Professionisti, artisti ed autonomi: limiti di esenzione dall'IRAP nel caso di impiego di collaboratori

Andrea A. Salemme
31 Maggio 2016

Sussiste l'autonoma organizzazione, quale presupposto dell'IRAP, qualora un esercente attività libero-professionale, artistica o di lavoro autonomo si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore addetto a mansioni di segreteria o meramente esecutive.
Massima

Sussiste l'autonoma organizzazione, quale presupposto dell'IRAP, qualora un esercente attività libero-professionale, artistica o di lavoro autonomo si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore addetto a mansioni di segreteria o meramente esecutive.

Il caso

Impugnava un avvocato il silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di rimborso dell'IRAP versata per taluni anni d'imposta in quanto privo di autonoma organizzazione, ottenendo ragione in primo grado.

Spiegava appello l'Amministrazione Finanziaria, facendo rilevare che dai quadri RE presentati dal contribuente emergeva come questi si fosse avvalso di collaboratori e di lavoratori dipendenti.

Con sentenza n. 84/7/2009 del 10 marzo 2009, la CTR Campania respingeva l'appello sul fondamento della seguente motivazione: “Nel caso di specie, si evidenzia che il contribuente ha dichiarato che nell'esperimento della propria attività professionale si avvale solo di un lavoratore dipendente con mansioni di segreteria e di beni strumentali minimi. Pertanto ritiene il Collegio che la presenza minimale di strumenti e di collaborazione non costituisca autonoma organizzazione …”.

Ricorreva per cassazione l'Amministrazione Finanziaria, deducendo la violazione dell'art. 2, primo periodo, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, atteso che dovrebbe sempre considerarsi sussistente il requisito dell'autonoma organizzazione quando è verificato in fatto l'impiego di dipendenti.

La Sezione tributaria, designata per la trattazione della causa, con l'ordinanza interlocutoria addì 13 marzo 2015, n. 5040, evidenziava l'esistenza di un contrasto nella giurisprudenza di legittimità tra un'opinione più consolidata, per cui anche un solo dipendente, persino part time ovvero addetto a mansioni generiche, fa scattare l'assoggettamento all'IRAP, ed un orientamento più recente, per cui, invece, è necessario di volta in volta accertare l'attitudine del lavoro di detto dipendente a potenziare l'attività produttiva.

La soluzione delle Sezioni Unite sull'impiego di collaboratori

La Cass. civ., sez. un., 10 maggio 2016, n. 9451, (Pres. L. A. Rovelli, Rel. A. Greco), dirime il contrasto enunciando il principio di diritto per cui ricorre autonoma organizzazione “quando il contribuente:

a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse;

b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive.

La constatazione che balza agli occhi è la continuità semantica rispetto al costante intendimento – in ultimo ribadito funditus da Cass. civ., sez. trib., 5 settembre 2014, n. 18749, – dell'autonoma organizzazione come presupposto che sussiste quando il contribuente che eserciti attività di lavoro autonomo:

a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione senza essere inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti le quantità che, secondo l'id quod plerumque accidit, costituiscono nell'attualità il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività anche in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”; intendimento che nondimeno si completa con l'aggiunta – invece mancante nell'enunciato delle Sezioni Unite – per cui costituisce “onere del contribuente che chieda il rimborso dell'imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell'assenza di tali condizioni”: punto non di poco momento sol che si consideri che, a fronte dell'onere probatorio addossato al contribuente che chiede il rimborso, la dottrina ritiene – con tutta probabilità a ragione, stante il meccanismo operativo dell'art. 2697 c.c. – di poter giungere a conclusioni opposte nel caso di impugnazione di avvisi di accertamento (DELLA VALLE, Non scontano l‟Irap i professionisti dotati di mezzi strumentali minimi, in Corr. trib., 2007; MARINO, Irap e lavoratori autonomi: prime impressioni sul recentissimo orientamento della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2007).

La constatazione di cui si tratta parrebbe superficialmente suggerire una linea di continuità altresì nello sviluppo storico del formante giurisprudenziale sull'IRAP, come del resto lasciato intendere dalle Sezioni Unite laddove, al paragrafo 3, dopo aver riprodotto ampi stralci della motivazione di Cass. civ., sez. trib., 16 febbraio 2007, n. 3676, la quale, in sede di c.d. IRAP-day, aveva inaugurato il filone della minimalità quale crinale al di sopra del quale scatta il presupposto dell'IRAP, afferma che i “principi” e l'“impianto ricostruttivo” per così dire tradizionali “merit[a]no, più che una rivalutazione, delle precisazioni concernenti il fattore lavoro”.

