Legittimazione del P.M. all’istanza di fallimento in mancanza di un procedimento penale

Chiara Ravina
26 Settembre 2017

La “ratio” dell'art. 7 l.fall., una volta venuto meno il potere del tribunale di dichiarare officiosamente il fallimento, è chiaramente nel senso di estendere la legittimazione del P.M. alla presentazione della richiesta, in tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso la “notitia decoctionis”.
Massime

La “ratio” dell'art. 7 l.fall., una volta venuto meno il potere del tribunale di dichiarare officiosamente il fallimento, è chiaramente nel senso di estendere la legittimazione del P.M. alla presentazione della richiesta, in tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso la “notitia decoctionis” (Cass. 10679 del 2014; 23391 del 2016). Ne consegue che il riferimento contenuto nel comma 1, n. 1), dell'art. 7 della legge fallimentare al riscontro della “notitia decoctionis” “nel corso di un procedimento penale” non deve essere interpretato in senso riduttivo, non essendo necessaria la preventiva iscrizione di una “notitia criminis” nel registro degli indagati a carico del fallendo (Cass. n. 8977 del 2016) o di terzi (Nella fattispecie in esame, la “notitia criminis” era stata appresa dal Pubblico Ministero a seguito dell'esame dei risultati di un'indagine della Guardia di Finanza, trasmessa all'ufficio della Procura, effettuata a seguito di informazioni della Agenzia delle Entrate, dalle quali erano emerse ritenute IRPEF operate e non versate per Lire 103.882,68 nell'anno 2009; Euro 83.494,97 per il 2010 e Euro 88.660,97 per il 2012. Il Pubblico Ministero non aveva però iscritto la “notitia criminis” nel registro dei reati, ma nel Modello 45 – registro degli atti non costituenti reato).

Nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, quando l'iniziativa sia stata assunta dal Pubblico Ministero, affinchè il giudice possa pronunciarsi nel merito è sufficiente che il ricorso sia stato ritualmente notificato all'imprenditore, sicchè è irrilevante la mancata partecipazione della parte pubblica all'udienza prefallimentare, non potendosi trarre da tale condotta alcuna volontà, anche solo implicita, di rinunciare o desistere dall'istanza presentata.

Il caso

La sentenza in esame affronta il tema dell'ambito di operatività della funzione d'iniziativa processuale del Pubblico Ministero in materia di istanza di fallimento. Si tratta di una tematica assai discussa, in particolare dopo la soppressione – ad opera del D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – dell'iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento.

La fattispecie concreta. Il caso da cui origina la decisione della Suprema Corte ha ad oggetto la dichiarazione di fallimento di una s.r.l. pronunciata a seguito dell'istanza del p.m. presso il Tribunale ex artt. 6-7 l.fall.

La particolarità del caso – particolarità che ha costituito uno dei motivi di reclamo avanti la Corte d'Appello di Firenze ex art. 36 l. fall. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento – sta nel fatto che il P.M. non aveva iscritto la “notitia criminis” – appresa a seguito di un'indagine della Guardia di Finanza ed avente ad oggetto l'emersione di ritenute IRPEF operate e non versate per svariate centinaia di migliaia di euro - nel registro dei reati, ma nel Modello 45 (registro degli atti non costituenti reato).

Il tribunale aveva ritenuto che l'istanza del P.M. rientrasse nell'ambito della fattispecie di cui all'art. 7, comma 1, n. 1), l. fall. sulla scorta, quindi, di un'interpretazione estensiva del concetto di “procedimento penale”.

La sentenza dichiarativa di fallimento veniva impugnata con reclamo ex art. 36 l. fall. dalla società dichiarata fallita, che ne sosteneva l'illegittimità per un duplice motivo.

L'iniziativa del P.M. non sarebbe stata sorretta dai presupposti dell'art. 7, comma 1, n. 1), l. fall. mancando, nel caso concreto, un vero e proprio procedimento penale pendente dal quale fosse emersa l'insolvenza della società medesima (“quando l'insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale […]”), posto che, per l'appunto, il P.M. si era al momento limitato a iscrivere la “notitia decoctionis” nel Modello 45.

