Il potere del giudice di rilevare d'ufficio le nullità contrattuali
03 Ottobre 2017
Il quadro normativo
L'art. 1421 c.c. legittima a far valere la nullità del contratto chiunque vi abbia interesse e dispone che essa può essere rilevata d'ufficio dal giudice. La nullità contrattuale costituisce, dunque, un vizio che trascende la singola vicenda negoziale tra le parti e che coinvolge esigenze superiori di ordine e di regolarità, alla cui tutela è chiamato a provvedere il giudice. In particolare, l'intervento del giudice è prefigurato senza sottoposizione a condizioni o indicazione di presupposti, fatta salva unicamente la diversa previsione di legge. La norma citata attribuisce all'organo giudicante un potere che dalla lettura testuale appare totalmente libero, sia nelle occasioni che lo fondano e sia nelle modalità di esercizio. La libertà risultante appare completa persino nel compito che la disposizione affida all'ufficio, dato che la norma descrive il potere del giudice come discrezionale: essa afferma che il giudice può rilevare la nullità e non dice, invece, che è tenuto a rilevarla. Nessun dubbio sembra porsi, allora, per l'interprete. Se si è verificata una delle varie nullità che possono viziare il contratto, rientra nei compiti del giudice di farne rilievo, con o senza la concomitante volontà delle parti. In realtà, la concreta applicazione del ricordato art. 1421 c.c. ha rivelato la necessità di sciogliere nodi esegetici di un certo rilievo e la cui soluzione è suscettibile di condurre a conseguenze diverse sul piano concreto. Una delle questioni sorte ha riguardato la stessa doverosità del rilievo della nullità, in antitesi ad una facoltatività che, se intesa alla lettera, lascerebbe il giudice arbitro della validità del contratto e degli interessi delle parti. Ma, prima ancora, si è reso necessario stabilire se l'attuazione del potere del giudice debba restare, oppure no, vincolata alle allegazioni delle parti e al contenuto delle loro domande. Il giudicante può esercitare liberamente la sua prerogativa di rilievo d'ufficio o deve rimanere nei limiti delle richieste sottopostegli e, in specie, di quelle formulate nel solo rispetto delle forme e dei termini di preclusione? Ambito di riferimento
Occorre precisare l'ambito di riferimento delle questioni che si riferiscono all'applicazione dell'art. 1421 c.c.. Ne sono estranee le nullità assolute previste dall'art. 1418 c.c., le nullità, cioè, disposte direttamente dalla legge o che derivano dalla contrarietà delle pattuizioni a norme imperative. Un esempio delle prime può trarsi dallo stesso art. 1418 c.c., il cui secondo comma indica espressamente, tra gli altri casi, l'illiceità della causa del contratto. Per individuare le seconde soccorre il criterio elaborato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte: «… unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità e non già la violazione di norme, anch'esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere fonte di responsabilità …» (Cass., Sez. Un. n. 26724/2007). Si è precisato che la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula che la violazione attenga ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi, cioè, alla struttura e al contenuto del contratto (Cass. civ., n. 19024/2005). Danno luogo a nullità assoluta, rilevabile d'ufficio, la stipula di un contratto verbale di locazione ad opera della P.A. (Cass. civ., n. 12253/2016); la stipula del contratto di locazione senza la forma scritta imposta dall'art. 1 della l. 9 dicembre 1998, n. 431, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all'evasione fiscale (Cass. civ., Sez. Un., n. 18214/2015); la stipula del contratto che è effetto diretto del reato di circonvenzione di incapace, in quanto contrario all'ordine pubblico e all'interesse collettivo (Cass. civ., n. 10609/2017). Le nullità assolute sono rilevabili senza limiti, a meno che la legge appresti un meccanismo idoneo a realizzare ugualmente gli effetti voluti dalla norma. Così, la vendita di un fondo compiuta senza il rispetto delle disposizioni sul diritto di prelazione non dà luogo ad una nullità assoluta perché a tutela dell'avente diritto è disposto il rimedio dell'esercizio del diritto di riscatto (in tal senso, Cass. civ., n. 20428/2008; Cass. civ., n. 8236/2003). Seguono principi diversi le inosservanze che danno luogo all'annullabilità del contratto: situazione che rimane estranea al tema trattato ed alla quale si accenna soltanto per completezza di esposizione. A