L’ “autosufficienza” del ricorso per cassazione in ambito tributario
30 Novembre 2015
Premessa
Le ultime riforme sul ricorso per cassazione si sono occupate soprattutto della tecnica redazionale di tale mezzo di impugnazione, introducendo “regole” da rispettare a pena di inammissibilità o improcedibilità.
Il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ad esempio, ha introdotto, oltre al disposto di cui al n. 6 dell'art. 360 c.p.c. (con tale previsione, secondo la Suprema Corte, il legislatore ha codificato il principio di autosufficienza, ma la portata applicativa di tale principio resta oggetto di forti incertezze per la contrastante giurisprudenza sul punto), anche l'art. 366-bis c.p.c., che prescriveva, a pena di inammissibilità, la formulazione del “quesito di diritto” a conclusione di ciascun motivo ex art. 360, nn. 1), 2), 3) e 4), mentre, per il vizio di motivazione, si richiedeva la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assumeva omessa, carente o contraddittoria. Ciò rappresentava un'applicazione del principio di specificità, finalizzato a precisare le censure formulate dal ricorrente, facendo emergere quelle manifestamente infondate. Tuttavia, la prassi giurisprudenziale è spesso caduta in una lettura eccessivamente formalista della prescrizione di cui all'art. 366-bis cit., nel senso che il “quesito di diritto” non correttamente formulato comportava che il ricorso fosse celebrato in camera di consiglio per una pronuncia di inammissibilità, diventando una sorta di “filtro” indiretto.
Pertanto, il legislatore, con la L. 18 giugno 2009, n. 69, ha abrogato il citato art. 366-bis (l'abrogazione del “quesito di diritto” è operante per i ricorsi proposti avverso le sentenze depositata successivamente al 4 luglio 2009, con la conseguenza che, per quelli proposti antecedentemente – dal 2 marzo 2006 al 4 luglio 2009 – l'art. 366-bis è da ritenersi ancora applicabile – cfr. Cass. civ., sez. III, 24 marzo 2010, n. 7119 – e, quindi, tali atti saranno valutati dalla Corte in base alla corretta formulazione, o meno, di tale quesito), sostituendolo con una valutazione preliminare di ammissibilità dei ricorsi - un vero e proprio “filtro” – in base all'art. 360-bis, secondo cui il ricorso è inammissibile se:
i) la pronuncia impugnata ha deciso in senso conforme all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità e dai motivi dell'atto non emergono elementi per modificarlo; ii) è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo. L'inammissibilità ex art. 360-bis c.p.c. però, come chiarito dalla Suprema Corte (cfr. Cass. civ., sez. un., 6 settembre 2010, n. 19051), è in sostanza frutto di una valutazione di fondatezza o meno del ricorso, ovvero un sindacato sul merito più che sul rito (l'inammissibilità in questione non va intesa nel senso classico del termine, ossia come conseguenza della carenza di una condizione o della tardività del gravame, ma come effetto della conformità tra l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità e il principio adottato dalla sentenza impugnata, in assenza dell'individuazione, nel ricorso, di elementi idonei a modificare tale orientamento).
Da ultimo, l'art. 54, co.1, lett. b), della L. 7 agosto 2012, n. 134, ha modificato il vizio di motivazione ex art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., con inevitabili ripercussioni sull'applicazione del principio di autosufficienza, inizialmente sorto proprio in relazione a tale censura. Il principio di autosufficienza: le origini
Il principio di autosufficienza è essenzialmente di fonte giurisprudenziale, in quanto nessuna norma del codice di rito parla espressamente di “autosufficienza” come requisito del ricorso per cassazione. Si legge infatti nel Massimario della Suprema Corte che, a partire dagli anni '80 (cfr. Cass. civ., sez. I, 18 settembre 1986, n. 5656), sempre più frequente è il richiamo a questo principio, la cui inosservanza è sanzionata con l'inammissibilità dell'impugnazione.