Inoltre, il tribunale fallimentare avrebbe violato l'art. 15, comma 2, l. fall. e il disposto degli artt. 70 e 71 cod. proc. civ., non avendo proceduto alla convocazione formale del p.m. nell'udienza pre-fallimentare, il quale infatti non vi aveva preso parte. In particolare, secondo il reclamante, la partecipazione del p.m. a tale fase rientrerebbe nell'ambito di applicazione dell'art. 70 cod. proc. civ. con la conseguenza che, in mancanza di intervento, il procedimento pre- fallimentare sarebbe affetto da un vizio di nullità con conseguente illegittimità della sentenza emessa nell'ambito dello stesso.

La Corte d'Appello di Firenze, investita del reclamo, lo respingeva.

La società fallita proponeva ricorso per cassazione, che la S. Corte respingeva.

Le questioni giuridiche

Il contesto di riferimento e l'evoluzione della giurisprudenza e della dottrina sull'iniziativa del P.M. per la dichiarazione di fallimento.

La pronuncia in commento si inserisce nell'ampio dibattito, sorto a seguito della soppressione del fallimento dichiarato d'ufficio, sull'interpretazione da darsi alle circostanze che, ai sensi dell'art. 7 l. fall., legittimano il Pubblico Ministero ad instare per il fallimento.

In particolare, le questioni affrontate sono due: (i) l'esatta individuazione e delimitazione dei presupposti al cui ricorrere è conferito al P.M. tale potere, con particolare riguardo all'interpretazione del concetto di “procedimento penale” di cui al comma 1, n. 1); e (ii) la posizione del P.M. instante per il fallimento nell'ambito del procedimento fallimentare, se cioè essa sia assimilabile a quella delle altre parti (i.e. di un creditore, per esempio), ovvero a quella che il pubblico ministero riveste nei procedimenti in cui è obbligatorio il suo intervento ai sensi dell'art. 70 cod. proc. civ.

Sotto il primo profilo, l'art. 7 l. fall., nella versione vigente, modificata ad opera dell'art. 5 del D.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5, declina due categorie di ipotesi, all'interno delle quali può emergere la “notitia decoctionis”. La prima categoria, prevista al comma 1, numero 1), fa riferimento ai casi in cui l'insolvenza risulta nel corso di un “procedimento penale”, “ovvero” da una serie di ipotesi individuate dal legislatore (fuga dell'imprenditore, trafugamento,….).

La seconda categoria, prevista al comma 1, n. 2), comprende la segnalazione di insolvenza da parte del tribunale che l'abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.

Tralasciamo l'analisi di questa seconda categoria, concentrando la nostra attenzione su quella relativa alle ipotesi di emersione dell'insolvenza “nel corso di un procedimento penale” posto che la fattispecie trattata nella sentenza in commento è riconducibile alla prima categoria.

Orbene, va preliminarmente osservato che il “procedimento penale” cui al n. 1), comma 1, dell'art. 7 l. fall., è stato inteso in dottrina sia come vero e proprio processo penale (nell'ambito del quale il giudice delle indagini preliminari o del dibattimento riferisce alla Procura la notizia di insolvenza), sia come mero procedimento (caso in cui è la stessa Procura a riscontrare la possibilità o situazione d'insolvenza nel corso delle indagini preliminari).

Quanto alle singole ipotesi cui fa poi riferimento il n. 1) - fuga, irreperibilità o latitanza dell'imprenditore, chiusura dei locali dell'impresa, trafugamento, sostituzione o diminuzione fraudolenta dell'attivo – collegate alla parte precedente della norma dalla locuzione “ovvero” e alla declinazione del rapporto con il “procedimento penale”, la dottrina prevalente è dell'avviso che il termine “ovvero” vada inteso in senso esplicativo. In altri termini, secondo la dottrina, la legittimazione del P.M. a chiedere il fallimento sarebbe condizionata al duplice presupposto della previa pendenza di un procedimento penale e dell'emersione in tale sede di uno degli specifici fattori sintomatici di un conclamato stato di decozione che la norma riporta; fattori ritenuti tassativi e che, peraltro, il P.M. dovrebbe attingere nell'ambito delle sue funzioni tipiche esercitate a livello “processualpenalistico” (cfr. A. Clemente – A. Gismondi, sub art. 7, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino 2006; F. Auletta, Limiti alla legittimazione del P.M. all'istanza di fallimento in Riv. Dir. proc. 2011; M. Farina, La legittimazione del P.M. a presentare la “richiesta” di fallimento in caso di insolvenza risultante in sede penale; G.P. Macagno, La Suprema Corte apre nuovi orizzonti all'iniziativa del Pubblico ministero, in Fall. 2/2015).