differenza dalla nullità, l'annullamento del contratto può essere rilevato esclusivamente dalla parte nel cui interesse è posta la relativa facoltà: art. 1441 c.c.. La disposizione codicistica descrive l'annullamento come oggetto e scopo di una domanda apposita e pertanto sembra far intendere che in proposito il tramite attraverso il quale ottenere la relativa dichiarazione giudiziale sia sempre e ordinariamente una domanda da proporre specificamente in tal senso e che apre un giudizio. La giurisprudenza ha tuttavia ripetutamente affermato che l'annullabilità del contratto può essere fatta valere anche in via di eccezione, senza termini di prescrizione. E ciò tanto dal convenuto (Cass. civ., n. 18223/2013; Cass. civ., n. 10638/2012) quanto dall'attore, quando, ad esempio, si tratti di opporre l'invalidità di una clausola contrattuale da controparte invocata per sottrarsi a un obbligo da essa derivante (Cass. civ., n. 10638/2012). Rilievo d'ufficio e corrispondenza tra chiesto e pronunciato
La principale questione in tema di rilievo d'ufficio delle nullità contrattuali ha riguardato il rapporto tra il potere del giudice e il contenuto delle domande delle parti. Al riguardo, si è posto il problema di stabilire se il giudice può rilevare la nullità contrattuale soltanto quando è chiesto, nel giudizio, l'adempimento delle obbligazioni nascenti dall'accordo; oppure, se ammettere che il medesimo potere gli compete anche quando sono chieste la risoluzione o la rescissione o l'annullamento del contratto. In queste ultime situazioni vengono a confrontarsi, e occorre ricomporli, il potere d'ufficio del giudice, descritto dall'art. 1421 c.c. come privo di condizioni, e il principio che fa divieto al giudice di pronunciare extra petita. Una consistente serie di pronunce della Corte di legittimità ha fatto leva sul principio dispositivo e sul dovere del giudice di non pronunciare oltre la domanda per affermare che il potere di dichiarare d'ufficio la nullità del contratto può essere esercitato soltanto se in causa è in contestazione l'applicazione o l'esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda. Se la domanda è diretta a far dichiarare l'invalidità del contratto, non può essere rilevata una causa di invalidità diversa; se la domanda è rivolta a far dichiarare la risoluzione del contratto, il rilievo della nullità o di un qualsiasi fatto diverso dall'inadempimento è inammissibile. In entrambi i casi la decisione eccede i limiti della pronuncia consentita, ex art. 112 c.p.c. (Cass. civ., sez. III, n. 16621/2008; Cass. civ., sez. I, n. 89/2007; Cass. civ., sez. I, n. 12627/2006; Cass. civ., sez. lav., n. 19903/2005; Cass. civ., sez. lav., n. 1811/1999). Secondo questo orientamento, la rilevabilità d'ufficio della nullità del contratto, in ogni stato e grado del processo, può operare soltanto quando l'attore chiede l'adempimento dell'accordo: in questo caso, l'esercizio del potere officioso non concreta una ultra o extra petizione perché il giudice è tenuto a verificare l'esistenza delle condizioni dell'azione e a rilevare d'ufficio le situazioni che, senza ampliare l'oggetto della controversia, comportano una pronuncia di rigetto della domanda. Le pronunce affermative del principio così enunciato hanno il loro fondamento in una esigenza condivisibile, quella, cioè, di mantenere la pronuncia del giudice, anche nell'esplicazione dei poteri d'ufficio, aderente al contenuto della materia del decidere. Non per nulla il citato art. 112 c.p.c. vieta al giudicante di pronunciare “oltre i limiti” della domanda. Tuttavia, se così è, va anche osservato che ogni principio può essere agevolmente rovesciato, se si muta il punto di osservazione o di partenza. Cass. civ., sez. III, n. 2956/2011, ha obiettato che anche le domande giudiziali di risoluzione, rescissione o annullamento del contratto postulano, per poter essere accolte, che non sussistano ragioni determinanti la nullità dell'atto. E conseguentemente ha affermato che il potere d'ufficio del giudice di rilevare la nullità contrattuale può essere esercitato anche quando non è chiesto l'adempimento delle obbligazioni sorte dal contratto; senza, con ciò, incorrere nel vizio di ultrapetizione. In precedenza si era espressa nello stesso senso, isolatamente, Cass. civ., sez. III, n. 6170/2005. Come può notarsi, la soluzione del quesito ha trovato, anche nel sostenere la tesi contraria, un fondamento logico difficilmente opinabile, compatibile con la lettera della legge. Sul punto si sono