All'origine, tale requisito si ispira ai canoni di specificità, completezza e chiarezza dei motivi di ricorso, che anche la giurisprudenza anteriore aveva sempre richiesto per la formulazione dei mezzi di gravame. Si richiede in particolare che il motivo contenga in sé tutti gli elementi che consentano alla Cassazione di decidere la questione, senza sussidio di altre fonti, considerata l'impossibilità, per tale giudice, di effettuare indagini integrative.
Il terreno di rilevanza del principio in esame nasce con riferimento al vizio di motivazione, ma successivamente è esteso a tutti gli altri motivi codificati dall'art. 360 c.p.c.. Negli anni successivi, la giurisprudenza si divide in due filoni, elaborando una versione talora più e talora meno rigorosa del principio in commento.
Da un lato, si continua ad affermare che il requisito dell'autosufficienza si esaurisce nella necessità che il ricorrente indichi specificatamente (e non per relationem) i fatti di cui trattasi, onde consentire al giudice di legittimità il controllo sulla loro decisività, che dovrà avvenire esclusivamente sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso. In altri termini, la Corte esige che dalla (sola) lettura dell'atto introduttivo si evincano tutti gli elementi indispensabili per verificare la fondatezza, o meno, delle censure; nel ricorso per cassazione deve essere indicato tutto ciò che serve (in relazione al motivo), ma niente di più. A tal fine, per esempio, si ritiene sufficiente che il contenuto della prova non ammessa o mal valutata sia riprodotto nei suoi termini essenziali, con indicazione della sede processuale in cui tale documento si trova oppure con apposito deposito unitamente al ricorso, ai sensi degli artt. 366, n. 6, e 369, n. 4, c.p.c. (cfr. Cass. civ., n. 4277/1981, n. 5530/1983 e n. 2992/1984).
Dall'altro, si sviluppa, sino a diventare prevalente, un orientamento sensibilmente più rigoroso (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., n. 6225/2005 e n. 18506/2008; sez. III, n. 10493/2001, e nn. 6440/2007, 13085/2007, 21621/2007; sez. II, n. 13845/2007; sez. VI, n. 17915/2010) nell'applicazione dell' “autosufficienza”, che richiede la trascrizione integrale nel ricorso, dell'atto, del verbale di causa o del documento cui il motivo si riferisce. Ciò affinché la Corte possa decidere solo sulla base dell'atto introduttivo del gravame, senza consultare altri documenti processuali.
Pertanto, in caso di omessa o erronea valutazione dei mezzi istruttori, la Corte non solo impone la trascrizione integrale della deposizione testimoniale o della prova documentale oggetto di censura, ma prescrive anche di specificare le relative deduzioni o istanze formulate nel precedente giudizio di merito, pena l'irrilevanza giuridica della censura. L'applicazione del principio di autosufficienza, nata in relazione al vizio di motivazione, viene poi estesa a tutti gli altri motivi di gravame, tanto agli errores in iudicando quanto a quelli in procedendo.
Di conseguenza, laddove denunzi la violazione o falsa applicazione di legge, ex art. 360, n. 3 c.p.c., la parte ricorrente è tenuta a riprodurre nel ricorso il contratto ovvero le norme del regolamento comunale che si ritengono violate, o ancora il testo di un giudicato che si ritiene erroneamente interpretato. Analogamente, nei casi in cui venga dedotto un error in procedendo, è necessaria la trascrizione degli atti processuali, ovvero dei documenti posti a fondamento della censura, in quanto ciò costituisce un prius rispetto al potere di riesaminare il fatto.
In altri termini, per denunciare la violazione di una norma processuale è necessaria l'indicazione degli elementi condizionanti l'operatività di tale violazione, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima ancora di esaminare nel merito della questione medesima (cfr. Cass. civ., sez. lav., 29 agosto 2005, n. 17424). Ad esempio, ove si lameti un vizio di notifica per errata indicazione dei destinatari dell'atto nella relata, quest'ultima dovrà essere integralmente trascritta nel ricorso onde consentire al giudice il preventivo esame della rilevanza di tale vizio.
