause di estinzione o di non punibilità, nonché ogni giudizio di valore complementare al fatto tipico quale il dolo, le cui valutazioni appartengono in via esclusiva all'autorità giudiziaria), non essendo sufficiente un generico sospetto (ex plurimis, sentenze della Cassazione penale n. 27508 del 2009; n. 26081 e n. 15400 del 2008; n. 1244 del 1985; n. 6876 del 1980; n. 14195 del 1978). Secondo la circolare A.E. n°154/2000, "l'obbligo della trasmissione della notizia di reato sorge nel momento della constatazione del fatto costituente reato ovvero … con riferimento alle fattispecie delittuose di cui agli articolo 2, 3 e 4 (del d.lgs. 74/2000) il momento della constatazione del fatto deve intendersi al termine delle operazioni di verifica [accertamento] riguardanti l'anno di imposta interessato".
Sulla normativa penale giova ricordare il pensiero di Ettore GALLO (presidente della Corte costituzionale dal 1991 al 1992) il quale rilevava come la riserva di legge penale - di cui all'art. 23 Cost. – non sia per campo di materia ma per tipo di disciplina. In buona sostanza, nell'ordinamento giuridico italiano, qualunque norma articolata nel binomio “precetto-sanzione” è penale non in funzione della materia cui il precetto faccia riferimento (tributi, edilizia, famiglia, persona, etc.) ma in funzione del tipo di disciplina della sanzione; in Italia è penale [si parla di diritto penale (diritto delle pene) e non di diritto criminale (diritto dei reati). Attingendo, per chiarezza espositiva, ad elementari concetti giusnaturalistici si può dire che reati sono i “mala quia prohibita” (qualunque illecito civile o amministrativo per il quale la legge statuisce una sanzione criminale) e non i “mala in se”] quindi, la norma per la quale il legislatore abbia previsto la pena (da cui "diritto penale" come species del genus diritto tributario e non, al contrario, diritto penale tributario come species del genus diritto penale.) dell'arresto-reclusione-ergastolo (pene detentive per contravvenzioni-delitti-delitti) e/o ammenda-multa (pene pecuniarie per contravvenzioni-delitti, da non confondere con le obbligazioni pecuniarie amministrative).
Il reato può essere sanzionato anche con pene c.d. accessorie, quali confische per equivalenza (art. 322-ter e 600-septies c.p.p.) dei beni (mobili ed immobili) rinvenuti nella "disponibilità" del contribuente condannato come evasore, spostando la misura sanzionatoria dal bene costituente “il mezzo, il corpo, il prodotto o il frutto del reato” ad altro bene appartenente al reo, di valore equivalente all'importo accertato nell'atto impositivo; ciò perché la confisca per equivalente riveste carattere essenzialmente afflittivo volto a riequilibrare il patrimonio del reo, quando sussiste l'impossibilità di reperire il profitto diretto del reato. La confisca viene preceduta, per ovvi motivi con largo anticipo, dal sequestro preventivo per equivalente (art. 321 c.p.p.), le cui eventuali conseguenze in termini di danno risarcibile e di responsabilità personale dell'agente accertatore sono tutte da verificare, quando riferite alla nullità/inesistenza degli atti impositivi/negatori/sanzionatori emessi da "dirigenti illegittimi" ritenuti usurpatori di funzioni e poteri pubblici.
In conclusione
Gli atti a rilevanza esterna, emessi ratione officii da dirigenti tributari illegittimi (scil. dichiarati tali da Corte Cost. 37/15 cit.) usurpando le funzioni pubbliche connesse alla posizione dirigenziale, loro illegittimamente attribuita - per cooptazione interna - dall'agenzia fiscale d'appartenenza, sono affetti da nullità/inesistenza giuridica, derivata dalla “radicale nullità” del conferimento di mansioni superiori ex art. 52, c.5, d.lgs.165/01 (TAR Lazio 6884/11 cit.).
Fonti di merito: Sentenze della Commissione tributaria regionale per la Lombardia
Ex plurimis: CTR N. Lombardia Sentenze 2015: CTR, sez. XIII, n. 2184 - CTR, sez. IL, n. 2716 - CTR, sez. I, n. 2842 - CTR, sez. XXIV, n. 2849 - CTR, sez. XXVIII, n. 3446 - CTR N.3448/28 - CTR N.3450/28 - CTR N.3454/28 - CTR N.3533/28 - CTR N.3614/66 - CTR N.3697/30 - CTR N.3698/50 - CTR N.3699/01 - CTR N.3700/01 - CTR N.3701/01 - CTR N.3702/28 - CTR N.3703/28 - CTR N.3704/28 - CTR N.3705/28 - CTR N.4109/01 - CTR N.4130/30 - CTR N.4136/30 - CTR N.4149/28 - CTR N.4150/28 - CTR N.4249/50 - CTR N.4325/15 - CTR N.4507/30 - CTR N.4625/28 - CTR N.4626/28 - CTR N.4628/28 - CTR N.5160/28 - CTR N.5161/28 - CTR N.5162/28… CTR N. Lombardia Sentenze 2016: CTR N.0772/19 – CTR N.0876/30 - CTR N.2507/01 - CTR N.2509/01 - CTR N.3115/45 - CTR N.3724/06 - CTR N.4183/07 – CTR N.4465/35 – CTR N.4499/38 – CTR N.4607-01 - CTR N.5876/32 - CTR N.5877/32 – CTR N.5878/32 - CTR N.5879/32 – CTR N.5881/15 - CTR N.5884/15 - CTR N.5950/01 - CTR N.5951/38 - CTR N.7276/36… CTR N. Lombardia Sentenze 2017: CTR N.0301/14 - CTR N.0448/13 – CTR N.0461/01 - CTR N.1411/13 - CTR N.2241/01 – CTR N.2521/02 – CTR N.2522/02 - CTR N.2711/10 - CTR N.2713/10 – CTR N.4674/01…
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