poi espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con una sentenza-manifesto che si è proposta di risolvere funditus tutte le principali problematiche sorte per l'applicazione dell'art. 1421 c.c.. Il rilievo d'ufficio delle nullità contrattuali, esse affermarono (Cass., Sez. Un., sent.,n. 26242/2014), è consentito con riferimento ad ogni tipo di impugnativa negoziale, di inadempimento, di risoluzione per qualsiasi motivo, di rescissione e di annullamento. Con ciò, le stesse hanno precisato, non si veniva a negare la diversità strutturale di queste azioni sul piano sostanziale, poiché tali azioni sono disciplinate da un complesso normativo autonomo e omogeneo, affatto incompatibile, strutturalmente e funzionalmente, con la diversa dimensione della nullità contrattuale. L'insegnamento della Corte è seguito dalla giurisprudenza successiva (Cass. civ., sez. I, n. 8795/2016) ed è stato recepito dalla giurisprudenza di merito: «La nullità del contratto, a mente dell'art. 1421 c.c., è rilevabile ex officio dal giudice in tutte le ipotesi di impugnativa negoziale, quindi non solo nel caso di domanda di adempimento ma anche in caso di risoluzione per qualsiasi motivo, annullamento e rescissione, senza che si configuri alcuna violazione del principio enunciato dall'art. 112 c.p.c.» (Trib. Bari, sez. II, 21 marzo 2017, n. 1529). Con la loro pronuncia, le Sezioni Unite avevano proseguito oltre. La Corte ha chiarito che il principio da essa affermato (la rilevabilità, comunque, d'ufficio delle nullità contrattuali) deve valere anche quando al giudice è fatta deduzione e allegazione di una nullità diversa. In questo caso, la domanda della parte è pertinente a un diritto autodeterminato, sicchè è individuata indipendentemente dallo specifico vizio dedotto in giudizio. Nello stesso senso si è poi espressa Cass. civ., sez. I, n. 15408/2016. Le stesse Sezioni Unite, con la ricordata sentenza n. 26242/2014, hanno poi indicato la regola da applicare a proposito della nullità totale e della nullità parziale. Anche in questo caso si poneva un quesito attinente alla corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, trattandosi di ammettere che il giudice poteva disattendere la specifica richiesta della parte e dichiarare la nullità dell'intero contratto ove ne fosse stata chiesta la nullità parziale e viceversa. La Corte ha enunciato il criterio da seguire, ponendo una distinzione. Se al giudice è proposta una domanda di nullità integrale del contratto, egli deve rilevarne d'ufficio la nullità solo parziale; e, qualora le parti, all'esito di tale indicazione officiosa, omettano un'espressa istanza di accertamento e dichiarazione in tal senso, deve rigettare l'originaria pretesa, non potendo sovrapporsi alle valutazioni e determinazioni delle parti (l'originaria domanda è disattesa perché, di fatto, una porzione del contratto è valida, sì che non sussiste la realtà di nullità totale invocata dalla parte). Se, al contrario, al giudice è proposta una domanda di nullità parziale del contratto, egli deve rilevare d'ufficio la nullità totale; e, qualora le parti, all'esito di tale indicazione officiosa, omettano un'espressa istanza di accertamento e dichiarazione in tal senso, deve rigettare l'originaria pretesa, non potendo attribuire efficacia, neppure parziale (fatto salvo il diverso fenomeno della conversione sostanziale) ad un negozio radicalmente nullo. La materia è stata ripresa da Cass. civ., sez. I, n. 2910/2016: «Il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne d'ufficio, anche in sede di gravame, la sua nullità solo parziale, ma non può dichiararla in sentenza ove le parti, all'esito di tale indicazione, omettano di proporre, anche, per la prima volta, con l'appello, un'espressa, corrispondente domanda di verificazione, mancando la quale, l'accertamento contenuto nella sentenza che rigetta la domanda di nullità totale è idoneo a produrre l'effetto di un giudicato preclusivo anche con riguardo alla nullità parziale. (Così statuendo, la Suprema Corte ha cassato la decisione impugnata, la quale, a fronte di un'originaria domanda di nullità del contratto di conto corrente bancario, per difetto di forma ed illiceità delle clausole di determinazione degli interessi passivi e di capitalizzazione trimestrale, aveva ritenuto inammissibile, stante il divieto dei "nova", la domanda, proposta per la prima volta in appello, di nullità parziale del medesimo contratto in relazione alla clausola di commissione di massimo scoperto)».