L'orientamento della dottrina di cui sopra ha trovato riscontro in un precedente di merito della Corte d'Appello di Milano ( sentenza 13 gennaio 2011, in Riv. Dir. proc. 2011, con nota adesiva di F. Auletta, Limiti alla legittimazione del P.M. all'istanza di fallimento), secondo cui, se alla data di presentazione della richiesta di fallimento da parte del P.M. difetta un procedimento penale nei confronti dell'imprenditore, dal cui corso possa essere risultato lo stato di insolvenza, è nulla la relativa dichiarazione di fallimento emessa dal tribunale, che va perciò revocata, né può rilevare che la qualità di parte del procedimento sia stata assunta successivamente. La giurisprudenza di legittimità ha, invece, assunto una posizione ben diversa da quella della dottrina sopra citata. Ed infatti, la Corte di cassazione, con alcune pronunce succedutesi a partire dal 2011, ha apertamente sposato la tesi opposta a quella – esasperatamente restrittiva – fatta propria dalla dottrina prevalente e dal citato precedente della Corte milanese.

La prima presa di posizione esplicita in tal senso è ravvisabile nella sentenza Cass. civ. sez. I 21 aprile 2011, n. 9260 ove si afferma che: “In tema di iniziativa del P.M. per la dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 7 n. 1, l. fall., la doverosità della sua richiesta può fondarsi dalla risultanza dell'insolvenza, alternativamente, sia dalle notizie proprie di un procedimento penale pendente, sia dalle condotte, del tutto autonome indicate in tal modo dalla congiunzione "ovvero" di cui alla norma che non sono necessariamente esemplificative né di fatti costituenti reato né della pendenza di un procedimento penale, che può anche mancare”.

In sostanza, secondo l'arresto di legittimità citato, il Pubblico ministero è legittimato a proporre richiesta di fallimento nel caso in cui abbia attinto la “notitia decoctionis” da indagini assunte nell'ambito di un procedimento penale pendente o, in alternativa, se l'abbia desunta dalla condotta dell'imprenditore estrinsecatasi nei fatti tipizzati dall'art. 7, comma 1, l. fall., senza che questi debbano necessariamente integrare ipotesi di reato.

La predetta interpretazione della congiunzione “ovvero” viene motivata anche in considerazione del fatto che la “privatizzazione” della procedura fallimentare – elemento caratterizzante della riforma attuata con il D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 – non ha certamente fatto venire meno il potere d'iniziativa del Pubblico ministero, che per sua stessa natura e funzione è deputato al presidio del pubblico interesse; a maggior ragione a seguito dell'abolizione dell'istanza di fallimento da parte del tribunale fallimentare.

Come correttamente osservato (G. P. Macagno. cit.) la soluzione adottata dalla Suprema Corte nell'arresto citato trova conforto anche dalla lettura unitaria dell'art. 7 e dell'art. 238, comma 2, l. fall, secondo cui l'azione penale per i reati di bancarotta può essere avviata dal P.M. anche prima della comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento “nel caso previsto dall'art. 7 e in ogni altro caso in cui concorrano gravi motivi e già esista o sia contemporaneamente presentata istanza per ottenere la dichiarazione suddetta”.

L'indirizzo inaugurato dalla Corte di cassazione nel 2011 è stato ripreso e completato da successivi arresti.

Tra le principali pronunce in tal senso, citiamo, in ordine temporale, Cassazione civile, sez. un., 18 aprile 2013, ud. 12 marzo 2013, n. 9409, che per la verità si è pronunciata sul diverso tema della legittimazione del P.M. a instare per il fallimento laddove la “notitia decoctionis” provenga dallo stesso tribunale fallimentare ex art. 7, co. 1, n. 2), l. fall. (che non si è pronunciato a seguito della desistenza del creditore istante). La pronuncia appare comunque di rilievo anche in relazione al caso che ci occupa, in quanto propone un'interpretazione “estensiva” dei presupposti legittimanti l'iniziativa del P.M. ai sensi dell'art. 7 l. fall.

Di rilievo è l'arresto Cass. civ. sez. I., 15 maggio 2014 n. 10679 relativo ad una fattispecie in cui la “notitia decoctionis” era emersa nel corso di indagini concernenti, non già la società poi dichiarata fallita su istanza del Pubblico ministero, bensì la società del gruppo cui essa faceva riferimento.