Ne deriva che anche nelle ipotesi in cui venga eccepito un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell'art. 112 c.p.c. e, quindi, una violazione ex n. 4, art. 360 c.p.c., è necessario che al giudice del merito sia stata rivolta una domanda o un'eccezione per cui la pronuncia si sia resa necessaria, e che tale istanza sia stata puntualmente riportata nel ricorso per cassazione (con indicazione specifica del precedente atto difensivo in cui era stata proposta), onde consentire alla Cassazione il controllo sulla ritualità e decisività della questione prospettata; controllo che deve avvenire (solo) sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con ricerche da parte della Corte.
In sostanza, al ricorrente non è permesso di dolersi dell'esito sfavorevole della lite tramite un richiamo generico ai precedenti atti processuali, perché in tal modo il ricorso sarebbe non autosufficiente, in quanto manchevole dell'indicazione puntuale delle questioni prospettate e dei “luoghi processuali” nei quali le relative eccezioni sarebbero state sollevate, rinviando ad un'inesigibile opera di supplenza del giudice di legittimità. Le critiche della dottrina
La dottrina ha sempre criticato la versione più rigorosa del principio di autosufficienza, evidenziando la mancanza di una espressa previsione legale dell' “autosufficienza”, considerato che l'art. 360, n. 3 c.p.c. parla di “esposizione sommaria dei fatti di causa”, e che l'art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c. impone (solo) la “specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”. Pertanto il ricorrente, salvo l'obbligo di specificità dei motivi di impugnazione, potrà limitarsi ad un rinvio – puntuale – agli atti e ai documenti del giudizio, senza l'onere di trascriverli.
Tuttavia, la Cassazione, in numerose pronunce (cfr. Cass. civ., sez. VI-3, n. 4220/2012), ha interpretato la prescrizione contenuta nell'art. 366, n. 6 cit., come previsione di un onere ulteriore rispetto a quello di trascrizione degli atti anzidetti, poiché la mancata indicazione della sede processuale in cui tali atti siano consultabili non consentirebbe alla Corte di reperirli per controllare la veridicità di quanto trascritto dal ricorrente (in senso contrario, cfr. Cass. civ., sez. III, n. 10194/2010).
Gli ultimi orientamenti della cassazione
Negli ultimi anni non sono però mancate sentenze di segno opposto, che hanno inaugurato un nuovo orientamento più attento alle critiche della dottrina e alla giurisprudenza CEDU.
In particolare la Cassazione, nella pronuncia a Sezioni Unite del 22 maggio 2012, n. 8077, ha espresso il principio secondo cui “il giudice di legittimità è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda”, purché le censure siano formulate nel rispetto delle regole del codice di rito ovvero nel rispetto del principio di autosufficienza inteso come obbligo di indicare una doglianza specifica e la sede processuale dei documenti su cui quest'ultima si fonda. Infatti, “il principio di autosufficienza è un corollario del requisito di specificità dei motivi di impugnazione, ora tradotto nelle più definitive e puntuali disposizioni contenute negli artt. 366, co. 1, n. 6 e 369, co. 2, n. 4, c.p.c.”.
In sostanza il principio di autosufficienza non rappresenta un requisito ulteriore rispetto all'elenco contenuto nell'art. 366 c.p.c., ma indica il necessario livello di specificità dei motivi di ricorso, costituito dalla semplice “localizzazione” dei documenti su cui quest'ultimi si fondano, in contrapposizione alla loro (non necessaria) trascrizione ed anche allegazione. Pertanto, con l'art. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., il legislatore ha inteso dare un ancoraggio normativo al principio in commento, imponendo di redigere il ricorso dinanzi al giudice di legittimità sintetizzando i fatti di causa (in tal senso, cfr., Cass. civ., sez. un., nn. 16887/2013, e 8077/2012). La predetta disposizione richiede, infatti, un lavoro di sintesi e di selezione dei profili di fatto e di diritto della vicenda sub judice, in un'ottica di economia processuale che evidenzi gli aspetti rilevanti ai fini della formulazione dei motivi di ricorso (che altrimenti si risolverebbero in censure astratte e prive di supporto storico – cfr., Cass. civ., sez. trib., n. 15180/2010).