Tipologia delle nullità
L'elaborazione dottrinaria, finissima nell'ambito della contrattualistica, ha posto in luce le così dette nullità di protezione. Esse sono una species delle nullità negoziali e si caratterizzano per il fatto di tutelare, come sanzione per il caso di loro compromissione, interessi e valori fondamentali, superiori a quelli privati delle parti: quali il corretto funzionamento del mercato e l'uguaglianza tra contraenti forti e deboli. In proposito la giurisprudenza non ha avuto dubbi. Affermano le Sezioni Unite, nella citata sentenza n. 26242/2014: «Il rilievo d'ufficio della nullità costituisce irrinunciabile garanzia dell'effettività dei valori fondamentali dell'organizzazione sociale. In questa prospettiva, va affermata la tesi secondo cui la nullità è volta alla tutela d'interessi prettamente generali dell'ordinamento, afferenti a valori ritenuti fondamentali per l'organizzazione sociale. A tale unità funzionale non si sottraggono le nullità di protezione, che presidiano interessi generali sottesi alla tutela di una classe di contraenti». In pratica, le dette Sezioni Unite hanno ricondotto sullo stesso piano le nullità in genere e le nullità di protezione. Tanto è stato effettuato non già con il considerare le nullità di protezione alla stregua delle nullità generali; ma con l'elevare le nullità generali alla funzione speciale cui devono assolvere le nullità protettive. Tutte le nullità contrattuali tutelano valori trascendenti il singolo contraente. E questa vocazione può spiegare l'ampiezza del potere del giudice, chiamato al rilievo d'ufficio anche “oltre i limiti” della domanda. Le Sezioni Unite si sono rese conto che con la loro pronuncia veniva ad essere negata ogni differenziazione tra le nullità contrattuali. L'identità del trattamento, sotto il profilo del loro rilievo in giudizio, rendeva superfluo operare distinzioni sotto il profilo della loro maggiore o minore rispondenza ad interessi superiori. Una diversità, esse hanno affermato, invece sussiste; ed è fornita dallo spazio lasciato al soggetto la cui posizione è protetta dalla nullità di ordine speciale. «Il potere-dovere del giudice di rilevare ex officio la nullità del contratto riguarda tutte le nullità, comprese quelle di protezione. Versandosi in tale ultima ipotesi, il giudice – rilevato e indicato alle parti il vizio – non dovrà però procedere alla sua dichiarazione, qualora il cliente intenda, nonostante ciò, avvalersi del contratto» (Cass. civ., Sez. Un., n. 26242/2014). La protezione offerta dal rilievo della nullità funziona, dunque, se e finchè il soggetto tutelato intende approfittarne. La decisione definitiva appartiene a lui, nel senso che egli, avvisato del vizio contrattuale, può scegliere se servirsi ugualmente dell'accordo (ad esempio, nelle parti favorevoli), in tal modo determinando anche la pronuncia del giudice. La scelta operata con la ricordata pronuncia è stata seguita dalle decisioni successive delle singole sezioni: Cass. civ., sez. III, n. 923/2017; Cass. civ., sez. I, n. 8795/2016. In particolare, con quest'ultima pronuncia la Corte ha precisato che il rilievo officioso delle nullità di protezione opera in funzione del solo interesse del contraente debole, ovvero del soggetto legittimato a proporre l'azione di nullità, in tale modo evitando che la controparte possa – se vi abbia interesse – sollecitare i poteri officiosi del giudice per un interesse suo proprio, destinato a rimanere fuori dall'orbita della tutela. In sostanza, il rilievo della nullità di protezione funziona a senso unico o, meglio, a favore della sola parte protetta. La questione si sposta, dunque, all'individuare esattamente quando una nullità abbia natura di nullità di protezione. Rilievo d'ufficio e preclusioni
Una volta stabilito che il giudice può rilevare d'ufficio qualunque tipo di nullità, resta da accertare quali siano gli elementi dai quali egli trae il fondamento di esercizio del relativo potere. Può l'organo giudicante servirsi di ogni dato che gli risulta dal contenuto degli atti delle parti, in qualunque modo esso sia stato raccolto? Oppure deve limitarsi a utilizzare soltanto i fatti che sono stati acquisiti alla materia del contendere nel rispetto delle forme previste per gli atti processuali e con l'osservanza delle preclusioni stabilite per le attività difensive dei contendenti? L'interrogativo riporta all'esame dell'interprete una questione di ambito più ampio di quello che riguarda il rilievo delle nullità e che impone una breve digressione. A proposito di tutte le eccezioni a rilievo officioso, in genere, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affermarono, qualche anno fa, il