Orbene, secondo i giudici di legittimità, l'istanza di fallimento del P.M. doveva ritenersi legittima e conforme al disposto dell'art. 7, comma 1, n. 1), l. fall. in quanto l'art. 7 l. fall., nel prevedere la legittimazione del P.M. a richiedere il fallimento, a seguito dell'acquisizione della “notitia decoctionis” nell'ambito di un procedimento penale, non limita quest'ultima nozione ai soli casi in cui esso riguardi condotte poste in essere dallo stesso imprenditore. Ed infatti “L'ampiezza della formula legislativa, che attribuisce la legittimazione del P.M. a presentare la richiesta di fallimento, quando l'insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, senza alcun altra specificazione, esclude che i presupposti dell'iniziativa possano essere circoscritti ai soli casi nei quali il procedimento penale concerna l'imprenditore”.

Di particolare rilievo è poi l'affermazione contenuta nel citato arresto, secondo cui le ipotesi di condotte specifiche contenute nell'art. 7, co. 1, n. 1), l. fall. esprimono, secondo la Suprema Corte “comunque la volontà legislativa, una volta venuta meno la possibilità di dichiarare il fallimento d'ufficio, di ampliare lo spettro della legittimazione del P.M. a tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso la ‘notitia decoctionis'. Tale soluzione si salda logicamente, in un disegno unitario, con l'ampia previsione di cui alla medesima L. fall., art. 7, n. 2 che fa riferimento al procedimento civile "senza limitazioni di sorta", come rilevato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 9409 del 18 aprile 2013) e trova conforto nella puntualizzazione espressa dalla Relazione allo schema di decreto legislativo recante la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, secondo cui la modifica normativa "fa riferimento a qualsiasi ‘notitia decoctionis' emersa nel corso di un procedimento penale".

Il principio espresso dall'arresto sopra citato è stato poi ribadito da Cass. Civ. - Sez. I - 5 ottobre 2015, n. 19797. Qui la Suprema Corte ha statuito che il pubblico ministero è legittimato a chiedere il fallimento dell'imprenditore anche se la notizia della decozione si sia stata da lui appresa nel corso di indagini svolte nei confronti di soggetti diversi dall'imprenditore medesimo.

Anche in questo arresto si sottolinea che la volontà legislativa che emerge dalla lettura delle ipotesi alternative previste dall'articolo 7, comma 1, n. 1 legge fall, una volta venuta meno la possibilità di dichiarare il fallimento d'ufficio, è chiaramente nel senso di ampliare la legittimazione del pubblico ministero alla presentazione della richiesta per dichiarazione di fallimento a tutti i casi nei quali l'organo abbia istituzionalmente appreso la “notitia decoctionis”.

Il medesimo principio, con il richiamo alla volontà legislativa tesa ad ampliare le ipotesi di intervento del P.M., è stato successivamente espresso anche da Cass. civ. sez. VI, 16 novembre 2016 n. 23391 e da Cass. civ., sez. VI, 5 maggio 2016, n. 8977 che hanno ricostruito la “notitia decoctionis” come compatibile con una fonte che sia anche solo l'indagine svolta nei confronti di soggetti diversi o collegati all'imprenditore, con atti di approfondimento, sul piano investigativo, successivi alla formulazione delle richieste in sede penale, essendo sufficiente che "quegli approfondimenti non costituiscano una nuova e arbitraria iniziativa d'indagine, ma si caratterizzino come uno sviluppo di essa, collegato strettamente alle sue risultanze, per quanto non complete, già acquisite nel corso dell'indagine penale".

Più di recente, annoveriamo Cass. civ. sez. VI, 22 marzo 2017, n. 739 relativa ad una fattispecie, in cui la “notitia decoctionis” relativa alla società poi dichiarata fallita era stata appresa nell'ambito di un procedimento autonomo e meramente esplorativo avviato con alcune deleghe di atti di indagine rivolte ai competenti nuclei della Guardia di finanza, laddove i procedimenti penali pendenti riguardavano invece società del gruppo.