La suggestione è profonda, dal momento che, per le Sezioni Unite, “lo stesso limite segnato in relazione ai beni strumentali – ‘eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione' – non può che valere, armonicamente, per il fattore lavoro, la cui soglia minimale si arresta all'impiego di un collaboratore”. Talché il valore numerico dell'impiego di un collaboratore – ossia di una sola unità lavorativa – deriverebbe in sé dalla specificazione del criterio della minimalità che, già in auge quanto al profilo della dotazione strumentale, era in attesa di essere svolto anche quanto al profilo della forza-lavoro.

Eppure i conti cominciano a non tornare, giacché, se numerose sono le decisioni della Suprema Corte di Cassazione (per una nutrita elencazione delle quali si rinvia a FERRANTI, Esclusione da IRAP: irrilevanti l'entità dei compensi e delle spese, in Il Fisco, 2016) che affermano l'irrilevanza anche di cospicui ammontari riferibili a spese sostenute per la dotazione di beni strumentali indispensabili, il costo di un solo collaboratore sembrerebbe inversamente obbedire all'impostazione ispirata ad una spesa contenuta entro il minimo dei minimi termini.

Analisi critica della pretesa continuità della giurisprudenza di legittimità sino alle Sezioni Unite

La rinvenibilità di una continuità concettuale, prima ancora che semantica, della sentenza delle Sezioni Unite che ne occupa rispetto alla linea precedentemente valorizzata in realtà pare assai più che dubbia.

Valga il vero.

Cass. civ., sez. trib., n. 3676/2007, cit., evocata la celeberrima sentenza della Corte Costituzionale 21 maggio 2001, n. 156, tra l'altro in Riv. dir. trib., 2001, 783 (nota di: FALSITTA), Dir. prat. trib., 2001 (nota di: MARONGIU), Giur. it., 2001, 1979 (nota di: SCHIAVOLIN), Rass. trib., 2001, 833 (nota di: BATISTONI FERRARA), al fine di ricordare che l'innovativo presupposto dell'IRAP è il “valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate” (brevemente VAP) e quindi per traslazione la capacità produttiva dell'autonoma organizzazione, predicava che “non occorre … che si tratti di una struttura d'importanza prevalente rispetto al lavoro del titolare o addirittura in grado di generare profitti anche senza di lui, ma è sufficiente che vi sia un insieme tale da porre il professionista in una condizione più favorevole di quella in cui si sarebbe trovato senza di esso”, affermando, per un verso, che “la maggiore o minore consistenza di tale insieme non è dunque importante purché, ben s'intende, si tratti di fattori che non siano tutto sommato trascurabili, bensì capaci di fornire un effettivo qualcosa in più al lavoratore autonomo”; per altro verso, che “l'indagine sull'esistenza di tale qualcosa in più costituisce senza dubbio un accertamento di fatto che il giudice di merito dovrà compiere caso per caso sulla base di una valutazione di natura non soltanto logica, ma anche socio-economica perché l'assenza di una struttura produttiva non può essere intesa nel senso radicale di totale mancanza di qualsiasi supporto, ma neppure in quello di particolare rilevanza o, peggio, di prevalenza dei beni e/o del lavoro altrui su quello del titolare”.

Par chiaro che la trama della motivazione di Cass. civ., sez. trib., n. 3676/2007, cit., risponde alla necessità di spiegare che la regola non è quella della sottrazione del lavoro libero-professionale, artistico ed autonomo all'IRAP, ma anzi quella della sua normale imponibilità, salvi i casi eccezionali in cui non ricorre in concreto – dietro un'indagine da condursi caso per caso – alcuna forma organizzativa, rispetto alla cui definizione, poi, non rileva la dimensione quantitativa, ma soltanto quella qualitativa, siccome consistente nell'attitudine a provvedere il contribuente di una “condizione più favorevole”rispetto alla condizione in cui verserebbe se non ne disponesse.