principio per il quale la rilevabilità d'ufficio dei fatti modificativi, impeditivi ed estintivi della domanda, configuranti eccezione, presuppone che essi risultino dal materiale probatorio legittimamente acquisito, nel divieto non solo della scienza privata del giudice, ma soprattutto nel rispetto delle preclusioni e delle decadenze disposte a carico delle parti dalle norme processuali (Cass. civ., Sez. Un., n. 1099/1998). Questo fu l'insegnamento che venne seguito dalla giurisprudenza di legittimità e che, dichiaratamente, consentiva di coordinare il potere officioso del giudice con il principio dispositivo e con quello della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato: Cass. civ., sez. III, n. 5952/2014; Cass. civ., sez. lav., n. 8527/2009; Cass. civ., sez. lav., n. 12401/2008; Cass. civ., sez. III, n. 22342/2007; Cass. civ., n. 2035/2006; Cass. civ., n. 4392/2000. Secondo questo orientamento, dunque, il giudice non è autorizzato a desumere i fatti dai quali emerge la nullità contrattuale al di fuori delle allegazioni delle parti e da quanto ha costituito oggetto di prova. Il ritenere diversamente, si era precisato, significherebbe privare di ogni rilievo e ragione l'obbligo di rispettare le forme degli atti del processo e l'intero sistema delle preclusioni. Militano, si aggiunge, a favore della tesi enunciata, anche evidenti ragioni di speditezza e di celerità del processo, compromesse ove si consentissero eccezioni e rilievi senza alcun limite: con pregiudizio per la parte che fidava nella completezza e tempestività della propria difesa, osservante delle formalità processuali; e addirittura con possibile pregiudizio per la parte a cui favore viene rilevata l'eccezione, in ipotesi da essa taciuta per la scelta di una diversa tutela dei propri interessi (Cass. civ., n. 14581/2007). Sempre con riferimento al più generale problema riguardante tutte le eccezioni rilevabili d'ufficio, si è osservato che l'orientamento come sopra riferito, di per sé ineccepibile quanto ad aderenza formale alla normativa, conduce a risultati da considerare inaccettabili. La dottrina ha citato, ad esempio di una evidente incongruenza, l'affermazione per cui il giudice dovrebbe pronunciare la condanna del convenuto alla prestazione pecuniaria sol perché la ricevuta dell'eccepito pagamento è stata prodotta tardivamente. Conseguenze ugualmente paradossali si verificherebbero se fossero prodotte in ritardo le lettere di sollecito dalle quali risulta l'interruzione della prescrizione o la denuncia tempestiva del vizio della cosa compravenduta. Queste, e consimili, osservazioni critiche hanno fatto breccia nella giurisprudenza. Le Sezioni Unite della Corte Suprema (sempre disposte a rivedere i propri punti fermi, con totale serenità) affermarono, con sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 10531/2013, che il rilievo delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis. Il revirement ha trovato questa giustificazione: il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe tradito ove anche le questioni rilevabili d'ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto. In questo senso si è anche pronunciata Cass. civ., sez. II, n. 26858/2013. La Corte ha forzato la stretta lettera della legge in nome della “giustizia” della decisione, vale a dire, della sua aderenza ad una realtà effettiva, concreta, e non soltanto formale. La dottrina è stata, sul punto, più penetrante e più attenta al dettato della legge processuale. Un insigne Autore (V. Battaglia, Le preclusioni nel processo ordinario di cognizione in tribunale, Torino, 2012, 272) ha indicato alcune norme di diritto positivo che consentono di escludere che il potere officioso del giudice possa essere condizionato dalle preclusioni operanti per le parti, fuori dei casi in cui è il legislatore a imporre espressamente dei vincoli. Gli artt. 167, comma 2, c.p.c. e 416, comma 2, c.p.c. impongono preclusioni soltanto per le eccezioni nella disponibilità di parte, vale a dire, per le sole eccezioni in senso stretto che non sono rilevabili d'ufficio. A sua volta, l'art. 345, comma 2, c.p.c. nega l'ammissibilità in appello delle eccezioni che non siano rilevabili d'ufficio, il che significa che per quelle rilevabili d'ufficio vale la regola contraria. Per tornare, dopo questi richiami, al tema delle nullità rilevate dal giudice, può dirsi che quanto riferito alle eccezioni in senso lato vale anche per quelle eccezioni che hanno ad oggetto l'evidenziazione di una nullità del contratto. Sebbene in maniera soltanto incidentale, per questa affermazione si era espressa Cass. civ., sez. II, n. 11847/2003. La tutela del contraddittorio (art. 101 c.p.c.)