Al riguardo, la società fallita, ricorrente in cassazione, aveva lamentato che dai procedimenti penali a carico delle società del gruppo non sarebbe emersa alcuna “notitia decoctionis” relativa alla società fallenda e che tali atti di indagine sarebbero stati del tutto “scollegati” dai predetti procedimenti penali. I giudici di legittimità respingono l'argomentazione del ricorrente sul presupposto che “l'indizio" che ha indotto il P.M. ad operare l'approfondimento istruttorio è da ricercare proprio nel collegamento tra la società fallenda e le altre società del gruppo tutte interessate da procedure fallimentari, talvolta anche partecipate dalla odierna ricorrente e con le quali quest'ultima aveva intrattenuto pregressi rapporti.

Anche in questo arresto viene, quindi, fatta applicazione del principio che riconosce la legittimazione del P.M. ai sensi dell'art. 7, comma 1, n. 1) l. fall. allorchè la “notitia decoctionis” emerga nell'ambito di un procedimento penale pendente a carico di soggetti collegati alla fallenda.

Venendo poi al secondo profilo trattato dalla sentenza in commento, esso attiene alla posizione che riveste il Pubblico ministero instante per il fallimento nell'ambito del procedimento pre-fallimentare. In particolare, la questione esaminata è se la mancata partecipazione del P.M. all'udienza pre-fallimentare comporti la nullità del procedimento per violazione dell'art. 70 cod. proc. civ. ovvero se possa essere qualificata come desistenza dall'azione fallimentare, in coerenza con quanto affermato in alcuni precedenti della Cassazione (cfr., in particolare, Cass. n. 13909 del 2014 citata dalla ricorrente nel caso che ci occupa).

Al riguardo preme evidenziare che – a prescindere dal se il procedimento pre-fallimentare rientri o meno nel novero dei procedimenti in cui è obbligatorio l'intervento del P.M. ex art. 70 cod. proc. civ. – resta il fatto che sussiste un orientamento della giurisprudenza di legittimità, peraltro citato nell'arresto in commento, relativo proprio ai procedimenti ex art. 70 cod. proc. civ., secondo cui la mancata notifica del ricorso per cassazione al P.G. non comporta la nullità del procedimento, laddove il provvedimento impugnato avanti la Suprema Corte sia conforme alle sue conclusioni, così che mancherebbe un suo interesse all'impugnazione (interesse costituito, per l'appunto, dalla soccombenza). Da tale orientamento si può quindi argomentare che la mancata partecipazione del P.M. anche nei procedimenti in cui è obbligatorio il suo intervento non è, entro i limiti sopra descritti, causa di invalidità del procedimento medesimo.

Con riguardo alla questione se la mancata partecipazione del P.M. all'udienza pre-fallimentare integri un'ipotesi di “desistenza”, vi è un recente arresto di merito che si è espresso in senso affermativo (Corte d'Appello Genova, 22 ottobre 2015, secondo cui qualora il fallimento sia stato chiesto dal Pubblico Ministero, la sua mancata comparizione all'udienza fissata ai sensi dell'art. 15 l. fall. configura un'ipotesi di desistenza. A supporto i giudici genovesi citano il precedente della Corte di cassazione n. 13909 del 2014, citato anche dalla ricorrente nel caso in esame); precedente che, tuttavia, non prende, a ben vedere, posizione sulla qualificazione della mancata partecipazione del P.M. all'udienza pre-fallimentare come “desistenza”.

La soluzione offerta

La sentenza in commento si inserisce nell'ambito dell'indirizzo giurisprudenziale, inaugurato da Cass. 9260/2011, che interpreta la nozione di “procedimento penale” ex art. 7, comma 1, n. 1 l. fall. in maniera ampia, esprimendo un'univoca direzione ermeneutica in ordine alla nozione di procedimento penale non coincidente con il processo penale in senso stretto, ovverosia il mero segmento processuale in cui sia stata già esercitata l'azione penale ( “Ove gli esiti dell'indagine evidenzino la “notitia decoctionis”, peraltro, mediante la rappresentazione di esposizioni debitorie verso il fisco astrattamente idonee a costituire fattispecie incriminatrici speciali, il pubblico ministero è pienamente legittimato ad esercitare l'iniziativa di richiedere il fallimento”).

Quanto alla seconda questione relativa alla mancata partecipazione del P.M. all'udienza pre-fallimentare, la sentenza in commento non entra in argomento sul se il procedimento ex art. 15 l. fall. rientri o meno tra quelli per i quali è obbligatoria la partecipazione del Pubblico ministero ai sensi dell'art. 70 cod. proc. civ., limitandosi a citare un orientamento della Suprema Corte che esclude l'obbligatorietà della partecipazione del P.M. nel processo di cassazione – rientrante evidentemente tra quelli di cui all'art. 70 cod. proc. civ. - laddove manchi un interesse dello stesso ad impugnare perché il provvedimento impugnato è conforme alle sue conclusioni.