La riprova di quel che si va dicendo si ha nel fatto che – stante Cass. civ., sez. trib., n. 3676/2007, cit., – a configurare il presupposto dell'IRAP è sufficiente “un apparato che non sia sostanzialmente ininfluente”, fatto “di un quid pluris che, secondo il comune sentire …, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista. Si deve cioè trattare di un qualcosa in più la cui disponibilità non sia, in definitiva, irrilevante perché capace, come lo studio o i collaboratori, di rendere più efficace o produttiva l'attività”. Sicché a ben guardare si compie un passo in avanti, atteso che studio e collaboratori, una volta verificati come esistenti, non necessitano neppure di un accertamento individuale circa la propulsività del loro apporto, integrando ex se l'autonoma organizzazione; né – prosegue la Corte – “varrebbe in contrario replicare che così ragionando si giunge a fare dei professionisti una categoria indefettibilmente assoggettata all'IRAP perché, nell'attuale realtà, è quasi impossibile esercitare l'attività senza l'ausilio di uno studio e/o di uno o più collaboratori o dipendenti. È infatti proprio per questo che il D.Lgs n. 446/1997 ha inserito gli autonomi fra i soggetti passivi dell'imposta, in quanto anch'essi si avvalgono normalmente di quella struttura organizzativa che costituisce il presupposto dell'imposta. Ciò è tanto vero che “è sempre per lo stesso motivo che … il D.Lgs n. 446/1997 ha, fra l'altro, abrogato l'ICIAP, essendo l'IRAP destinata normalmente a colpire coloro che in precedenza pagavano l'ICIAP che, a sua volta, gravava sui professionisti indipendentemente dalla consistenza della organizzazione da essi predisposta”.

Il divario tra l'insegnamento scaturito dall'IRAP-day e rimasto in auge sino al tempo presente e quello propugnato dalle Sezioni Unite è tradito dalla diversa formulazione della lettera b) del principio di diritto nelle rispettive versioni poco sopra riprodotte: infatti, secondo la versione dell'IRAP-day, v'è autonoma organizzazione ogniqualvolta il contribuente si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui”; mentre, secondo la versione delle Sezioni Unite, v'è autonoma organizzazione ogniqualvolta il contribuente “si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive.

L'aggiunta della soglia non è una semplice specificazione, perché, secondo la versione dell'IRAP-day, è il fatto in sé dell'avvalimento in modo non occasionale di lavoro altrui a designare un apparato capace” di – ossia idoneo a – “rendere più efficace o produttiva l'attività”; mentre, secondo la versione delle Sezioni Unite, il lavoro altrui non ha valenza amplificativa dell'efficacia o produttività dell'attività fintanto che l'impiego si limita ad “un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive”.

Per convincersi dell'esposta conclusione basti rilevare che Cass. civ., sez. trib., n. 18749/2014, cit., applica – come visto – il principio di diritto “tradizionale” per affermare la rilevanza, ai fini della configurazione del presupposto dell'IRAP, della stabile collaborazione di un dipendente nello studio di un avvocato. Contribuiscono a conformare in maniera ancor più stringente i termini della questione Cass. civ., sez. trib., 16 maggio, n. 10754, per cui rileva l'impiego non occasionale di lavoro altrui anche se per un tempo limitato, viepiù dietro un corrispettivo non elevato, e Cass. civ., sez. trib., 20 luglio 2009, n. 16855, per cui non rileva, invece, la circostanza che il ricorso a lavoratori subordinati sia in certo qual modo “obbligato”.

Le Sezioni Unite tra tradizione ed innovazione: le “mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive” al cospetto dell'organizzazione del professionista ...

Le Sezioni Unite, ancorché paiano disattendere nella sostanza l'opinione storica – che pure formalmente richiamano – intesa a qualificare ex se l'impiego non occasionale, i.e. abituale, di lavoro altrui come indice di autonoma organizzazione ai sensi dell'art. 2, prima parte, D.Lgs. n. 446/1997, per certo vi si attengono nel calibrare il crinale dell'irrilevanza della collaborazione su un'unità “che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive”.

I confini esterni della concettualizzazione, infatti, sono quelli tra latici. Fermo che non vale ad escludere il presupposto dell'IRAP la circostanza dell'insostituibilità segnatamente del professionista, in quanto l'attività professionale è, giusta l'art. 2232 c.c., personale per definizione, neppure occorre – per dirla, ancora una volta, con Cass. civ., sez. trib., n. 3677/2007, cit., espressamente ripresa sul punto da Cass. civ., sez. trib., 11 dicembre 2012, n. 22592“che si tratti di una struttura d'importanza prevalente rispetto al lavoro del titolare o addirittura in grado di generare profitti anche senza di lui”: quel che conta è l'aiuto che il professionista, messo “in una condizione più favorevole di quella in cui si sarebbe trovato senza di essa”, riceve dalla struttura. Nondimeno, se per Cass. civ., sez. trib., n. 3677/2007, e Cass. civ., sez. trib., n. 22592/2012, cit., l'aiuto è tale per il sol fatto del potenziamento delle forze personali – ovverosia individuali – in virtù della moltiplicazione delle unità addette alla produzione, le Sezioni Unite introducono una discriminazione qualitativa fondata sull'idea che, a fungere da amplificatori per far scattare l'IRAP devono essere le proiezioni professionali delle forze personali, giacché esclusivamente in esse si concentra il proprium di una prestazione altrimenti individuale. Ecco perché soltanto di “mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive” nel principio di diritto si ragiona: trattasi di mansioni prive dell'attitudine a fungere da proiezioni dell'abilità del professionista.