Da quanto riferito si conferma che l'interpretazione giurisprudenziale dell'art. 1241 c.c. descrive il potere officioso di rilievo delle nullità contrattuali come libero da condizionamenti, indifferente alla natura dei vizi negoziali e indipendente dalle regole di attività processuale che disciplinano il compimento degli atti di parte. Ne emerge una libertà dell'organo giudicante che appare tanto più rilevante quando la si riferisca alla materia dei contratti: nella quale è massima l'autonomia lasciata ai singoli di determinare da sé la disciplina dei propri interessi. Un potere così ampio di intervento del giudice, quale quello di sindacare la validità delle pattuizioni al di là delle rappresentazioni proposte dalle parti, viene ad incidere, in prospettiva, pesantemente anche sui modi con i quali i singoli pretendono una tutela giudiziaria, potenzialmente eccedente e controproducente rispetto alle loro esigenze. Appare evidente che occorre un meccanismo idoneo a riportare ad equilibrio il sistema. La necessaria forma di tutela è offerta dal disposto dell'art. 101, comma 2, c.p.c. per il quale, ove il giudice ravvisi al momento della decisione una questione rilevabile d'ufficio ma non trattata dalle parti (vale a dire, non resa oggetto di specifico contraddittorio), egli deve assegnare loro un termine per il deposito di memorie contenenti le rispettive osservazioni in proposito. La norma citata risponde opportunamente a finalità di garanzia del contraddittorio; e nella prassi questa finalità è stata efficacemente indicata come quella di evitare le “sentenze a sorpresa”. Anche l'esercizio dei poteri officiosi deve avvenire nella piena trasparenza dei modi e nel rispetto del diritto delle parti di difendersi. In specie, anche e proprio il rilievo delle nullità non indicate al giudice e da lui rilevate d'ufficio, deve essere effettuato con l'osservanza dell'art. 101 c.p.c.. Il giudice deve sospendere la decisione, indicare agli interessati la nullità che ha rilevato e sollecitare le loro osservazioni e conclusioni. Le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass., Sez. Un., sent., n. 26242/2014) hanno considerato questo modo di procedere, doveroso per il giudice, come una applicazione specifica del disposto della norma processuale (si veda anche Cass. civ., sez. I, n. 8795/2016). In un discorso dedicato alle nullità rilevabili d'ufficio, si coglie nel disposto dell'art. 101, comma 2, c.p.c. una prospettiva ulteriore, rispetto a quella, evidenziata, dell'osservanza del contraddittorio. Essa si evidenzia allorchè ci si chiede se il rilievo della nullità, sfuggita alle parti, costituisca per il giudice l'adempimento di un obbligo del suo ufficio. Il rilievo d'ufficio della nullità è un obbligo per il giudice?