Nell'ambito del giudizio di legittimità vengono quindo in rilievo sia i fatti storici oggetto di contestazione, che le valutazioni giuridiche di tali fatti, prospettate dalle parti o richiamate dai giudici di merito. In altre parole, l'esposizione della vicenda processuale che deve essere ulteriormente valutata dalla Suprema Corte, implica, accanto alla selezione dei fatti ancora rilevanti, anche la necessità che siano indicate le relative categorie giuridiche, previa eliminazione “del troppo e del vano” (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, n. 12955/2011), affinché il giudice di ultima istanza ne possa valutare la corretta applicazione. Il ricorso per cassazione risulta, dunque, inammissibile, laddove il ricorrente, anziché narrare autonomamente i fatti di causa ed esporre l'oggetto della pretesa, si limiti ad una pedissequa trascrizione degli atti dei precedenti gradi del giudizio o ad allegarli, mediante “spillatura”, al ricorso (cfr., Cass. civ., sez. VI-3, n. 6279/2011; sez. lav., n. 1716/2012).
In tale ambito, si inserisce anche la lettera del 17 giugno 2013 del Primo Presidente della Cassazione al Presidente del Consiglio nazionale forense. La missiva, nel fornire dei suggerimenti sulle modalità di stesura dei ricorsi per cassazione, compresi quelli tributari, a tutela della ragionevole durata del processo, invita i ricorrenti a non riprodurre i contenuti dei precedenti atti difensivi, ma, salvo un loro breve richiamo, a sviluppare gli specifici profili da sottoporre all'esame del giudice di legittimità. Ciò, precisa il Primo Presidente, “non si pone in conflitto con il principio di autosufficienza dei motivi di ricorso in quanto quest'ultimo esige la non completa trascrizione nel ricorso stesso dei documenti, la cui omessa o non corretta valutazione da parte del giudice di merito sia oggetto del motivo di impugnazione, bensì solo la (…) sintetica indicazione delle porzioni del documento o dei documenti in questione (eventualmente allegati al ricorso ai sensi dell'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c.), che possano illuminare l'analisi del giudice di legittimità”. Il principio di autosufficienza del ricorso avverso le sentenze delle commissioni tributarie regionali
Tutto quanto detto trova riscontro anche nei ricorsi per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni tributarie regionali, in virtù del rinvio al codice di procedura civile contenuto nell'art. 62 del D.Lgs. n. 546/92. Infatti, anche la Sezione tributaria (cfr., ex multis, Cass., sez. trib., nn. 8312/2013, 9107/2012, 767/2011 e 7460/2009), richiede il rispetto del principio di autosufficienza, desumendolo dall'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c..
Anche in ambito tributario, però, si rinvengono le contrapposte posizioni giurisprudenziali sopra descritte: quella a favore della trascrizione integrale (nel ricorso) delle prove non ammesse o mal valutate dal giudice di merito (cfr., ex multis, Cass. civ., n. 8109/2012), e l'altra, che ritiene sufficiente la mera indicazione del “dove, come e quando la questione” sia sorta nel giudizio di secondo grado (cfr. Cass. civ., n. 15180/2010).