Nondimeno, così opinando, si oblitera che la personalità è predicato della prestazione professionale, ovvero anche artistica, quando lo è, ma non (o comunque non necessariamente) altresì del lavoratore autonomo, il quale a sua volta non si distingue affatto dall'imprenditore, piccolo e neppure piccolo, per il fatto ontologico-qualitativo di difettare di un'organizzazione, ma per il fatto numerico-dimensionale di produrre di meno rispetto al medesimo.

In altri termini, il dato di partenza è che, dal punto di vista del diritto civile, il professionista gode di uno statuto privilegiato, la cui ragion d'essere riposa in larga parte su un retaggio storico, il quale muove dalla personalità della prestazione per approdare però a qualcosa d'altro. Invero si ha produzione di beni e soprattutto servizi anche nel caso dell'esercente professioni ed arti, che tuttavia è esonerato dallo statuto dell'imprenditore – peraltro soltanto nell'ambito delle professioni intellettuali protette ex artt. 2229 e 2230 c.c., in funzione, per esse sole, della necessità dell'esecuzione personale dell'incarico ex art. 2232 – fintantoché – ai sensi dell'art. 2238, comma 1, c.c.“l'esercizio della professione costituisce elemento di una attività organizzata in forma di impresa, come nei casi tipico del medico che gestisce una clinica o una casa di cura o dell'insegnante che gestisce un istituto di istruzione o dell'artista che gestisce il laboratorio di riproduzione delle proprie opere [RAZZOLINI, sub Art. 2238, in ALPA-MARICONDA (a cura di), Codice Civile commentato, Assago, 2013]. Ciò non toglie che sotto il limite dell'art. 2238, comma 1, c.c. il professionista può essere egualmente organizzato per produrre nient'altro che i servizi oggetto della sua prestazione: quest'ultima, dal canto suo, tale è quando è personale ma tale resta anche quando è resa sotto i suoi personali poteri di direzione e controllo.

(Segue) … e dell'imprenditore

La magmaticità della realtà organizzativa del professionista – il quale proprio per tale peculiarità può addentrarsi in una forma organizzativa strutturata in guisa di impresa assumendo per l'effetto la qualifica di imprenditore, senza però perdere quella di professionista – conserva pur tuttavia un nucleo di afferenza alla sfera personale non tanto dell'organizzazione quanto piuttosto della prestazione di per se stessa considerata, che associa la sua figura a quella del lavoratore autonomo epperò nel contempo differenziandola: come il lavoratore autonomo, anche il professionista non è imprenditore fintantoché non decide di esserlo, assumendo la forma organizzativa propria dell'impresa; ma, a differenza del lavoratore autonomo, il professionista, qualora eserciti una professione intellettuale protetta, obbedisce ad un codice differenziale che lo proietta con insistenza nella produzione personale della prestazione.

Alla stregua di siffatte premesse, affermare trasversalmente, alla stregua del principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite, che non sussiste un'autonoma organizzazione rilevante ai fini dell'assoggettamento all'IRAP se l'organigramma conta un solo collaboratore addetto a “mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive”, ammesso che si attagli, senza sbavature concettuali (ciò che, come si dirà, non è) alla situazione classica del professionista intellettuale protetto titolare di uno studio in cui lavorano una segretaria o un addetto alla cancelleria o un'infermiera o un factotum, perde di consistenza in rapporto al lavoratore autonomo: con riferimento a quest'ultimo, infatti, al di là dei servizi di segreteria, l'individuazione stessa di mansioni meramente esecutive è sfuggente in quanto il momento esecutivo rappresenta il normale completamento della prestazione tipica (si pensi al caso banale, eppur esemplificativo, del montaggio di un arredamento costruito artigianalmente).