Si è ricordato, all'inizio, che l'art. 1421 c.c. stabilisce che il giudice può rilevare anche d'ufficio le nullità contrattuali (ove la legge non stabilisca diversamente). Ma: davvero il giudice ha una facoltà di rilevare una nullità a sua discrezione, così decidendo le sorti di un processo a proprio piacimento? E accordando ragione ad una o all'altra delle parti in giudizio, a seconda che scelga di ignorare un vizio del contratto piuttosto che denunciarlo e dichiararne le conseguenze? L'utilizzo del verbo potestativo può legittimare un esercizio soltanto possibile ed eventuale di un potere giudiziale oppure può indicare, più semplicemente, che al giudice è attribuito un ulteriore potere, rispetto a quelli già conferitigli da altre norme, e del quale fare utilizzo quando ne ricorrono le condizioni. Il disposto della norma citata non può essere inteso nel senso di una discrezionalità affidata al giudicante: con un significato che appare da subito aberrante e contrario a quello che è lo stesso scopo del processo, da individuare nel riconoscere il diritto di chi ha ragione. La giurisprudenza ha fornito una risposta, la quale realizza una forma di compromesso. La Corte di Cassazione, Sez. Un., sent., n. 26242/2014, ha affermato in proposito: «La rilevazione ex officio delle nullità negoziali … è sempre obbligatoria, purchè la pretesa azionata non venga rigettata in base ad una individuata ragione più liquida, e va intesa come indicazione alle parti di tale vizio; la loro dichiarazione, invece, ove sia mancata una espressa domanda della parte pure all'esito della suddetta indicazione officiosa, costituisce statuizione facoltativa (salvo per le nullità speciali, che presuppongono una manifestazione di interesse della parte) del medesimo vizio, previo suo accertamento, nella motivazione e/o nel dispositivo della pronuncia, con efficacia, peraltro, di giudicato in assenza di sua impugnazione». Il sistema, pertanto, funziona in questo modo. Il giudice rileva la nullità e ne avverte le parti. Nel contraddittorio che deve seguirne, spetta ad esse scegliere, condizionando il potere decisorio del giudicante. Se la nullità è di ordine speciale (di protezione), la decisione di avvalersene spetta alla parte tutelata; se della nullità è chiesta la declaratoria, il vizio deve essere formalmente dichiarato, con gli effetti che ne seguono; se le parti (come è improbabile) non propongono richieste, la pronuncia della nullità rimane una facoltà per il giudice. Alle parti viene data, in definitiva, la possibilità di interloquire e difendersi. Ed allora il sistema riacquista una sua intima coerenza. Attraverso l'indicazione della nullità alle parti e la sollecitazione delle loro prese di posizione al riguardo si ritorna al rispetto del fondamentale principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. Il giudice rileva la nullità, suscettibile di imprimere al giudizio un preciso contenuto risolutivo: spetta alle parti modulare le loro domande originarie con la nuova risultanza, dapprima non colta negli atti. L'obbligo di osservanza dell'art. 101 c.p.c era stato affermato anche da Cass. civ, Sez. Un., n. 14828/2012. Nel giudizio di appello e nel giudizio di Cassazione
Il rilievo della nullità contrattuale è libero per il giudice anche nel giudizio di appello. Questa libertà è stata affermata espressamente dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la pluricitata sentenza Cass., n. 26242/2014. Sul punto le stesse Sezioni Unite sono tornate con la successiva pronuncia Cass., n. 7294/2017: «Il potere di rilievo officioso della nullità del contratto spetta anche al giudice investito del gravame relativo ad una controversia sul riconoscimento di pretesa che suppone la validità e l'efficacia del rapporto contrattuale oggetto di allegazione – e che sia stata decisa dal giudice di primo grado senza che questi abbia prospettato ed esaminato, né le parti abbiano discusso, di tali validità ed efficacia – trattandosi di questione afferente ai fatti costitutivi della domanda ed integrante, perciò, un'eccezione in senso lato, rilevabile d'ufficio anche in appello, ex art. 345 c.p.c.». Il principio così enunciato ha costituito oggetto di ripetute pronunce che ne hanno chiarito sia i limiti che l'estensione. Quanto ai limiti, il rilievo d'ufficio è impedito dall'essersi formato il giudicato interno e il giudicato implicito. Ha precisato Cass. civ., sez. I, n. 8795/2016 che il rilievo officioso della nullità – anche speciale o di protezione – è consentito nell'ambito non solo del primo grado di giudizio – nel contesto di un thema decidendum incentrato oltre che sulla domanda di adempimento, altresì su domande di risoluzione o annullamento o rescissione – ma pur nel successivo gravame, sempre per effetto di una pronuncia di merito, ove non si sia formato un giudicato implicito. E' ovvio che se la nullità ha costituito oggetto di trattazione nel primo grado del processo, la questione può essere riesaminata o rilevata d'ufficio soltanto se è riproposta con i motivi di impugnazione (Cass. civ., sez. III, n. 