Con riguardo alla tematica relativa all'equivalenza tra la mancata partecipazione del P.M. all'udienza pre-fallimentare e la desistenza dall'istanza di fallimento, la Suprema Corte non prende, in realtà posizione, sul presupposto che tale motivo di impugnazione era stato dedotto per la prima volta in sede di memoria e quindi costituiva motivo del tutto nuovo e tardivo. I giudici di legittimità non mancano, però, di evidenziare l'inconferenza dei precedenti citati dalla ricorrente a supporto della propria argomentazione (i.e. Cass. n. 13909 del 2014 e Cass. n. 8980 del 2016) sottolineando come, nel primo, la Suprema Corte non prenda in realtà posizione sulla questione specifica e nel secondo si tratti di una fattispecie del tutto diversa da quella oggetto del caso de quo.

Osservazioni e conclusioni

La posizione assunta dalla Suprema Corte in merito all'interpretazione della nozione di “procedimento penale” di cui all'art. 7, comma 1, n. 1) l. fall. va certamente condivisa.

Del resto, tale interpretazione “ampia” è funzionale a fungere da “contrapposto” alla caratterizzazione “privatistica” che permea la procedura fallimentare e le procedure concorsuali in generale, alla luce dei numerosi interventi riformatori che si sono susseguiti a partire dal D.lgs. 9 gennaio 2005, n. 6 (caratterizzazione che pare aver subito un “arresto” con il recente disegno di legge elaborato dalla Commissione Rordorf).

Tale dimensione “privatistica” ha comportato, inter alia, l'abolizione dell'iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento. Ora, a fronte di tale crescente “privatizzazione” delle procedure concorsuali non sono stati, tuttavia, introdotti meccanismi legislativi idonei a fungere da “contrappeso” a tale privatizzazione, tutelando i creditori delle società in difficoltà e, più in generale, il sistema economico nel suo complesso rispetto ai rischi ed agli effetti pregiudizievoli che un'impresa in crisi è idonea a produrre “a cascata” nel mercato. Ci riferiamo, in particolare, alle c.d. procedure d'allerta che, ancora oggi (nonostante i numerosi progetti di legge di riforma che le hanno contemplate – i.e. Commisione Trevisanato e, da ultimo, lo stesso disegno di legge elaborato dalla Commissione Rordorf) non hanno trovato ingresso nel nostro ordinamento e la cui funzione dovrebbe essere per l'appunto quella di prevenire e/o porre rimedio il prima possibile all'insolvenza.

Orbene, in questo contesto, ci pare di poter sostenere che l'interpretazione estensiva della nozione di “procedimento penale” di cui all'art. 7, comma 1, n. 1) l. fall., e in generale dei presupposti che legittimano il P.M., sia funzionale ad enucleare, all'interno del sistema giusfallimentare, un “contrappeso”, da un lato, all'abolizione dell'iniziativa officiosa di fallimento e, dall'altro lato, alla crescente “privatizzazione” delle procedure concorsuali e alla mancanza, nel nostro ordinamento, di procedure d'allerta e/o di meccanismi idonei ad anticipare, nella maniera più efficace possibile, l'emersione dell'insolvenza.

Non solo. L'interpretazione “estensiva” è inoltre funzionale ad evitare che l'accertamento dell'insolvenza – che ha evidentemente una rilevanza pubblica – venga meno per effetto di accordi intercorsi “a livello privato” tra il debitore fallendo ed i creditori instanti per il fallimento. Al riguardo, numerosi sono gli arresti sia di merito che di legittimità che hanno ritenuto legittima la richiesta di fallimento del P.M. (seguita alla desistenza del/i creditore/i) sulla base di segnalazione proveniente, qui, dallo stesso tribunale fallimentare (per tutti Cassazione civile, Sez. un., 18 aprile 2013, ud. 12 marzo 2013, n. 9409; Tribunale Roma 27 gennaio 2010).

Si auspica che tale indirizzo estensivo - con cui si concorda – continui anche a fronte della modifiche future alla legge fallimentare.

Guida all'approfondimento

Per comodità espositiva e per agevolare il lettore si è ritenuto di inserire le pronunce e la dottrina rilevanti nel commento.

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