Ma non è ancora finita. Approfondendo il filone della magmaticità della realtà organizzativa che accomuna professionista e lavoratore autonomo, quanto a quest'ultimo, il punctum pruriens, destinato, però, alla luce della soglia ex art. 2238, comma 1, c.c., a riverberarsi indietro anche sul professionista, concerne la distinzione con l'imprenditore tout court ex art. 2282 c.c. ovvero quantomeno con l'imprenditore “piccolo” ex art. 2083 c.c.: la centralità della questione balza agli occhi sol che si rifletta che – alla stregua di Corte Cost. n. 156/2001, cit.l'elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa (paragrafo 9.2), con la conseguenza che per definizione l'imprenditore, anche piccolo, soggiace all'IRAP.

Il fatto gli è che sia la distinzione interna tra imprenditore piccolo ed imprenditore non tale sia la distinzione esterna tra lavoratore autonomo ed imprenditore non necessariamente piccolo non rispondono ad un criterio qualitativo – sul modello quantomeno tendenziale della personalità della prestazione professionale – ma quantitativo.

Principiando dal secondo dei cennati versanti, la distinzione fra lavoratore autonomo di cui all'art. 2222 c.c. e imprenditore si viene a giocare su parametri essenzialmente quantitativi[,] sussistendo la prima figura finché non emerga una produttività che ecceda quella del lavoro individuale”. Tutto normale, in disparte che siffatto giudizio è “soggetto ad ampi margini di discrezionalità. La verità è che sotto un profilo essenzialmente organizzativo lo sviluppo tecnologico ha consentito anche al lavoratore autonomo in determinate circostanze e condizioni di raggiungere livelli di produttività che in passato erano possibili solo con la fisica presenza di beni strumentali e di collaboratori a diverso titolo …[;] è cresciuto il comparto di soggetti originariamente riconducibili al concetto di lavoratore autonomo che con un'organizzazione minimalista dei fattori produttivi riescono, in qualche caso, ad ottenere livelli di produttività impensabili fino a poco tempo fa per un singolo soggetto. Ed è indubbio che in tali situazioni i margini di distinzione fra lavoratore autonomo e imprenditore siano assai esigui e scarsamente percepibili sotto il profilo organizzativo quanto, appunto, semmai sotto il profilo produttivo degli esiti di questa attività …” (CAGNASSO-VALLEBONA, Dell'impresa e del lavoro, Artt. 2060-2098, in GABRIELLI (dir. da), Commentario del Codice Civile, Torino, 2012, sub Art. 2082, 143 s.). Storicamente, dunque, a fronte della comunicabilità, come per i vasi di Archimede, tra fattore lavoro e fattori meccanico-tecnologici, la tendenza è quella dell'assorbimento del primo nei secondi, fermo che anche in rapporto ai secondi un'organizzazione pur sempre ricorre.

Il discorso si completa affrontando il tema del primo versante, a proposito del quale il massimo studioso italiano in materia di impresa rileva che per aversi un imprenditore piccolo occorre la prevalenza del lavoro proprio su ogni altro fattore della produzione: non solo sul lavoro altrui, ma anche sul capitale investito nell'impresa; con la conseguenza che non si è mai in presenza di un piccolo imprenditore allorché possa dirsi che i fattori della produzione impiegati – o il lavoro di dipendenti o il capitale – prevalgono sul lavoro personale dell'imprenditore” (GALGANO, Trattato di diritto civile, III, Padova, 2013).

Il dato di fondo emergente dalla nebbia dei concettualismi illumina un metodo d'indagine che – al cospetto delle tre componenti o “gambe” di cui si compone il valore aggiunto prodotto (o VAP) inciso dall'IRAP, collegate alla spesa per la remunerazione del lavoro, del capitale di investimento e di quello di rischio – suggerisce uno scandaglio dell'indice organizzativo di qualsivoglia attività produttiva scevro da definizioni aprioristiche, in quanto ancorato ad un apprezzamento sinergico della capacità combinatoria di tutti i fattori della produzione, tra i quali il lavoro e soltanto il lavoro, che sin dall'epoca della rivoluzione industriale ammette surrogati meccanico-tecnologici, descrive, a differenza degli altri, una parabola recessiva.

Alla luce di ciò, ci si permette di esprimere l'avviso che quella delle Sezioni Unite avrebbe potuto essere l'occasione propizia, ma mancata, per superare la stanca impostazione di uno spacchettamento analitico dei fattori della produzione: uno spacchettamento finalizzato a ricavare un autonomo ambito, promiscuamente quali-quantitativo, inerente al fattore lavoro a fianco delle dotazioni strumentali, in una logica comprensiva di pretesa armonizzazione orizzontale rispondente, per entrambi, contemporaneamente, al superamento della soglia minimale.