923/2017); e che la mancata rilevazione della nullità, su specifica domanda od eccezione, configura una omessa pronuncia da far valere con i motivi di gravame, altrimenti dando luogo ad una questione preclusa in appello e in Cassazione (Cass. civ., n. 923/2017 cit.). E' soltanto quando viene evitato il giudicato che il giudice di secondo grado può rilevare d'ufficio l'eventuale esistenza di cause di nullità del contratto non ancora rilevate (Cass. civ., sez. VI, n. 8841/2017, nel caso dell'erede convenuto per l'adempimento di un legato che aveva proposto in via riconvenzionale una domanda di annullamento del testamento per falsità della data e che, in appello, aveva contestato la validità del titolo, così impedendo la formazione del giudicato su tale questione: era dunque consentito rilevare d'ufficio il difetto di autografia dell'atto). Quanto all'estensione, si è affermato che, se è inammissibile la domanda di pronuncia di nullità proposta per la prima volta in appello, la stessa può valere come eccezione in senso lato o, il che è lo stesso, come sollecitazione al giudice a far utilizzo del suo potere d'ufficio. Cass., Sez. Un., n. 26243/2014 ha precisato che la domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello, è inammissibile ex art. 345, comma 1, c.p.c., salva la possibilità per il giudice del gravame – obbligato comunque a rilevare d'ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell'art. 101,comma 2, c.p.c. – di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall'appellante, giusta il secondo comma del citato art. 345 c.p.c.. A sua volta, Cass. civ., sez. II, n. 27516/2016 ha aggiunto che la questione di nullità sollevata per la prima volta in appello non come domanda ma come eccezione riconvenzionale, rispetto all'avversa domanda riconvenzionale di pagamento contrapposta a quella principale di risoluzione, è ammissibile ai sensi dell'art. 345 c.p.c., in quanto rimane circoscritta nell'ambito della difesa, senza tendere ad altro fine che non sia quello del rigetto dell'avversa domanda. Nel giudizio di cassazione il rilievo d'ufficio delle nullità contrattuali è consentito quando non si rendono necessari nuovi accertamenti e nuove indagini di fatto, secondo un principio di applicazione generalissima in tale tipo di processo (Cass. civ., sez. II, n. 8478/2000). Fatta salva questa situazione, la Corte non incontra condizionamenti (Cass., Sez. Un., n. 26242/2014). Casi particolari
I principi ai quali si è fatto riferimento hanno applicazione generale e incontrano il limite esplicito del disposto di cui all'art. 1421 c.c., così enunciato: «Salvo diverse disposizioni di legge». Esistono situazioni che inibiscono l'esercizio del potere officioso di rilievo delle nullità per motivi di logica, quali quelle la cui dichiarazione si presenta di natura e di applicazione “più liquida”. Sul rilievo della nullità, cioè, possono prevalere circostanze più radicali, il cui effetto dirimente precede e previene il rilievo suddetto. Un esempio è fornito dal fatto che occorre pur sempre una rituale proposizione della domanda, sì che non può essere chiesta o pronunciata la nullità contrattuale se la domanda è inammissibile in radice (Cass. civ., sez. II, n. 1552/2004). Ma, oltre a queste situazioni, che fanno parte del percorso logico della decisione del processo, ne esistono altre caratterizzate dal fatto per cui il regime delle nullità contrattuali è soggetto ad una disciplina specifica, diversa da quella di cui alle norme dettate come regole generali dal codice civile. Una di queste situazioni è costituita dalla disciplina dettata per il lavoro subordinato a proposito del licenziamento del dipendente. Ha avvertito Cass., sez. lav., n. 7687/2017: «La disciplina dell'invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale dell'invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all'atto e non è idonea a estendere l'oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all'azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ne consegue che il giudice non può rilevare d'ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte...». Al contrario, la giurisprudenza ha affermato che il principio per il quale il giudice, dinanzi al quale è proposta una domanda di nullità contrattuale, deve rilevare d'ufficio (o, comunque, a seguito di allegazione di parte successiva alla editio actionis), ove emergente dagli atti, l'esistenza di un diverso vizio di nullità, essendo quella domanda pertinente a un diritto autodeterminato, si applica estensivamente anche nel sottosistema societario, nell'ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti: e ciò in considerazione di una asserita forza espansiva riconnessa al principio generale (Cass. civ., sez. I, n. 8795/2016). Spetta, dunque, all'interprete il compito di confrontare, di volta in volta, la specifica materia con le regole generali (si pensi alla normativa sulle locazioni, sul matrimonio, sulle unioni civili, sulla privacy, sulla tutela del consumatore…). Guida all'approfondimento
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