Ciò premesso in termini generali, si evidenziano le peculiarità del processo tributario, in ragione del suo oggetto (annullamento dell'atto impositivo) e dei mezzi istruttori non ammessi (divieto di testimonianza e di giuramento ex art. 7, D.Lgs. n. 546/92). In merito al primo profilo, ai fini dell' “autosufficienza” del ricorso, la Corte, in numerose pronunce, ha preteso che l'atto riporti i passi della motivazione dell'accertamento che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito (cfr. Cass. civ., sez. trib., nn. 8312/2013, 1202/2011, 3427/2010, 18557/2010, 1818/2010 e 10945/2007); in caso di motivazione per relationem ad un processo verbale di constatazione, occorre riprodurre nel ricorso anche quest'ultimo (cfr. Cass. civ., nn. 9536/2013 e 5382/2012) . Tale orientamento giurisprudenziale, per quanto a volte eccessivamente rigoroso, sopperisce alla (condivisibile) esigenza di garantire che il ricorrente non censuri direttamente l'accertamento, ma la motivazione della sentenza del giudice di merito che ha affermato, o escluso, la legittimità di tale atto impositivo.
In relazione al secondo aspetto (“autosufficienza” e mezzi istruttori ammessi nel rito tributario), non si può non rimarcare il prevalente utilizzo, in tale processo, delle prove documentali e presuntive. Pertanto, la Cassazione (cfr. Cass. , n. 9107/2012 e 15180/2010) si è frequentemente occupata di sindacare i motivi di ricorso legati alla mancata o errata valutazione di prove documentali, tramite il vizio di motivazione; in tale ambito, la Sezione tributaria ha dichiarato inammissibili i ricorsi presentati tramite la mera “spillatura” degli atti del giudizio di merito, perché privi delle argomentazioni critiche idonee a richiedere al giudice di legittimità un controllo sulla motivazione della sentenza impugnata ai sensi del n. 5 dell'art. 360 c.p.c..
Al riguardo, peraltro, si segnala che la Suprema Corte ha ormai chiarito che il novellato (riformato dalla L. n. 134/2012) n. 5 dell'art. 360 c.p.c. deve trovare applicazione anche nel ricorso per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni tributarie regionali, poiché “non esiste un giudizio di legittimità tributario”, in quanto “il D.Lgs. n. 546/92 non prevede una disciplina speciale per il giudizio di legittimità concernente l'impugnazione delle sentenze di appello pronunciate dal giudice tributario, ma si limita a rinviare alle norme del codice di rito che regolano il ricorso per cassazione avverso le sentenze d'appello pronunciate dal giudice ordinario” (cfr. Cass. civ., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).
Quanto detto sopra, con particolare riferimento al descritto onere di deposito, ex art. 369, co. 2, n. 4 c.p.c., emerge ancora più evidente rispetto all'ambito tributario, come evidenziato dalla Corte, a Sezioni Unite, nella sentenza n. 22726 del 3 novembre 2011.
Anche rispetto a tale obbligo, infatti, la giurisprudenza si è divisa tra un orientamento (inizialmente prevalente) più “rigorista” (cfr., Cass. civ., nn. 24940/2009, 303/2010, 21121/2010, 21580/2010, 26525/2010, 2803/2011, 3522/2011), e uno più “liberale” (cfr., Cass. civ., nn. 4898/2010, 13174/2010, 17196/2010 e 18854/2010). Il primo esige il deposito, unitamente al ricorso per cassazione, di tutti gli atti e i documenti necessari alla decisione del medesimo, per offrire alla Corte, immediatamente, un quadro completo di elementi utili per emettere una sentenza in tempi ragionevoli. Ciò, anche con riferimento al ricorso in materia tributaria, poiché l'indisponibilità dei fascicoli di parte ex art. 25,D.Lgs. n. 546/92, può essere superata tramite allegazioni in fotocopia.
Il secondo orientamento, invece, valorizzando il principio di strumentalità delle forme processuali rispetto allo scopo (ex artt. 121 e 156 c.p.c.), sostiene che il terzo comma del citato art. 369 ponga a carico del ricorrente l'onere di richiedere (tempestivamente) alla cancelleria del giudice a quo la trasmissione del fascicolo d'ufficio alla Cassazione, proprio per mettere a disposizione di quest'ultima tutti i documenti e gli atti processuali ivi inseriti, senza necessità di un ulteriore specifico deposito.