Divagazioni sull'inquadramento della minimalità nella meccanica impositiva dell'IRAP

Il tema della soglia minimale – già sperimentato dalla prima delle due sentenze gemelle di quella in commento, ossia Cass. civ., sez. un., 13 aprile 2015, n. 7291, (Pres. L. A. Rovelli, Rel. A. Greco), che esonera dall'IRAP i medici organizzati secondo il modulo della medicina di gruppo purché si contengano entro i limiti delle dotazioni previste dalle convenzioni con il Servizio Sanitario Nazionale (FERRANTI, Irap senza prova contraria per le associazioni professionali e le società semplici, in Il Fisco, 2016)– offre il destro per rilevare che il criterio del superamento di detta soglia in funzione dell'affermazione del requisito dell'autonoma organizzazione corre parallelamente alla teorizzazione dell'IRAP quale forma di tassazione di un quid pluris rispetto al valore ordinario dell'attività professionale o autonoma.

Quel che preme di sottolineare è che – ad onta della perentoria posizione di Corte Cost. n. 156/2001, cit., per cui l'IRAP non è un'imposta sul reddito, bensì un'imposta di carattere reale che colpisce … il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate”, talché “l'assoggettamento all'imposta … del valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata, sia essa di carattere imprenditoriale o professionale, è … pienamente conforme ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva – identica essendo, in entrambi i casi, l'idoneità alla contribuzione ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta – né appare in alcun modo lesivo della garanzia costituzionale del lavoro” (paragrafo 9.2) – colpisce la diversa impostazione sistematica della giurisprudenza di legittimità che, a partire da Cass. civ., sez. trib., 12 giugno 2008, n. 15754, (richiamata da una serie di innumerevoli decisioni anche recenti, tra cui Cass. civ., sez. trib., 18 febbraio 2015, n. 3188, e Cass. civ., sez. trib., 29 aprile 2015, n. 8646, ivi), impernia l'assoggettamento all'IRAP sul quid pluris in punto (notasi) di “reddito” prodotto da un'attività autonomamente organizzata rispetto ad una che non lo è.

Cass. civ., sez. trib., n. 15754/2008, cit., infatti, con formula ormai divenuta (nella prima parte) ius receptum, recita: “… l'IRAP coinvolge una capacità produttiva ‘impersonale ed aggiuntiva' rispetto a quella propria del professionista (determinata dalla sua cultura e preparazione professionale) e colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto derivante da una struttura organizzativa ‘esterna', cioè di un complesso di fattori che per numero, importanza e valore economico siano suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista ([dal] lavoro dei collaboratori e dipendenti, dal numero e grado di sofisticazione dei supporti tecnici e logistici, dalle prestazioni di terzi, da forme di finanziamento diretto ed indiretto etc.); ne deriva che è il surplus di attività agevolata dalla struttura organizzativa che coadiuva ed integra il professionista nelle incombenze ordinarie ad essere interessato dall'imposizione che colpisce l'incremento potenziale, o quid pluris, realizzabile rispetto alla produttività auto-organizzata del solo lavoro personale”.

L'inequivoca coloritura reddituale di un'imposizione che affonda le radici nel supplemento agevolativo (o surplus di attività agevolata”) ricollegato alla struttura organizzativa a supporto dell'individuo-professionista rende impellente una riflessione sincera sulla perdurante tenuta dell'impianto di Corte Cost. n. 156/2001, cit., tutta protesa a marcare la differenza dell'IRAP dall'ILOR, quest'ultima sì intesa a colpire il reddito.

Un'equilibrata chiave di lettura potrebbe sobbarcarsi l'onere di sostituire al supplemento agevolativo un supplemento di potenzialità produttiva. Lucidi tentativi in tal senso constano compiuti da Cass. civ., sez. VI-T, 19 dicembre 2014, n. 26985, la quale, oltretutto, con acutezza, avverte di tener separata la “non-occasionalità” dell'impiego di lavoro altrui dalla sua “rilevanza”. Scrivono infatti i Supremi Giudici che indubbiamente deve considerarsi attività riservata all'apprezzamento del giudice del merito quella destinata alla traduzione nella concreta realtà fattuale dell'astratto concetto normativo di ‘autonoma organizzazione', non potendosi ricavare dall'attributo di ‘non occasionalità' dell'utilizzo del lavoro dipendente (che nella giurisprudenza di legittimità è usualmente valorizzato ai fini di connotare il presupposto impositivo) alcuna diretta valenza circa il diverso attributo della ‘rilevanza' dell'apporto di lavoro ai fini della distinzione della ‘autorganizzazione' rispetto alla ‘organizzazione autonoma' e cioè rispetto a quella capacità produttiva ‘aggiuntiva' (alla capacità produttiva del semplice lavoratore autonomo) che – per il fatto di derivare da fattori produttivi autonomi rispetto al prestatore d'opera – giustifica la sottoposizione a tassazione del reddito siccome integrante un profitto non necessariamente implicato dalla mera attività di lavoro autonomo”.

Nondimeno pur in tale ottica un sostrato di redditualità – implicato dalla necessità di giustificare l'imposizione di un reddito estrinsecantesi (anche) in un profitto generato da fattori diversi “dalla mera attività di lavoro autonomo” – sembra inevitabile.

La qual cosa non dovrebbe stupire, una volta acquisita la consapevolezza che, già sul piano del diritto civile, come visto, le distinzioni tra professionista e lavoratore autonomo da una parte ed imprenditore piccolo e non dall'altra camminano su parametri quantitativi volti a misurare una produttività – ossia un output, cui corrisponde, pur con tutte le avvertenze del caso, un reddito – eccedente la normalità individuale. Il problema è semmai quello della determinazione di detta normalità individuale, tenuto conto che per costante opinione l'ammontare del reddito in sé considerato è irrilevante al fine di ritenere o meno la esistenza di un'autonoma organizzazione (Cass. civ., Sez. VI-T, 9 marzo 2016, n. 4657).

Conclusioni

La sentenza delle Sezioni Unite oggetto delle presenti note, che volgono al termine, non chiarito a priori il riferimento normativo da cui ricavare che l'impiego soltanto di un collaboratore, piuttosto che di due o tre, determina l'insorgere del presupposto dell'IRAP, neppure chiariscono di che collaboratore si tratti: se di un lavoratore dipendente, full o part time, oppure di un tirocinante o di un praticante.

Non solo: essa, affermando che il presupposto si configura nel caso di avvalimento “in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive”, sembrerebbe stabilire che sino all'impiego di un collaboratore di tal fatta non scatta l'IRAP, oltre sì.

Se le cose stessero in questo modo (ma solo il tempo potrà dire quale piega sui vari argomenti prenderà la prassi anzitutto presso i giudici di merito, i primi a confrontarsi con la realtà), il canone dell'accertamento in fatto dell'autonoma organizzazione fatto proprio da Corte Cost. n. 156/2001, cit., risulterebbe sacrificato sull'altare della certezza del diritto. Sacrosanto il principio della certezza del diritto in specie in una materia, quale quella tributaria, che indirizza le scelte d'impresa, ne risulterebbe minata però l'architettura che sino ad oggi ha consentito di salvare costituzionalmente l'IRAP. Più nel dettaglio, ne conseguirebbe il superamento così di tutte quelle decisioni – tra cui valga ricordare Cass. civ., sez. VI-T, 21 dicembre 2012, n. 23901 – che, anziché riconnettere alla presenza di personale finanche dipendente l'evidenza dell'integrazione del presupposto, preferivano risolvere tale dato empirico in un semplice indizio della sussistenza di un'organizzazione ulteriore a quella strettamente individuale; come di tutte quelle altre – tra cui valga ricordare Cass. civ., sez. VI-T, 25 settembre 2013, nn. 22019, 22020, 22021, 22022, 22023, 22024, 22025 – che, approfondendo la teorica processuale della rottura di automatismi capaci di avvincere in unico vincolo entità eterogenee come allegazioni e presunzioni, propendevano per la necessità di verificare caso per caso natura ed entità dell'apporto aggiuntivo usufruito dal professionista (in particolare, da Cass. civ., sez. VI-T, n. 22019 del 2003, cit., è tratta la seguente massima: “In tema di IRAP, l'applicazione dell'imposta deve trovare giustificazione in una specifica capacità contributiva del soggetto colpito, che coinvolge la capacità produttiva dell'obbligato se accresciuta e potenziata da una attività autonomamente organizzata, nel cui ambito assume rilievo anche la presenza di un solo dipendente – quale elemento potenziatore ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito – senza che di per sé l'apporto del lavoro altrui induca ad affermare il requisito di cui all'art. 2 del D.Lgs. n. 446/1997, spettando tale apprezzamento al giudice di merito; è, così da evitare che l'IRAP si risolva, inammissibilmente, in una mera tassa sui redditi di lavoro autonomo in quanto tali”; in parte motiva di Cass. civ., sez. VI-T, 20 febbraio 2014, n. 4111, si soggiunge che erogare compensi per lavoro dipendente non è condizione sufficiente per integrare il presupposto impositivo dell'IRAP, in quanto solamente il lavoratore dipendente “non occasionale”, cioè strutturalmente inserito nell'organizzazione del professionista, può assumere rilievo al fine dell'assoggettamento al tributo).