Le Sezioni Unite, con la citata sentenza n. 22726 hanno recepito quest'ultima posizione, richiamando il principio della “strumentalità delle forme processuali” e l'esigenza di rifuggire da “un inutile formalismo, contrastante con le esigenze di efficienza e semplificazione, le quali impongono di privilegiare interpretazioni coerenti con la finalità di rendere giustizia”. Pertanto, l'onere di deposito in questione è assolto, per gli atti contenuti nel fascicolo di parte, dalla produzione di tale fascicolo, e, per gli atti contenuti nel fascicolo d'ufficio, dalla richiesta di trasmissione dello stesso ex art. 369, co. 3, c.p.c., “che costituisce il meccanismo istituzionale di trasmissione dei suddetti atti alla Corte di cassazione” (ferma restando l'esigenza di specifica indicazione degli atti e documenti ex art. 366, n. 6, c.p.c., ai fini del loro reperimento - cfr. Cass. civ., sez. un., n. 22726/2011). Per il processo tributario, peraltro, la trasmissione ex art. 369 cit. si estende anche ai fascicoli di parte che, ai sensi dell'art. 25, co. 2 cit., restano acquisiti al fascicolo d'ufficio fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio. Ne deriva che il ricorrente non possa essere onerato della produzione del proprio fascicolo contenuto in quello d'ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Corte, neppure tramite la produzione delle mere copie degli atti e documenti (sui quali il ricorso si fondi), vigendo, nel rito tributario, “una regola particolare per il fascicolo di merito”. Ciò anche se si tratta di documenti contenuti nel fascicolo di controparte, poiché tale fascicolo “deve pervenire alla Corte di Cassazione unitamente al fascicolo d'ufficio che lo contiene” (cfr. Cass. civ. n. 22726 cit).
In conclusione
Come evidenziato dalla dottrina (vedi per tutti, Santangeli F., “Sui mutevoli (e talora censurabili) orientamenti della Suprema Corte, in tema di autosufficienza del ricorso per cassazione, in attesa di un (auspicabile) intervento chiarificatore delle Sezioni Unite”), un'applicazione eccessivamente rigorosa del principio di autosufficienza può tradursi in una denegata giustizia, esclusivamente per finalità deflattive del contenzioso. Non si può, infatti, trascurare l'entità notevole dei ricorsi proposti innanzi alla Suprema Corte, che con una crescita esponenziale sono arrivati, oggi, a circa 30.000 l'anno. Del resto, tutti gli interventi normativi, sopra descritti, rivelano l'intenzione di ridurre la proposizione delle impugnazioni, introducendo oneri più gravosi e un vero e proprio “filtro” ovvero una valutazione preliminare di (in)ammissibilità del gravame.
Ciò, però, contrasta con la funzione di garanzia assegnata alla Corte di Cassazione. Pertanto, il superamento del rigore formalistico – già avviato dalle Sezioni Unite – sembra imposto anche dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, laddove prescrive soluzioni interpretative orientate a permettere al processo di giungere al suo esito naturale (decisione sulla fondatezza dell'impugnazione). In particolare, nella sentenza del 22 novembre 2011 (caso Andreyev v. Estonia), la Prima Sezione della Corte di Strasburgo, afferma che il procedimento innanzi alla Cassazione può avere regole più formali rispetto ai giudizi di merito, purché non si giunga ad un eccessivo formalismo, che privi i ricorrenti dei loro diritti fondamentali, in violazione dell'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Non può sottacersi, infatti, che, anche successivamente alle pronunce delle Sezioni Unite favorevoli ad un interpretazione meno rigorosa dell' “autosufficienza”, non sono mancate sentenze di segno opposto, da parte delle Sezioni semplici, con conseguente incertezza rispetto ai necessari requisiti di forma-contenuto per l'ammissibilità dei ricorsi per cassazione. Per tale motivo, si auspica un nuovo e risolutivo intervento delle Sezioni Unite sul principio di autosufficienza. |