Riconosciuta alle Sezioni Unite la saggezza di una decisione pacatamente equilibrata, non può non sottolinearsene la coerenza fattuale ma non anche teorica rispetto alla defiscalizzazione del costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato operata dalla Legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Legge di Stabilità del 2014). Avuto riguardo alla sostanza dei rapporti economici, le Sezioni Unite sottraggono a tassazione l'impiego di un collaboratore e perciò realizzano un risultato analogo a quello della defiscalizzazione, che anzi completano, giacché, mentre la defiscalizzazione è destinata a ridondare soprattutto in favore di attività produttive labour intensive, l'attenzione delle Sezioni Unite è rivolte alle micro-strutture. Incidentalmente sia consentito di far notare che la soluzione delle Sezioni Unite ha il pregio di promuovere la legalità, disincentivando il fenomeno, diffusissimo anche nel settore dei servizi, dell'impiego di lavoratori in nero. Nondimeno, avuto riguardo alla teoria, l'approccio delle Sezioni Unite è antitetico rispetto a quello della defiscalizzazione, giacché, a fronte di una defiscalizzazione che è tale perché muove da un presupposto inclusivo, a tal punto che distorsivamente non opera se l'unità è in perdita, le Sezioni Unite all'opposto argomentano l'esclusione dall'IRAP dei contribuenti che si avvalgono di un collaboratore nelle note condizioni.

Ciò – in uno alle incertezze interpretative che la sentenza delle Sezioni Unite, nel risolverne alcune, sono destinate a creare, tra l'altro in relazione al modo di effettuare il conteggio (banalmente: due lavoratori part time equivalgono ad uno full time?) – non deve sorprendere.

Le sentenze, infatti, non sono trattati di dottrina e le aule di giustizia, pur quando vi si ragiona di raffinatissimo diritto, non sono il luogo di discussione di scelte intimamente politiche.

Passata sotto silenzio la clamorosa inattuazione dell'art. 11 della Legge 11 marzo 2014, n. 23, che, nell'ottica di una “delega al governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”, abilitava un legislatore già di per se stesso non legislatore qual è l'esecutivo a “[chiarire] la definizione di autonoma organizzazione, anche mediante la definizione di criteri oggettivi, adeguandola ai più consolidati principi desumibili dalla fonte giurisprudenziale, ai fini della non assoggettabilità dei professionisti, degli artisti e dei piccoli imprenditori all'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP)”, è passato anche il treno della legge di stabilità del 2015. Com'è noto, infatti, l'art. 1, comma 123, della Legge 28 dicembre 2015, n. 208, modificando l'art. 11, comma 4-bis, D.Lgs. n. 446/1997, raddoppia il valore delle deduzioni forfettarie – ulteriori rispetto a quella ordinaria – per i soggetti minori già agli effetti dell'IRPEF (SCAPPINI, Novità IRAP: esenzione allargata per i produttori agricoli e incremento di deduzioni per i soggetti IRPEF minori, in Il Fisco, 2015): sicché, nel tentativo di alleggerire il peso fiscale degli apporti lavorativi personali, finisce per introdurre un ennesimo fattore spurio, rappresentato dalla contrapposizione tra detti soggetti e società di capitali sul fondamento soltanto del nomen iuris, a prescindere dalla concretezza organizzativa dell'attività svolta. Il sistema comincia a dare segni pericolosi di schizofrenia sol che si pensi che, astretta dall'insuperabile tenore letterale dell'art. 2, secondo periodo, D.Lgs. n. 446/1997, Cass. civ., sez. un., 14 aprile 2015, n. 7371, (Pres. L. A. Rovelli, Rel. A. Greco), si è trovata ad applicare lo stesso criterio del nomen iuris per affermare la presunzione assoluta di assoggettamento all'IRAP di società, anche semplici e tra professionisti, ed enti.

La verità è che i tempi sono maturi per una revisione legislativa dell'IRAP: ciò che però presuppone la saggezza di dover affrontare – nell'ottica del rispetto del principio di eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, che assurge a faro per evitare frammentazioni disciplinari fors'anche suscettibili di un giudizio di disallineamento rispetto all'art. 3, comma 1 Cost. – contenuti spigolosi, i cui svolgimenti peraltro risultano già sviscerati in esperienze straniere più o meno drastiche (come rispettivamente quella francese e tedesca).

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